Il licenziamento discriminatorio e quello ritorsivo sono entrambi nulli in quanto comminati in violazione di legge o per motivi illeciti. Questi due licenziamenti differiscono tra loro poiché il licenziamento discriminatorio è dettato da motivi odiosi, mentre quello ritorsivo è originato da un sentimento di vendetta o rappresaglia […].
[…] Rispetto a tali elementi, l'onere della prova sorge sempre in capo al lavoratore che, nel caso di licenziamento discriminatorio, dovrà fornire gli elementi fattuali che rendono plausibile l'esistenza delle discriminazioni, mentre, nel caso di licenziamento ritorsivo, dovrà allegare e provare come l'intento di vendetta abbia avuto un'efficacia determinante ed esclusiva nella volontà di risolvere il rapporto di lavoro. Così ha deciso la Corte di Cassazione con l'ordinanza in esame. Licenziato infermiere appariscente Il caso sottoposto all'attenzione della Corte di Cassazione trae origine da un licenziamento per giusta causa comminato ad un infermiere che, più volte, aveva violato norme comportamentali riconducibili ad atti di insubordinazione e negligenza, potenzialmente nocivi alla salute dei pazienti oltre che lesivi dell'immagine della struttura sanitaria . In particolare, veniva contestato all'infermiere che era a contatto diretto con pazienti della RSA di portare un lungo pizzetto al mento e di indossare, in servizio, monili ingombranti, quali una vistosa catena a maglie larghe al collo, anelli, un grosso bracciale e un voluminoso orologio in metallo, il tutto da considerarsi veicolo di contagio per pazienti fragili e immunodeficienti. Il lavoratore contestava il licenziamento comminatogli sotto il profilo della discriminatorietà, della ritorsività e della insussistente recidiva, sicché con la sentenza in commento La Corte di Cassazione tratta questi tre temi, giungendo a rigettare il ricorso del lavoratore per insussistenza dei motivi addotti. La discriminazione Sul motivo discriminatorio la Corte di Cassazione rileva come esso fosse stato eccepito, nei giudizi di merito, in maniera generica e quindi insufficiente a fondarne la domanda di riconoscimento. Infatti, nel diritto antidiscriminatorio, l'articolo 40 d.lgs numero 198/2006 non stabilisce un'inversione dell'onere della prova in favore del ricorrente, ma solo un'attenuazione del regime probatorio ordinario prevedendo a carico del datore di lavoro l'onere di fornire la prova dell'inesistenza della discriminazione. Ciò però solo a condizione che il lavoratore abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto idonei a fondare - in termini precisi e concordanti, anche se non gravi - la presunzione dell'esistenza di atti o comportamenti discriminatori. In altri termini, il ricorrente deve fornire gli elementi fattuali che devono rendere plausibile l'esistenza della discriminazione, mentre il resistente dovrà congruamente argomentare l'esclusione della medesima discriminazione, attenuando, così, l'onere probatorio in capo al ricorrente. La ritorsione Secondo la Corte di Cassazione, anche in punto di motivo ritorsivo, le allegazioni del ricorrente erano generiche e insufficienti. Sull'onere della prova in ordine al licenziamento ritorsivo, la Corte quindi precisa come il lavoratore abbia l'onere questa volta, pieno di provare l'intento di vendetta quale elemento determinante ed esclusivo della volontà di risolvere il rapporto di lavoro e ciò anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, rispetto ai quali quindi - a differenza di quanto accade nei giudizi sulla discriminazione - va escluso ogni giudizio comparativo. La recidiva Infine, la Corte di Cassazione si occupa dell'analisi della recidiva quale condotta da contestare in maniera esplicita. Secondo il lavoratore ricorrente, le condotte addebitagli erano state strumentalmente frazionate per rendere l'idea di recidiva quando, invero, si sarebbe trattato di un comportamento unitario, comunque inidoneo a ledere lil vincolo di fiducia tra le parti. La Corte precisa quindi che la recidiva, per sua stessa natura, presuppone non solo che un fatto illecito sia posto in essere una seconda volta ma che lo stesso sia stato previamente contestato. Nel momento in cui non v'è tale precedente contestazione non è configurabile la recidiva, tuttavia, la reiterazione del comportamento può comunque essere considerata rilevante nella valutazione della gravità del comportamento che, essendo ripetuto nel tempo, realizza una più intensa violazione degli obblighi del lavoratore, il quale potrà essere sanzionato in modo più grave.
