Il vincolo culturale sul bene locato non impedisce la licenza per finita locazione del contratto commerciale

L'apposizione del vincolo culturale sull'immobile interessa, oltre ai locali e agli arredi, anche la licenza di esercizio tuttavia, tale constatazione non può legittimamente tradursi nell'impossibilità per il locatore di intimare a un determinato conduttore la licenza per finita locazione.

Il caso Nella vicenda in esame era stato notificato ad una società la licenza per finita locazione, in relazione all'immobile oggetto di locazione ad uso commerciale. Costituendosi in giudizio, parte conduttrice rilevava l'esistenza di un vincolo di natura amministrativa e l'esigenza di tutela dell'attività bar quale bene di interesse storico. I giudici di merito, sia in primo che in secondo grado, accolsero la domanda di parte locatrice, dichiarando la cessazione del contratto per finita locazione, così confermando l'ordinanza provvisoria di rilascio. In particolare, secondo la Corte territoriale, pur in presenza di decreti ministeriali e dell'importanza storica, artistica e culturale del bar, ciò non escludeva l'interesse ad agire, in capo al proprietario, per ottenerne il rilascio alla data di scadenza della locazione. Non sussisteva, pertanto, il preteso diritto di proprietà della società conduttrice, quanto piuttosto il vincolo relativo anche alla licenza di esercizio, tale da rendere immodificabile la destinazione commerciale, con conseguente sacrificio del proprietario. Diversamente argomentando, del resto, si sarebbe determinata un'arbitraria proroga con effetti permanenti del rapporto di locazione. Avverso il provvedimento in esame, la società proponeva ricorso in Cassazione, evidenziando che la decisione qui impugnata era in contrasto con il precedente giudicato amministrativo. L'estensione del vincolo Secondo la S.C., nella specie non era configurabile alcuna violazione in quanto la decisione del TAR –adottata per ragioni di rito – si era limitata ad escludere l'interesse a ricorrere contro l'atto impugnato per la ragione che esso era inidoneo a spiegare effetti lesivi sulla posizione dell'allora ricorrente, in quanto detti effetti non erano ad esso ricollegabili. Il cuore delle censure prospettate riguardava, invece, l'interpretazione del significato delle affermazioni del TAR a proposito del vincolo posto e nella sua prospettazione a loro fondamento. Invero, i decreti ministeriali, avente ad oggetto l'estensione dello stesso vincolo al cortile coperto ed al salone con attiguo laboratorio – letto alla luce della citata sentenza del TAR, secondo parte ricorrente avrebbe determinato una sorta di doppia proprietà e di doppio vincolo, nel senso che vi sarebbe stato un nesso inscindibile tra quel bene e lo specifico contratto di locazione dell'immobile. Le limitazioni del proprietario A parere dei giudici di legittimità, invece, il vincolo non poteva essere identificato con quello specifico contratto di locazione e con quello specifico conduttore. Difatti il vincolo apposto dal decreto ministeriale comportava certamente un sacrificio per il diritto dominicale dell'ente ricorrente, limitando la possibilità di destinazione dell'immobile, che doveva essere compatibile con l'attività commerciale svolta nello storico locale, ma detto sacrificio, era legittimo alla luce della legislazione vincolistica, rientrando nel potere conformativo attribuito all'amministrazione con riguardo a categorie particolari di beni. Questa ricostruzione significava che il vincolo istituito aveva oggetto il locale, i preziosi arredi in esso contenuti e la licenza di esercizio, nel senso che il locatore non poteva sottrarre il complesso dello storico bar alla destinazione a suo tempo stabilita ma non poteva certo tradursi in un divieto, a carico del locatore, di intimare uno sfratto – come nel caso specifico – per finita locazione. In sintesi, il vincolo di destinazione d'uso non comportava l'obbligo di esercizio o prosecuzione dell'attività o una sorta di riserva di attività, ma precludeva ogni uso incompatibile con la conservazione materiale della res. L'asportazione del mobilio Non erano meritevoli di accoglimento, inoltre, neppure le ulteriori argomentazioni della parte ricorrente secondo le quali gli arredi e il mobilio non potevano comunque essere asportati dall'interno del locale e nessuno – se non l'attuale conduttore – poteva proseguire nell'attività di gestione avvalendosi dell'insegna dello storico bar. Invero, secondo la S.C., in vista di un'eventuale procedura esecutiva per il rilascio, ove fosse dimostrato che alcuni o tutti beni presenti fossero di proprietà della società oggi ricorrente, poiché si trattava di oggetti che non potevano essere rimossi, proprio a causa del vincolo culturale su di essi apposto, poteva farsi applicazione degli articolo 1592 e 1593 c.c., qualora fosse dimostrata l'esistenza di miglioramenti riconducibili all'odierno conduttore. Quanto, invece, al problema dell'uso dell'insegna dell'antico bar, la prosecuzione dell'attività da parte dei proprietari dovrà avvenire nel rispetto delle norme sui segni distintivi articolo 2563 e ss. c.c. , onde evitare il possibile compimento di atti di concorrenza sleale. Principio di diritto Alla luce delle considerazioni esposte, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso con enunciazione del seguente principio di diritto «Qualora un bene immobile, per il quale sia stato stipulato un contratto di locazione ad uso commerciale, risulti classificato, in base ad un provvedimento amministrativo emesso ai sensi degli articolo 1 e 2 della legge 1° giugno 1939, numero 1089, quale bene di interesse particolarmente importante, determinandosi in tal modo un vincolo artistico e culturale non soltanto sull'immobile, ma anche sugli arredi, le decorazioni, i cimeli storici e la relativa licenza di esercizio, la sussistenza di tale vincolo non si traduce, per il proprietario, nel divieto di intimare al conduttore la licenza per finita locazione, ma soltanto nell'obbligo di garantire la continuità della destinazione del bene nei termini indicati dal provvedimento istitutivo di quel vincolo».

