Impossibile giustificare l’azione compiuta da una donna, sostenendo che quest’ultima abbia semplicemente reagito ad un disservizio.
Definire “mezzacalzetta”, “incompetente” e “mela marcia”, per giunta in un video condiviso online, una dipendente pubblica è condotta catalogabile come diffamazione in piena regola. Impossibile giustificare l’azione compiuta dal privato cittadino sostenendo che quest’ultimo abbia semplicemente reagito, di pancia, a un disservizio. Scenario dell’episodio, risalente al luglio del 2015, è un ospedale in Veneto. All’epoca, una donna – ora sotto processo – si reca nella struttura per ritirare un referto e provvedere al relativo pagamento, ma lì arriva per lei l’amara sorpresa il ticket richiesto è di 480 euro, come le comunica un’addetta del “Centro Unico Prenotazioni”, e non di 411 euro, come annunciatole in laboratorio in occasione del controllo cui si era dovuta sottoporre. Questo imprevisto rincaro provoca la reazione della privata cittadina, che prima aggredisce verbalmente la dipendente del nosocomio e poi, non soddisfatta, prende il proprio smartphone ed effettua, sempre all’interno della struttura, un filmato in cui racconta in dettaglio l’episodio e definisce “mela marcia”, “incompetente” e “mezzacalzetta” l’addetta del C.U.P. Inevitabile lo strascico giudiziario, anche perché il video realizzato viene condiviso più volte dalla donna su Facebook e poi, in un’occasione, anche sul sito web di una testata giornalistica. E proprio la diffusione on line delle parole pronunciate dalla donna è decisivo, secondo i giudici di merito, per ritenere la dipendente dell’ospedale vittima di una diffamazione in piena regola. A salvare la donna sotto processo è però la prescrizione, che, tuttavia, non le evita di dovere provvedere ad un adeguato ristoro economico in favore della addetta del C.U.P Col ricorso in Cassazione, però, l’avvocato difensore della donna prova a ridimensionare l’episodio oggetto del processo. Nello specifico, «sono stati ritenuti offensivi della reputazione della vittima gli epiteti «mezzacalzetta», «incompetente», «mela marcia tra gli uffici pubblici» a lei rivolti dalla donna nel video da questa pubblicato sul profilo Facebook, video nel corso del quale rendeva noto il comportamento assunto dalla parte offesa, infermiera addetta al servizio “Centro Unico Prenotazioni” del nosocomio, in occasione del pagamento del ticket per un esame diagnostico, senza considerare», sostiene il legale, «che le espressioni utilizzate, lungi dal voler offendere le qualità morali e intellettuali o psichiche della vittima, rappresentavano, in realtà, una critica alle modalità di approccio professionale da lei usate nel rapportarsi con l’utenza». Ragionando sempre in questa ottica, poi, il legale aggiunge che la sua cliente «si era limitata a criticare l’atteggiamento professionale della vittima all’esito di un comportamento che, in buona sostanza, le era apparso inutilmente burocratico e scarsamente collaborativo» e precisa che «la condotta della donna era stata determinata dal disservizio subito, ossia la richiesta di pagamento del ticket per un valore superiore a quello preventivato, che le aveva causato uno stato di forte agitazione». Per i magistrati di Cassazione, però, la tesi difensiva non può reggere, una volta accertati i dettagli dell’episodio. In sostanza, ricostruito l’antefatto, costituito dall’incomprensione, intercorsa tra la parte offesa, operatrice del C.U.P., e la donna sotto processo, in merito alla differenza tra la somma inizialmente comunicata come dovuta a titolo di ticket e il pagamento richiesto al momento della consegna dell’esame cui la donna si era sottoposta presso l’ospedale, «il video, girato e commentato dalla donna nel mentre l’operatrice del C.U.P. procedeva al suo lavoro e dava spiegazioni in merito all’inconveniente che si era verificato, nonché da lei pubblicato sulla pagina Facebook personale, rientra nella cornice fattuale della diffamazione», chiariscono subito i Giudici. Ciò perché «le espressioni usate nel commento denotano una vis dispregiativa nei confronti della destinataria, in quanto si risolvono, stricto sensu, in un attacco personale sul piano individuale, esorbitante ai limiti di un’ammissibile facoltà di critica, essendo censurata la persona in sé, e, pertanto, esse non possono ritenersi alla stregua di una mera manifestazione di