Presidente Esposito – Relatore Patti Rilevato che 1. con sentenza 13 novembre 2020, la Corte d'appello di Roma, in accoglimento del reclamo principale della Casa di Cura omissis ed assorbimento dell'incidentale di F.M., ha ritenuto legittimo il licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimato dalla prima al secondo il 16 luglio 2018 così riformando la sentenza di primo grado, che, in esito a rito Fornero, ne aveva accolto l'opposizione all'ordinanza di pari accertamento di legittimità del licenziamento , ravvisandone la natura ritorsiva 2. la Corte territoriale ha argomentatamente scrutinato le risultanze istruttorie e ritenuto la fondatezza degli addebiti disciplinari di reiterata inosservanza, nei giorni 4, 5 e 9 maggio 2018 rispettivamente contestati in date 9 e 18 maggio e 6 giugno 2018 , delle disposizioni regolamentari di divieto, per il personale a diretto contatto con i pazienti della R.S.A. quale il lavoratore passato dalle mansioni di portantino a quelle di operatore sanitario ausiliario , di indossare in servizio monili vistosa catena a larghe maglie al collo, anelli, un grosso bracciale e un voluminoso orologio tutti di metallo o acconciature un lungo pizzetto al mento , in quanto veicoli di contagio per pazienti fragili e immunodeficienti comportamenti in violazione dell'articolo 40 del CCNL applicato, per essere atti di insubordinazione, integranti gravi negligenze in servizio potenzialmente nocive alla salute dei pazienti e idonee a pregiudicare l'immagine della struttura sanitaria 3. esclusa la natura tanto discriminatoria genericamente allegata dal lavoratore per la sua qualità di rappresentante sindacale interno , tanto ritorsiva inconfigurabile in quanto, quand'anche ricorrente, ragione non esclusiva, per la sussistenza dei comportamenti contestati del licenziamento intimato, essa lo ha ritenuto proporzionato e “irrimediabile vulnus al rapporto fiduciario” tra le parti 4. con atto notificato l'8 gennaio 2021, il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione con quattro motivi, cui la Casa di Cura ha resistito con controricorso 5. il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell'articolo 380bis1, secondo comma, ult. parte c.p.c. Considerato che 1. il ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione degli articolo 2119 c.c., 3 e 4 legge numero 604/1966, 3 legge numero 108/1990, 15 legge numero 300/1970, 28 d.lgs. 150/2011, 2697, 2727 e 2729 c.c., 116 c.p.c. ed omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, per l'esclusione di fatti idonei nel loro complesso alla dimostrazione in via presuntiva del carattere discriminatorio del licenziamento intimato sul rilievo, omesso, di oggettivi riscontri probatori, complessivamente valutati, del fumus discriminationis, nell'inosservanza dei canoni di attenuazione se non proprio di inversione dell'onere probatorio applicabili nel diritto antidiscriminatorio in relazione ad una serie di dati in particolare contestazione, immediatamente dopo la promozione da inserviente ad operatore sanitario, di comportamenti invece tollerati prima e comunque dalla generalità dei colleghi, ostilità del direttore sanitario per la carica sindacale interna del lavoratore, inadeguata valorizzazione di deposizioni testimoniali specificamente riportate marginalmente considerati nella ricostruzione della discriminazione del lavoratore con il licenziamento inflitto primo motivo 2. esso è in parte inammissibile e in parte infondato 3. ribaditi i principi in materia di onere probatorio nel diritto antidiscriminatorio, secondo cui l'articolo 40 d.lgs. 198/2006 - nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità - non stabilisce un'inversione dell'onere probatorio, ma solo un'attenuazione del regime probatorio ordinario in favore del ricorrente, prevedendo a carico del datore di lavoro, in linea con quanto disposto dall'articolo 19 della Direttiva CE numero 2006/54 come interpretato da Corte di Giustizia UE 21 luglio 2011, C-104/10 , l'onere di fornire la prova dell'inesistenza della discriminazione compete al datore di lavoro, ma a condizione che il lavoratore abbia previamente fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, anche se non gravi, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso Cass. 12 ottobre 2018, numero 25543 . Sicché, in esso si realizza un'agevolazione probatoria mediante lo strumento di una parziale inversione dell'onere dovendo l'attore fornire elementi fattuali che, anche se privi delle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, devono rendere plausibile l'esistenza della discriminazione, pur lasciando comunque un margine di incertezza in ordine alla sussistenza dei fatti costitutivi della fattispecie discriminatoria. E pertanto, il rischio della permanenza dell'incertezza grava sul convenuto, tenuto a provare l'insussistenza della discriminazione una volta che siano state dimostrate