Presidente Frasca – Relatore Cirillo Fatti di causa 1. Con ricorso al Tribunale di Roma l' OMISSIS intimò alla Società OMISSIS s.r.l., ai sensi dell'articolo 657 cod. proc. civ., licenza per finita locazione alla data del 30 settembre 2017, citandola contestualmente per la convalida, in relazione all'immobile oggetto di locazione ad uso commerciale con la nota insegna “ OMISSIS ”. A sostegno della domanda espose, tra l'altro, di aver comunicato una prima disdetta in data 16 ottobre 2013 e una successiva in data 16 ottobre 2015 e che i contatti per la stipula di un nuovo contratto non avevano sortito esito. Si costituì in giudizio la società intimata, chiedendo il rigetto della domanda. Rilevò la resistente, tra l'altro, l'esistenza di un vincolo di natura amministrativa e l'esigenza di tutela dell' OMISSIS quale bene di interesse storico, vincolo risultante dal decreto del Ministero della pubblica istruzione del 23 luglio 1953, emanato ai sensi della legge 1° giugno 1939, numero 1089, confermato dal successivo decreto 6 febbraio 1954 dello stesso Ministero provvedimenti, entrambi, la cui perdurante efficacia tra le parti era stata ribadita dalla sentenza numero 1164 del 2011 del TAR per il Lazio. Il Tribunale – dopo aver emesso l'ordinanza provvisoria di rilascio ai sensi dell'articolo 665 cod. proc. civ. – dispose il mutamento del rito e la società convenuta avanzò domanda riconvenzionale con la quale chiese che fosse pronunciata in suo favore una sentenza costitutiva, ai sensi dell'articolo 2932 cod. civ., per stabilire la prosecuzione del contratto di locazione in corso. Indi, con sentenza definitiva, il Tribunale accolse la domanda dell' OMISSIS , dichiarò cessato il contratto, per finita locazione, alla data del 30 settembre 2017, così confermando l'ordinanza provvisoria di rilascio, rigettò la domanda riconvenzionale e condannò la società convenuta al pagamento delle spese di lite. 2. La pronuncia è stata impugnata dalla parte soccombente e la Corte d'appello di Roma, dopo aver disposto, con ordinanza 5 dicembre 2019, la sospensione dell'efficacia esecutiva della decisione di primo grado, con sentenza del 6 aprile 2021 ha rigettato l'appello e ha condannato l'appellante alla rifusione delle ulteriori spese del grado. 2.1. Per quanto di interesse in questa sede, la Corte territoriale ha osservato, esaminando il primo motivo di appello, che doveva darsi per pacifica sia l'esistenza dei suindicati decreti ministeriali sia l'importanza storica, artistica e culturale del OMISSIS , luogo di ritrovo assai noto sito nel cuore della Capitale. Ciò premesso, la Corte ha dichiarato di condividere la motivazione del Tribunale là dove esso aveva affermato che l'esistenza del vincolo sul bene immobile, da ritenere esteso anche all'attività in esso esercitata, operava sulla destinazione d'uso del bene medesimo, ma non escludeva l'interesse ad agire, in capo al proprietario, per ottenerne il rilascio alla data di scadenza della locazione. Il vincolo, infatti, «non tocca l'efficacia della disdetta e si esaurisce in limitazioni alla facoltà di utilizzazione del proprietario, senza interferenza sul rapporto privatistico di locazione». Non sussisteva, pertanto, il preteso diritto di proprietà della società conduttrice, quanto piuttosto il vincolo relativo anche alla licenza di esercizio, tale da rendere immodificabile la destinazione commerciale, con conseguente sacrificio del proprietario. Diversamente argomentando, del resto, si sarebbe determinata «un'arbitraria proroga con effetti permanenti del rapporto di locazione». La Corte romana ha poi dichiarato che la questione relativa all'applicazione, nel caso di specie, dell'articolo 939 cod. civ. era da ritenere ultronea, posto che la stessa parte appellante aveva dichiarato non essere quella la sede per la valutazione di tale domanda. Proseguendo nella disamina del primo motivo di appello, la Corte territoriale ha giudicato manifestamente infondata, sotto tutti i sollevati profili, la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 657 cod. proc. civ. e dell'articolo 28 della legge 27 luglio 1978, numero 392. 