dissenso delle metodologie lavorative e professionali utilizzate dalla addetta del C.U.P.». Per i Giudici, quindi, «le espressioni incriminate sono state impiegate» dalla donna sotto processo «per arrecare un vulnus alla persona offesa, e non, invece, per argomentare, nell’immediatezza, un mero giudizio sul disservizio». Di conseguenza, «con le espressioni utilizzate nei confronti dell’addetta al servizio C.U.P., la donna ha travalicato il limite della continenza nell’esercizio del diritto di critica, in quanto le parole utilizzate sono risultate palesemente «non proporzionate, né pertinenti al tema della critica ai metodi di lavoro» della dipendente dell’ospedale. Ad avviso dei Giudici, quindi, «la qualificazione della lavoratrice come essere spregevole è univocamente ed esclusivamente interpretabile come offesa personale diretta a screditare non l’operato professionale della stessa lavoratrice, ma, all’evidenza, la persona in sé considerata». Per completare il quadro, poi, viene richiamato anche «l’atteggiamento aggressivo e sgradevole riservato» dalla donna alla persona offesa. Invero, «l’accusa di non aver voglia di lavorare e l’invito a lasciare il posto di lavoro a persone più competenti, e soprattutto più gentili, rappresentano espressioni del tutto esorbitanti rispetto all’asserita finalità di mera disapprovazione del metodo di lavoro adottato dalla addetta del C.U.P., metodo risultato, peraltro, corretto rispetto al sistema adottato dalla struttura ospedaliera», e per questo vanno giudicate «idonee a ledere la dignità professionale della lavoratrice». Impossibile, infine, catalogare il video diffuso online come mera reazione della donna in preda ad uno stato d’ira causato dall’imprevisto aumento della cifra da pagare. Su questo fronte i magistrati sono netti «le modalità con cui si sono svolti i fatti evidenziano che la donna si determinò a pubblicare e commentare malamente la vicenda in quanto non appagata dello sfogo personale avuto in occasione dell’episodio, ritenendo, pertanto, di portare all’attenzione dei più la vicenda in questione. Non è dato cogliere in tale condotta, dunque, il nesso causale tra fatto e reazione, avendo la donna, esaurita la spinta emotiva determinante l’aggressione verbale, dato spazio al diverso sentimento della ritorsione vendicativa. Ragionevolmente, poi, è stata esclusa la contiguità temporale, posto che dagli atti è emerso che la donna non solo ebbe a pubblicare, ripetutamente e anche a molta distanza di tempo dall’episodio, il video sul suo profilo Facebook, ma che lo pubblicò anche sul sito web» di una testata giornalistica. Infine, si è appurato che «la condotta tenuta dalla dipendente dell’ospedale fu conforme alla procedura, e di tanto la donna fu edotta nell’immediato, ma ella, anziché rappresentare l’episodio presso le sedi competenti, spinta più dal desiderio di rivalsa che di denuncia, si determinò a pubblicare e commentare il video online».
Presidente Pezzullo – Relatore Carusillo Ritenuto in fatto 1. Il difensore di M.M., avv. Cesare Dal Maso, ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte d'appello di Venezia che, in parziale riforma della decisione con la quale il Tribunale di Vicenza ha affermato la penale responsabilità dell'imputata di più episodi di diffamazione, ha dichiarato non doversi procedere perché estinto il reato per intervenuta prescrizione e ha confermato la condanna della stessa al risarcimento del danno in favore della vittima. 2. La difesa articola tre motivi di ricorso. 2.1 Con il primo motivo, proposto ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lett. b ed e , cod. proc. penumero per violazione di legge in relazione all'articolo 595 cod. penumero e per vizio di motivazione, lamenta che i giudici di merito hanno ritenuto offensivi della reputazione della vittima, gli epiteti rivolti alla stessa dall'imputata omissis nel video pubblicato sul profilo omissis , nel corso del quale rendeva noto il comportamento assunto dalla parte offesa, infermiera addetta al servizio Centro Unico Prenotazioni del nosocomio di omissis , in occasione del pagamento del ticket per un esame diagnostico, senza considerare che le espressioni utilizzate, lungi dal voler offendere le qualità morali e intellettuali o psichiche della vittima, rappresentavano, in realtà, una critica alle modalità di approccio professionale usate dalla stessa nel rapportarsi con l'utenza. 