2.2. Quanto al terzo motivo di appello, la Corte di merito ha aggiunto che la presunta violazione degli articolo 20 e 21 del d.lgs. 22 gennaio 2004, numero 42, invocata da parte appellante era priva di fondamento, posto che tali norme non prevedono che il proprietario debba preventivamente denunziare all'Autorità amministrativa la sua intenzione di intimare la disdetta del contratto ovvero la presentazione di una domanda giudiziale di accertamento della finita locazione. I motivi secondo e quarto dell'appello, benché esaminati dalla Corte di merito, non risultano più di rilievo in questa sede. 3. Avverso la sentenza della Corte d'appello di Roma propone ricorso la s.r.l. Società OMISSIS con atto affidato a quattro motivi. Resiste l' OMISSIS con controricorso. Trattato il ricorso nella camera di consiglio dell'8 novembre 2023, questa Corte ha disposto il rinvio alla pubblica udienza, con ordinanza interlocutoria del 5 gennaio 2024, numero 346. Le parti hanno depositato memorie. Il Procuratore generale ha presentato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso si propongono due diverse censure la prima, in riferimento all'articolo 360, primo comma, numero 3 , cod. proc. civ., di violazione e falsa applicazione del giudicato esterno sul contenuto del vincolo di tutela posto sul bene culturale “ OMISSIS ” quale accertato dalla sentenza del Tar del Lazio numero 1164 del 2011 resa tra le parti la seconda, subordinata, in riferimento al medesimo parametro, di violazione e falsa applicazione degli articolo 1362, primo e secondo comma, 1366 e 1367 cod. civ. nella parte in cui la Corte territoriale ha interpretato il contenuto del decreto del Ministro della pubblica istruzione del 27 luglio 1953. Sostiene la ricorrente, a proposito della prima censura, che la Corte di merito, per accertare l'effettiva portata del vincolo amministrativo, sarebbe dovuta partire proprio dal giudicato esterno formatosi tra le parti, e cioè dalla sentenza del TAR del Lazio suindicata. Detta pronuncia, della quale viene trascritta in parte la motivazione, avrebbe accertato, secondo la ricorrente, che il tenore di quel decreto era tale da non lasciare alcun dubbio in ordine all'intenzione dell'Amministrazione statale all'epoca competente di apporre il vincolo non solo sui locali immobile e sugli arredi, cimeli, decorazioni mobili , ma anche sulla licenza di esercizio di talché uno sfratto per finita locazione non avrebbe potuto determinare la cessazione dell'attività del conduttore, anch'essa tutelata. Lo sfratto, quindi, era da ritenere possibile nel rispetto del vincolo di tutela e solo a condizione che il locatore avesse acquistato direttamente o procurato l'acquisto anche dell'attività aziendale svolta dal conduttore. Non sarebbe pertinente, dunque, la giurisprudenza di legittimità richiamata dalla sentenza impugnata, perché non idonea a dimostrare quale fosse, nella specie, l'effettiva natura del vincolo. In definitiva, secondo la ricorrente, il vincolo di tutela era stato interpretato dal TAR, nella citata sentenza, nel senso che non sarebbe tutelata soltanto la destinazione d'uso di alcuni locali nei quali debba continuare a svolgersi un'attività di un certo tipo e neppure sarebbero tutelati soltanto alcuni arredi destinati a rimanere in un determinato immobile ad essere tutelata, invece, attraverso un vincolo notificato volutamente ai due proprietari, sarebbero le distinte componenti di un determinato complesso aziendale, intriso di storia, arte e cultura. La sentenza impugnata, invece, male interpretando il vincolo costituito dal giudicato amministrativo, avrebbe determinato la distruzione di un bene culturale, non considerando che, in assenza di un accordo tra le parti, doveva ritenersi impossibile l'esecuzione dello sfratto. In via subordinata, il primo motivo pone una seconda censura, lamentando la violazione delle norme sull'interpretazione dei contratti, da ritenere applicabili anche al decreto ministeriale istitutivo del vincolo di tutela. In particolare, la sentenza impugnata avrebbe violato l'articolo 1362, primo comma, cit., non considerando che l'intenzione del Ministero era quella di istituire eccezionalmente un vincolo operante nei confronti di due proprietari l'articolo 1362, secondo comma, cit., non considerando l'estensione del vincolo disposta dal d.m. 6 febbraio 1954 nonché l'articolo 1366 cit., in quanto sarebbe contraria alla buona fede un'interpretazione del vincolo di tutela «che conduca alla distruzione di un bene culturale ogni qual volta il locatore decida di intimare uno sfratto». 2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all'articolo 360, primo comma, numero 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli articolo 1,2,3, comma 2, 10, comma 3, 13 e 20 del d.lgs. numero 42 del 2004, e dell'articolo 9 Cost., nella parte in cui la Corte territoriale, confermando la convalida dello sfratto, avrebbe determinato lo smembramento delle due distinte componenti del complesso aziendale per cui è causa, autorizzando la divisione delle due proprietà dei locali da un lato dei mobili e della licenza di esercizio, dall'altro rese indivisibili dal vincolo. La società ricorrente sostiene che la sentenza impugnata avrebbe «consentito ad una delle parti del vincolo il proprietario delle mura di intimare lo sfratto per finita locazione all'altra parte del vincolo, cioè al titolare del complesso aziendale, colui senza il quale non può esistere alcun OMISSIS , perché proprietario del marchio e dell'azienda che opera sotto quel marchio ». In altri termini, un ipotetico nuovo conduttore, «per continuare l'attività aziendale tutelata a marchio OMISSIS l'unica specifica attività che sia possibile svolgere in quell'immobile come prescritto dal vincolo di tutela , dovrebbe acquistare dalla Società OMISSIS l'azienda, e subentrare così in tutti i contratti ad essa inerenti articolo 2558 c.c. , ivi compresi i contratti di lavoro con i circa 40 dipendenti ex articolo 2112 c.c. , i contratti con i fornitori ed anche il contratto di locazione dell'immobile che deve ospitare quell'attività aziendale che non è che uno dei contratti stipulati per l'esercizio dell'azienda ». 