2.2 Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lett. b ed e , cod. proc. penumero per violazione di legge in relazione all'articolo 51 cod. penumero e per vizio di motivazione, lamenta che i giudici di merito hanno escluso la ricorrenza dell'esimente del diritto di critica, anche nella forma putativa, senza considerare che l'imputata si era limitata a criticare l'atteggiamento professionale della vittima all'esito di un comportamento che, in buona sostanza, le era apparso inutilmente burocratico e scarsamente collaborativo. 2.3 Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lett. b , cod. proc. penumero per violazione di legge in relazione all'articolo 599 cod. penumero , lamenta che i giudici di appello hanno escluso la ricorrenza dell'esimente della provocazione, omettendo di considerare che la condotta dell'imputata era stata determinata dal disservizio subito - la richiesta di pagamento del ticket per un valore superiore a quello preventivato -, che le aveva causato uno stato di forte agitazione. Considerato in diritto 1. Nella specifica materia della diffamazione, il giudice di legittimità può conoscere e valutare l'offensività della frase che si assume lesiva dell'altrui reputazione, avendo il compito di procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie Sez. 5, numero 48698 del 19/09/2014, Demofonti, Rv. 261284 Sez. 5, numero 41869 del 14/02/2013, Fabrizio, Rv. 256706 Sez. 5, numero 832 del 21/06/2005, Travaglio, Rv 233749 Sez. 5 , numero 2473 del 10/10/2019, dep. 2020, Fabi, Rv. 278145 . 2. Privi di pregio sono il primo e il secondo motivo, che possono essere trattati congiuntamente. 2.1 I giudici di merito, dopo aver ricostruito l'antefatto, costituito dall'incomprensione intercorsa tra la parte offesa, operatrice del c.u.p., e l'imputata, paziente assistita, in merito alla differenza tra la somma inizialmente comunicata come dovuta a titolo ticket e il pagamento richiesto al momento della consegna dell'esame cui l'imputata si era sottoposta presso l'Ospedale civile di omissis , hanno sostenuto che - il video, girato e commentato dall'imputata nel mentre l'operatrice del c.u.p. procedeva al suo lavoro e dava spiegazioni in merito all'inconveniente che si era verificato, invitando l'imputata a risolvere la questione nella sede competente, nonché pubblicato dell'imputata sulla sua pagina omissis , rientra nella cornice fattuale della diffamazione - le espressioni usate nel commento denotano una vis dispregiativa nei confronti della destinataria, in quanto si risolvono stricto sensu in un attacco personale sul piano individuale, esorbitante ai limiti di un'ammissibile facoltà di critica, essendo censurata la persona in sé e che, pertanto, non possono ritenersi alla stregua di una mera manifestazione di dissenso delle metodologie lavorative e professionali utilizzate dalla vittima - le espressioni incriminate erano state impiegate per arrecare un vulnus alla persona offesa e non, invece, per argomentare, nell'immediatezza, un mero giudizio sul disservizio. 2.2 I giudici di merito hanno ritenuto che, con le espressioni utilizzate nei confronti dell'addetta al servizio c.u.p., l'imputata abbia travalicato il limite della continenza nell'esercizio del diritto di critica, in quanto non proporzionate, né pertinenti al tema della critica ai metodi di lavoro. 3. La decisione assunta dai giudici di merito si pone in armonia con i consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità sul rispetto del limite della continenza, che rappresenta uno dei presupposti per il riconoscimento dell'esercizio del diritto di critica, esimente, questa, che postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che, dunque, non trasmodi nella gratuita e immotivata aggressione dell'altrui reputazione, consentendo l'utilizzo di termini oggettivamente offensivi solo nel caso in cui gli stessi siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, in quanto privi di adeguati equivalenti Sez. 5, numero 15089 del 29/11/2019, dep. 2020, Cascio, Rv. 279084 Sez. 5, numero 17243 del 19/02/2020, Lunghini, Rv. 279133 Sez. 5, numero 31669 del 14/04/2015, Marcialis, Rv. 264442 . Ad avviso dei giudici di merito, la qualificazione della parte civile come essere spregevole era univocamente ed esclusivamente interpretabile come offesa personale diretta a screditare non l'operato