3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in relazione all'articolo 360, primo comma, numero 3 e numero 4 cod. proc. civ., omessa pronuncia sulla violazione e falsa applicazione dell'articolo 59 del d.lgs. numero 42 del 2004. La ricorrente ricorda di aver dedotto già in primo grado, e poi ribadito in appello, la questione della violazione dell'articolo 59 cit., punto sul quale mancherebbe totalmente ogni motivazione da parte della Corte d'appello. Richiamato il contenuto della norma, la ricorrente osserva che la modifica materiale e funzionale del OMISSIS non potrebbe avvenire senza previa autorizzazione da parte dell'Amministrazione preposta alla tutela, mentre nel caso in esame l' OMISSIS non solo non aveva denunciato preventivamente la disdetta del contratto di locazione, ma nemmeno l'intimazione della licenza per la fine della stessa, atti questi prodromici e comunque idonei a trasferire la detenzione dell'intero bene tutelato. La mancata denuncia comporterebbe poi, ai sensi dell'articolo 164 del d.lgs. numero 42 del 2004, la nullità degli atti compiuti senza la preventiva comunicazione. 4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in relazione all'articolo 360, primo comma, numero 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell'articolo 939, primo comma, cod. civ., per omesso esame del relativo motivo di appello. La società ricorrente – richiamata la motivazione della sentenza sul punto – rileva che essa avrebbe frainteso il senso della censura. Non si intendeva dire con essa, infatti, che non era quella la sede per esaminare la domanda, ma solo che il rinvio alla separata sede riguardava il secondo comma dell'articolo 939 cit., ma non il primo, la cui applicazione era stata dedotta a fondamento di un'eccezione riconvenzionale rigettata dalla sentenza di primo grado, ribadita in appello e non esaminata dalla Corte di merito. 5. La società ricorrente, infine, torna a proporre, per la denegata ipotesi di rigetto dei precedenti motivi di ricorso, la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 657 cod. proc. civ., in riferimento agli articolo 3,9,41 e 42 Cost., «ove interpretato nel senso che consenta di convalidare la licenza per finita locazione di un immobile anche nel caso in cui questo sia parte integrante di un bene culturale, sottoposto ad un vincolo di tutela, che comprenda la specifica attività aziendale che vi si svolge, di proprietà del conduttore, ed i beni mobili che si trovano al suo interno, parimenti di proprietà del conduttore, e che leghi indissolubilmente tutte le parti del bene culturale vincolato» come nel caso di specie . 6. La Corte osserva che il ricorso, di indubbia complessità, pone una serie di questioni che devono essere esaminate in modo autonomo, tenendo comunque presente che il cuore dell'odierna impugnazione è costituito dai motivi primo e secondo, la cui trattazione avverrà, sia pure in parte, in modo congiunto. 7. Il primo motivo di ricorso pone, come si è detto, due diverse censure, l'una relativa alla violazione del giudicato amministrativo e l'altra alla non corretta interpretazione dell'atto amministrativo istitutivo del vincolo sul bene in questione. Questa seconda censura sarà esaminata insieme a quella del secondo motivo. La prima censura del primo motivo ruota intorno all'affermazione secondo la quale la decisione qui impugnata sarebbe in contrasto con il giudicato amministrativo costituito dalla sentenza del TAR Lazio numero 1164 del 2011. È quindi necessario, per vagliarne la fondatezza, esaminare l'effettiva portata della sentenza in questione. Un rilievo che immediatamente s'impone è, allora, che quest'ultima pronuncia è una decisione di inammissibilità. L' OMISSIS aveva impugnato, in quell'occasione, la determinazione dirigenziale numero 787 del 23 luglio 2003 del Comune di Roma, che aveva attribuito all'esercizio commerciale denominato OMISSIS l'attestato di negozio storico da cui derivano una serie di agevolazioni, soprattutto fiscali . Il ricorrente lamentava che da quel decreto fossero derivati, a carico del proprietario, vincoli ulteriori rispetto a quelli contenuti nel d.m. 23 luglio 1953. Il TAR, dopo aver ricordato che quest'ultimo decreto non era stato a suo tempo impugnato e non poteva, quindi, essere rimesso in discussione, ha osservato che i vincoli derivanti dalla successiva determinazione dirigenziale del 2003 – contestati dall'Ospedale ricorrente – erano già contenuti tutti nel precedente decreto del 1953, rispetto al quale quello impugnato non aveva aggiunto sostanziali novità di qui l'inammissibilità del ricorso . Nel pervenire a tale conclusione, il TAR per il Lazio ha aggiunto, tra l'altro, 1 che il d.m. del 1953 aveva apposto il vincolo non solo sui locali e gli arredi, ma anche sulla licenza di esercizio 2 che quel vincolo comportava certamente un sacrificio del diritto dominicale, ma che si trattava di un sacrificio legittimo, in considerazione del potere conformativo spettante alla P.A passaggi della motivazione, questi, sui quali si tornerà in seguito. Quello che preme evidenziare per ora, alla luce di quanto si è detto, è che non è configurabile, da parte della sentenza della Corte d'appello di Roma, una violazione del giudicato amministrativo. La natura stessa della decisione del TAR – pronuncia, come si è detto, di inammissibilità e, dunque, adottata per ragioni di rito – esclude tale violazione. Il Tar, come emerge dalla motivazione sopra riassunta ed in coerenza con la pronuncia di inammissibilità, si è limitato, in buona sostanza, ad escludere che sussistesse l'interesse a ricorrere contro l'atto impugnato per la ragione che esso era inidoneo a spiegare effetti lesivi sulla posizione dell'allora ricorrente, in quanto detti effetti non erano ad esso ricollegabili, ma lo erano al decreto del 1953. Il giudicato in rito si è formato soltanto sulla rilevata carenza di interesse e non sul modo di essere della situazione giuridica fatta valere con il ricorso. La fondatezza delle ragioni della parte ricorrente sarebbe potuta derivare, semmai, dalla non corretta interpretazione ed applicazione delle norme dettate a proposito dei vincoli artistici e culturali, ma solo se il TAR si fosse pronunciato al riguardo con una decisione di merito, cioè si fosse occupato della sussistenza delle violazioni di legge prospettate dalla società ricorrente nella restante parte del primo motivo e nel secondo motivo di ricorso. La violazione del giudicato amministrativo nei termini pretesi da parte ricorrente, quindi, non sussiste, perché il giudicato formatosi non è quello che la stessa postula. Da tanto deriva che la prima censura qui in esame è priva di fondamento. 8. La Corte deve quindi soffermarsi sulla rimanente parte del primo motivo e sul secondo motivo di ricorso. Il cuore delle censure ivi prospettate, le quali si risolvono in una sorta di interpretazione del significato delle affermazioni del TAR a proposito del vincolo posto nel 1953 e nella sua prospettazione a loro fondamento, è riassumibile in questi termini il d.m. 23 luglio 1953 – al quale si affianca il successivo d.m. 6 febbraio 1954, avente ad oggetto l'estensione dello stesso vincolo al cortile coperto ed al salone con attiguo laboratorio – letto alla luce della citata sentenza del TAR, avrebbe determinato una sorta di doppia proprietà e di doppio vincolo, nel senso che vi sarebbe un nesso inscindibile tra quel bene e lo specifico contratto di locazione dell'immobile. L'esistenza del vincolo relativo non solo alla cosa e ai beni mobili in essa contenuti, ma anche all'attività esercitata nell'immobile, sarebbe tale che lo sfratto per finita locazione non potrebbe determinare «la cessazione dell'attività tutelata, ove svolta, come nel caso, dal conduttore» lo sfratto, in altre parole, sarebbe consentito «solo se, contemporaneamente, il locatore acquisti o procuri l'acquisto dell'attività aziendale svolta dal conduttore». In memoria la società ricorrente ha sostenuto che all' OMISSIS spetterebbe la proprietà dell'immobile inteso come “mura” e a sé stessa quella di tutto il mobilio e degli arredi vincolati. Si dice, in sostanza, che il bene sarebbe unico e che essa ricorrente, conduttrice dell'immobile e titolare della licenza di esercizio sotto la nota insegna di OMISSIS , godrebbe, anche alla luce della suindicata sentenza del TAR, di una posizione di tutela tale da precludere all' OMISSIS la possibilità di intimare la licenza per finita locazione. Nei propri atti difensivi la società ricorrente supporta questa tesi attraverso il richiamo ad alcuni passaggi della sentenza del TAR che sarebbero decisivi in tal senso. In particolare, rammenta che il TAR, riportando alcune parti del citato decreto del 1953, ha osservato che il tenore letterale di quel provvedimento «non sembra lasciare alcun dubbio in ordine all'intenzione dell'Amministrazione statale all'epoca competente di apporre il vincolo non solo sui locali immobile e sugli arredi, cimeli, decorazioni mobili , ma anche sulla licenza di esercizio». Quel vincolo derivava, secondo il TAR, dalla «destinazione attuale del locale consolidatasi nell'arco di circa duecento anni», trattandosi di un caffè storico, testimonianza specifica della storia di Roma sviluppatasi a partire dalla seconda metà del diciottesimo secolo. La parte ricorrente aggiunge che la citata sentenza del TAR ha espressamente escluso che il vincolo di destinazione gravante sul OMISSIS in base al d.m. del 1953 consenta di modificare liberamente l'uso del bene consolidatosi nel tempo, posto che ne verrebbe in tal modo lesa irreparabilmente la sua natura di bene culturale di talché – si osserva nel ricorso con icastica efficacia – la prosecuzione della procedura di sfratto finirebbe per distruggere il bene culturale. 8.1. Questa Corte ritiene che la sentenza del TAR non consenta in alcun modo di trarre dal suo contenuto le conclusioni auspicate dalla società ricorrente. Ed invero appare in modo evidente dalla lettura del provvedimento che il vincolo non può essere identificato con quello specifico contratto di locazione e con quello specifico conduttore. La sentenza più volte richiamata ha osservato, tra l'altro, che il vincolo apposto dal d.m. 23 luglio 1953 «comporta certamente un sacrificio per il diritto dominicale dell'ente ricorrente, limitando la possibilità di destinazione dell'immobile, che dovrà essere compatibile con l'attività commerciale svolta da secoli nello storico locale, ma detto sacrificio, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza numero 118 del 1990, è legittimo alla luce della legislazione vincolistica, rientrando nel potere conformativo attribuito all'amministrazione con riguardo a categorie particolari di beni». Questa ricostruzione viene a significare che il vincolo istituito nel lontano 1953 ha ad oggetto il locale, i preziosi