professionale della stessa, ma, all'evidenza, la persona in sé considerata. A tanto si aggiunga che il contesto fattuale in cui è avvenuto l'episodio e il suo reale avvicendarsi - quale emerso dalle risultanze istruttorie - risulta diverso dalla narrazione edulcorata e parziale resa dall'imputata, che ha narrato la vicenda omettendo di riferire l'atteggiamento aggressivo e sgradevole riservato alla vittima. Invero, l'accusa di non aver voglia di lavorare e l'invito di lasciare il posto di lavoro a persone più competenti e soprattutto più gentili, rivolto alla stessa, rappresentano espressioni del tutto esorbitanti rispetto all'asserita finalità di mera disapprovazione del metodo di lavoro adottato dalla parte offesa - risultato, peraltro, corretto rispetto al sistema adottato dalla struttura -, e per questo giudicate idonee a ledere la dignità professionale dell'assistente al servizio c.u.p. Sul punto vale la pena aggiungere che con la parola omissis si intende una persona di mediocri capacità o di scarsa importanza, e con il termine omissis si indicano persone che fanno uso in modo costante della negatività e del sopruso e che con il loro comportamento contagiano l'intera struttura nella quale operano causando stress, sofferenza e scarsa produttività. Consegue l'infondatezza di entrambi i motivi di ricorso. 4. Privo di pregio è anche il terzo motivo. L'articolo 599, comma secondo, cod. penumero , secondo cui «Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dall'articolo 595 nello stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso» si propone come espressione di una scelta del legislatore che, in presenza di un fatto ingiusto, ritiene non punibile la reazione immediata della persona offesa che, a sua volta, abbia offeso o offenda la reputazione o l'onore dell'autore del comportamento ingiusto. Fatto ingiusto è non solo quello contrario al diritto altrui o alle regole imposte dall'ordinamento giuridico, ma anche quello che, in determinate condizioni di tempo e di luogo e tenuto conto dei rapporti tra le parti, riveli un atteggiamento inopportuno ed espressivo di arroganza da parte di chi lo realizza, o, ancora, quello non conforme alle regole morali o sociali o della convivenza civile Sez. 5, numero 21133 del 09/03/2018, Iachetta, Rv. 273131 . Inoltre, la causa di non punibilità ricorre allorché il fatto offensivo rappresenti una reazione al fatto ingiusto altrui «e subito dopo di esso» Sez. 5, numero 30502 del 16/05/2013, Quaretti, Rv. 257700 e, dunque, in termini di reale contiguità temporale, così da escludere che il fatto ingiusto altrui diventi pretesto di aggressione alla sfera morale dell'offeso, da consumare nei tempi e con le modalità ritenute più favorevoli. 4.1 Nel caso di specie, le modalità con le quali si sono svolti i fatti evidenzia che l'imputata si determinò a pubblicare e commentare malamente la vicenda, in quanto non appagata dello sfogo personale avuto in occasione dell'evento, ritenendo, pertanto, di portare all'attenzione dei più la vicenda in questione. Non è dato cogliere in tale condotta, dunque, il nesso causale tra fatto e reazione, avendo l'imputata, esaurita la spinta emotiva determinante l'aggressione verbale, dato spazio al diverso sentimento della ritorsione vendicativa. Ragionevolmente, è stata esclusa la contiguità temporale, posto che dagli atti è emerso che l'imputata non solo ebbe a pubblicare, ripetutamente e anche a molta distanza di tempo dall'episodio, il video sul suo profilo omissis , ma che lo pubblicò anche sul sito web omissis , con il quale collaborava. 4.2 Dalla lettura delle sentenze di merito si evince che la condotta tenuta dalla vittima fu conforme alla procedura e che di tanto l'imputata fu edotta nell'immediatezza, ma che la stessa, anziché rappresentare l'episodio presso le sedi competenti, spinta più dal desiderio di rivalsa che di denuncia, si era determinata a pubblicare e commentare il video. Ne deriva che la causa di non punibilità della provocazione non sussiste neanche nella forma putativa che si configura qualora ricorra una ragionevole, anche se erronea, opinione dell'illiceità del fatto altrui, purché l'errore sia plausibile, ragionevole, non pretestuoso e logicamente apprezzabile Sez. 5, numero 45622 del 29/09/2023, B., Rv. 285547 . 5. Dalle suesposte considerazioni consegue il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.