arredi in esso contenuti e la licenza di esercizio, nel senso che il locatore non potrebbe sottrarre il complesso dello storico OMISSIS alla destinazione a suo tempo stabilita ma non può certo tradursi in un divieto, a carico del locatore, di intimare uno sfratto – come nel caso specifico – per finita locazione. Il riferimento al potere conformativo riguardo a categorie particolari di beni viene, del tutto a torto, interpretato dalla ricorrente come riguardante la modalità di godimento dei beni conformati in ossequio al vincolo, cioè – per quanto attiene all'immobile – la concessione in locazione. La materia in questione è stata sottoposta ad un'ampia rielaborazione, in tempi assai recenti, da parte della giurisprudenza amministrativa, grazie ad una pronuncia dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato sentenza 13 febbraio 2023, numero 5 . L'Adunanza plenaria – dopo aver ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale relativo all'ammissibilità di un vincolo culturale di destinazione d'uso, con richiami a pronunce tra loro in contrasto – ha riconosciuto la piena legittimità del potere di imporre limiti all'uso del bene culturale potere che deriva non soltanto dalle specifiche norme del d.lgs. numero 42 del 2004, ma anche dall'articolo 9 Cost. da interpretare alla luce della citata sentenza numero 118 del 1990 della Corte costituzionale . La sentenza ora in esame ha pertanto affermato che non è estranea «al sistema dei vincoli per la tutela delle cose di interesse storico o artistico la previsione del potere amministrativo di porre limiti alla loro destinazione, quando la misura imposta miri a salvaguardare l'integrità o la conservazione del bene». Sulla base di queste premesse, l'Adunanza plenaria ha affermato i seguenti principi 1 i vincoli culturali hanno natura conformativa e non espropriativa 2 la tutela del bene si estende anche al suo uso, quando esso contribuisca alla sua rilevanza culturale 3 il vincolo di destinazione non deve imporre «alcun obbligo di esercizio o prosecuzione dell'attività commerciale e imprenditoriale, né attribuire una “riserva di attività” in favore di un determinato gestore, al quale non può essere attribuita una sorta di “rendita di posizione”» 4 così inteso, il vincolo non viola la libertà di iniziativa economica privata e limita in modo ragionevole il diritto di proprietà. La sentenza ha precisato che il provvedimento di imposizione di un vincolo il quale, lungi dal mirare alla conservazione del valore storico e culturale connesso col bene, si spingesse fino al punto di «far continuare la prosecuzione di una specifica attività commerciale o imprenditoriale» sarebbe illegittimo per sviamento di potere e ciò in quanto «quel che può essere imposto è un divieto di usi diversi da quello attuale, a tutela tanto del bene culturale quanto dei valori in esso incorporati». È il caso di ricordare che, dopo la pronuncia dell'Adunanza plenaria, la causa è tornata alla Sezione competente la quale, decidendo il merito dell'appello, ha confermato che il vincolo di destinazione d'uso non comporta l'obbligo di esercizio o prosecuzione dell'attività o una sorta di riserva di attività, ma preclude ogni uso incompatibile con la conservazione materiale della res sentenza numero 6752 del 2023 pronuncia dettata, non a caso, a proposito di un famoso ristorante sito da tempo assai risalente in un noto palazzo del centro storico di Roma . 8.2. Dalla giurisprudenza di questa Corte si traggono indicazioni che sono pienamente in linea con la giurisprudenza amministrativa. La sentenza 17 febbraio 1995, numero 1737, pronunciata in una vicenda per taluni aspetti simile a quella odierna sfratto intimato in relazione ad un immobile adibito ad uso abitativo, al cui interno i conduttori avevano costituito una libreria riconosciuta, nelle more della procedura di sfratto, come bene rilevante ai sensi degli articolo 1 e 2 della legge numero 1089 del 1939 , ha affermato che il vincolo di destinazione sui beni è irrilevante ai fini dell'esecuzione del provvedimento di rilascio per scadenza del termine della locazione. Il provvedimento amministrativo di vincolo – si legge nella motivazione – intanto può spiegare effetti, in una controversia avente ad oggetto l'immobile vincolato, «in quanto l'oggetto della lite attenga specificamente alla predetta destinazione, ma non anche quando esso riguardi facoltà di godimento e/o di disposizione del bene diverse, ovvero diritti nascenti da un rapporto obbligatorio ed estranei alla destinazione stessa» in quel caso si trattava, appunto, del rilascio conseguente alla finita locazione . Sulla stessa linea si pone anche la sentenza 18 maggio 2001, numero 6814, dettata in una fattispecie simile. Si trattava, in quel caso, dell'ammissibilità di una procedura di sfratto relativa ad un immobile nel quale il conduttore aveva collocato beni culturali di sua proprietà, non rimovibili da quella sede se non a seguito di apposita autorizzazione amministrativa. Questa Corte ha affermato, in tale sentenza, che l'impossibilità di dare esecuzione al provvedimento di rilascio derivante dalla mancata autorizzazione amministrativa alla rimozione dei beni culturali esistenti nell'immobile «non potrebbe mai impedire la pronuncia del provvedimento di condanna al rilascio nella situazione di accertata cessazione del contratto di locazione». In tal caso, infatti, sussiste certamente l'interesse del locatore ad ottenere simile pronuncia e la presunta impossibilità di rimozione dei beni potrebbe al massimo comportare «che i beni medesimi debbano essere considerati quali addizioni non separabili dall'immobile, assoggettati, quindi, alla disciplina di cui agli articolo 1592 e 1593 cod. civ.» viene richiamata, su quest'ultimo punto, la conforme sentenza 9 dicembre 1996, numero 10959 . 8.3. Alla luce della complessa ricostruzione della giurisprudenza civile e amministrativa fin qui compiuta, si possono trarre le dovute conclusioni. La portata del vincolo culturale imposto sui locali dell' OMISSIS e sulla licenza di esercizio deve essere intesa nel senso che il locatore non potrebbe sottrarre il bene con gli annessi arredi e cimeli storici, tanto se anch'essi di sua pertinenza, quanto in caso contrario alla destinazione a suo tempo imposta dall'Autorità amministrativa e mai revocata egli non potrebbe – tanto per fare un esempio – immaginare di destinare quei locali per creare una paninoteca o una discoteca o chissà quale altra attività. Il OMISSIS , in quanto bene immobile carico di oltre due secoli di storia e di vita artistica e culturale della città di Roma, collocato nella centrale Via OMISSIS , non può che avere quella destinazione ma non è giuridicamente prospettabile che simile vincolo si traduca nell'impossibilità, per il locatore, di intimare ad un determinato conduttore la licenza per finita locazione, cioè nell'obbligo di proseguire ad oltranza la locazione con un preciso soggetto. Come correttamente ha rilevato il Procuratore generale nelle sue conclusioni per iscritto, il vincolo non comporta l'obbligo di esercizio o prosecuzione dell'attività o l'attribuzione di una riserva di attività, «ma vale, piuttosto, a precludere, in negativo, ogni uso incompatibile con la conservazione materiale della res», nonché «ad imporre, specularmente, in positivo, la continuità del suo uso attuale». La società ricorrente ha a lungo insistito, tanto nei propri scritti quanto nella discussione avvenuta in pubblica udienza, sulla distruzione e sullo smembramento del bene vincolato che deriverebbe dall'esecuzione dello sfratto, sottolineando come quest'ultimo si risolva nel tentativo di neutralizzazione, da parte di un privato, di un provvedimento amministrativo ed ha poi posto, sia pure in via subordinata, anche il dubbio di legittimità costituzionale dell'articolo 657 cod. proc. civ. nei termini che si sono in precedenza ricordati. Ma, a ben riflettere – anche trascurando l'evidente improprietà di simile dubbio in riferimento ad una norma processuale di portata del tutto generale – la prospettiva deve essere ribaltata, nel senso che la possibile violazione dei parametri costituzionali invocati in particolare, gli articolo 3,24 e 42 Cost. sarebbe prospettabile, in astratto, se si accogliesse la tesi della società ricorrente. In tal modo, infatti, si perverrebbe all'inaccettabile conclusione secondo la quale il locatore si vedrebbe costretto, in un caso come quello odierno, a prolungare senza alcun termine la locazione in corso, mentre la locazione è, per sua stessa natura, un contratto destinato ad una conclusione tale considerazione discende indirettamente dall'articolo 1573 cod. civ., com'è stato recentemente messo in luce, anche se in relazione ad un caso del tutto diverso, dalla sentenza 19 febbraio 2024, numero 4357 . Appare utile ricordare che la Corte costituzionale, con la sentenza numero 185 del 2003, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con il canone della ragionevolezza, l'articolo 52, comma 1, del decreto legislativo 29 ottobre 1999, numero 490, nella parte in cui prevedeva che non fossero soggetti a provvedimenti di rilascio gli studi d'artista ivi contemplati. Nel corpo della motivazione il Giudice delle leggi ha osservato, tra l'altro, che per effetto della citata disposizione, «benché possa essere dedotto in giudizio l'inadempimento delle obbligazioni derivanti da contratti di locazione aventi ad oggetto i predetti beni, non essendo consentita l'emanazione dell'ordine di rilascio si verifica la protrazione forzata di un rapporto nato come contrattuale, la cui causa è venuta meno». Si assisterebbe, in tal modo, al protrarsi della locazione per un tempo indefinito, con «evidente sacrificio dei diritti del locatore, poiché l'assoluta indeterminatezza del periodo di tempo nel quale gli studi d'artista non sono soggetti ai provvedimenti di rilascio genera una illimitata continuazione del rapporto», contraria, appunto, al principio di ragionevolezza. L'accoglimento della tesi della società ricorrente verrebbe a determinare, in altri termini, una sorta di espropriazione del diritto di proprietà in assenza di una deliberazione della P.A. e in mancanza di ogni indennizzo salvo, ovviamente, il corrispettivo del canone locativo situazione, questa, incompatibile col quadro costituzionale e del tutto irragionevole da un punto di vista pratico. E non è un caso, probabilmente, che la società ricorrente abbia abbandonato, nel corso del giudizio di merito, la domanda finalizzata ad ottenere, ai sensi dell'articolo 2932 cod. civ., la pronuncia di una sentenza costitutiva che tenesse luogo del contratto di locazione disdettato pronuncia che sarebbe stata, alla luce di quanto si è detto, pacificamente inammissibile. 8.4. Non meritano accoglimento, inoltre, neppure le ulteriori argomentazioni della parte ricorrente secondo le quali gli arredi e il mobilio non potrebbero comunque essere asportati dall'interno del locale e nessuno – se non l'attuale conduttore – potrebbe proseguire nell'attività di gestione avvalendosi dell'insegna “ OMISSIS ”. Si impongono, a questo proposito, le seguenti considerazioni. Nel giudizio odierno non è in discussione la proprietà degli arredi, del mobilio e dei cimeli storici esistenti all'interno del OMISSIS , per cui non è il caso di soffermarvisi in modo specifico. Quel che si può dire, anche in vista di un'eventuale procedura esecutiva per il rilascio, è che, ove fosse dimostrato – cosa che certamente non è oggetto del dibattito processuale in questa sede e, dunque, resta estranea al decisum relativo al rilascio per la finita locazione – che alcuni o tutti beni presenti sono di proprietà della società oggi ricorrente, poiché si tratta di oggetti che non possono essere rimossi, proprio a causa del vincolo culturale su di essi apposto, potrà farsi applicazione, alla stregua di quanto già indicato dai suindicati precedenti di questa Corte, degli articolo 1592 e 1593 cod. civ., qualora si verifichi l'esistenza di miglioramenti riconducibili all'odierno conduttore. Quanto, invece, al problema dell'uso dell'insegna OMISSIS , attualmente nella disponibilità della società ricorrente, si tratta di una questione che anch'essa esula dai limiti del presente giudizio. La sola cosa che può dirsi è che la prosecuzione dell'attività da parte dei proprietari dovrà avvenire nel rispetto delle norme sui segni distintivi articolo 2563 e ss. cod. civ. , onde evitare il possibile compimento di atti di concorrenza sleale. 8.5. Alla luce di tutte queste considerazioni la Corte ritiene di dover dichiarare infondati il primo ed il secondo motivo di ricorso. Il dubbio di legittimità costituzionale dell'articolo 657 cod. proc. civ. è, per quanto si è detto, manifestamente infondato. 9. Si deve passare, a questo punto, all'esame del terzo motivo di ricorso, il quale è inammissibile. La società ricorrente con esso lamenta la violazione dell'articolo 59 del d.lgs. numero 42 del 2004, che impone l'obbligo di previa denuncia al Ministero degli atti che trasferiscono, in tutto o in parte, la proprietà o la detenzione dei beni culturali. La censura, come correttamente osserva il Procuratore generale nelle sue conclusioni, è probabilmente nuova, perché dalla motivazione dell'impugnata sentenza si deduce che nel giudizio di appello era stata ipotizzata la lesione di altre disposizioni del citato codice dei beni culturali, cioè quelle degli articolo 20 e 21. Ma comunque sia, ove anche tale novità non vi fosse, la doglianza sarebbe infondata, perché è evidente che l'articolo 59 cit., alla violazione del quale l'articolo 164 del d.lgs. numero 42 del 2004 ricollega la sanzione della nullità dell'atto, ha ad oggetto gli atti di trasferimento della proprietà cosa nettamente diversa dall'intimazione dello sfratto per finita locazione, e ciò anche alla luce di quanto si è detto a proposito degli arredi. 10. Il quarto motivo di ricorso è pure inammissibile. In esso la società ricorrente si duole del fatto che la Corte d'appello, osservando che la stessa appellante aveva affermato non essere quella la sede per discutere della domanda di cui all'articolo 939 cod. civ., avrebbe frainteso la pretesa realmente avanzata. Ciò in quanto – secondo la società ricorrente – il rinvio alla separata sede concerneva il secondo comma, ma non il primo, dell'articolo 939 citato per cui la censura parrebbe essere di omessa pronuncia. Osserva il Collegio che il motivo è formulato in modo non autosufficiente, perché il ricorso non dà conto con precisione dei termini nei quali la questione è stata proposta in primo grado e ribadita in appello ma comunque, per quanto emerge dal contenuto del più volte citato decreto 27 luglio 1953, appare fuor di luogo ipotizzare che da questo possa dedursi l'invocata inapplicabilità della disciplina delle locazioni. 11. Il ricorso, pertanto, è rigettato, con enunciazione del seguente principio di diritto «Qualora un bene immobile, per il quale sia stato stipulato un contratto di locazione ad uso commerciale, risulti classificato, in base ad un provvedimento amministrativo emesso ai sensi degli articolo 1 e 2 della legge 1° giugno 1939, numero 1089, quale bene di interesse particolarmente importante, determinandosi in tal modo un vincolo artistico e culturale non soltanto sull'immobile, ma anche sugli arredi, le decorazioni, i cimeli storici e la relativa licenza di esercizio, la sussistenza di tale vincolo non si traduce, per il proprietario, nel divieto di intimare al conduttore la licenza per finita locazione, ma soltanto nell'obbligo di garantire la continuità della destinazione del bene nei termini indicati dal provvedimento istitutivo di quel vincolo». In considerazione, peraltro, della complessità e parziale novità delle questioni trattate e del notevole rilievo che il bene immobile in questione riveste, la Corte stima equo compensare integralmente le spese del giudizio di cassazione. Sussistono tuttavia le condizioni di cui all'articolo 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, numero 115, per il versamento, da parte della società ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese del giudizio di cassazione. Ai sensi dell'articolo 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, numero 115, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte della società ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.