le circostanze di fatto idonee a lasciarla desumere Cass. 28 marzo 2022, numero 9870, in riferimento all'articolo 28, quarto comma d.lgs. 150/2011, quale disposizione speciale rispetto all'articolo 2729 c.c., in tema di discriminazione indiretta nei confronti di persone con disabilità ai sensi della legge numero 67 del 2006 3.1. nel caso di specie, tuttavia, tali principi non rilevano, avendo la Corte territoriale fermamente escluso la ricorrenza di un licenziamento discriminatorio, per asserite ragioni sindacali p.to 8 di pgg. 11 e 12 della sentenza 4. né si configurano gli errores in iudicando solo formalmente enunciati, non implicando le censure un problema interpretativo delle norme di diritto denunciate, né di falsa applicazione della legge, consistente nella sussunzione della fattispecie concreta in una qualificazione giuridica che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista non è idonea a regolarla, oppure nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che ne contraddicono la pur corretta interpretazione Cass. 30 aprile 2018, numero 10320 Cass. 25 settembre 2019, numero 23851 . Si tratta, piuttosto, di allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l'aspetto del vizio di motivazione Cass. 11 gennaio 2016, numero 195 Cass. 13 ottobre 2017, numero 24155 Cass. 29 ottobre 2020, numero 23927 , oggi peraltro nei rigorosi limiti del novellato articolo 360, primo comma, numero 5 c.p.c. 4.1. la censura veicola più propriamente una contestazione della valutazione probatoria della Corte d'appello, autrice di un accertamento in fatto congruamente argomentato nell'esclusione di una matrice di discriminazione sindacale genericamente allegata, prima ancora che indimostrata per le ragioni esposte ai p.ti 19 e 20 a pgg. da 24 a 26 , in esito a critico scrutinio delle prove orali al p.to 14 da pg. 15 a pg. 20 , tanto meno integrando l'omesso esame di un fatto storico Cass. S.U. 7 aprile 2014, numero 8053 . Sicché, essa si risolve in una diversa interpretazione e valutazione delle risultanze processuali e ricostruzione della fattispecie operata dalla Corte territoriale, insindacabili in sede di legittimità Cass. 7 dicembre 2017, numero 29404 Cass. S.U. 27 dicembre 2019, numero 34476 Cass. 4 marzo 2021, numero 5987 , in quanto spettanti esclusivamente al giudice del merito, autore di un accertamento in fatto, argomentato in modo pertinente e adeguato a giustificare il ragionamento logico-giuridico alla base della decisione 5. il ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione degli articolo 18 legge numero 300/1970, 1345, 2697, 2727 e 2729 c.c., 116 c.p.c., per erronea esclusione del motivo ritorsivo in ragione dell'insussistenza di un motivo unico determinante, in quanto individuato dalla Corte territoriale in un inadempimento erroneamente ritenuto illegittimo secondo motivo 6. esso è infondato 7. occorre preliminarmente ribadire i principi di diritto in tema di licenziamento ritorsivo, secondo cui l'accertamento della sua nullità è subordinata alla verifica che l'intento di vendetta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di risolvere il rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, rispetto ai quali va quindi escluso ogni giudizio comparativo Cass. 7 marzo 2023, numero 6838 . Il motivo illecito addotto, ai sensi dell'articolo 1345 c.c., deve essere infatti determinante, ossia costituire l'unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale con la conseguenza che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini all'applicazione della tutela prevista dal testo novellato dell'articolo 18, comma 1 legge numero 300/1970, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento 7.1. in realtà, anch'esso consiste in una sostanziale contestazione dell'accertamento in fatto della Corte d'appello, insindacabile in sede di legittimità, in quanto congruamente argomentato per le ragioni indicate al superiore punto 4.1 8. il ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione degli articolo 18 legge numero 300/1970, 2119, 2106 c.c., 3 legge numero 604/1966, 7 legge numero 300/1970, 40 CCNL, anche in relazione agli articolo 1362 ss. c.c., per avere la Corte territoriale ritenuto una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento in presenza di previsioni contrattuali di applicazione di una sanzione conservativa, così illegittimamente sussumendo i fatti contestati nelle suddette categorie definitorie, tenendo conto di elementi “la lesione dell'immagine” e il “carattere arrogante” dell'atteggiamento neppure contestati e valorizzando la “ripetitività” della condotta diversamente da quanto previsto nel CCNL, per effetto di un indebito frazionamento dell'esercizio del potere disciplinare terzo motivo violazione e falsa applicazione degli articolo 3 legge numero 604/1966, 2119 c.c., 7 legge numero 300/1970, 40 CCNL, anche in relazione agli articolo 1362 ss. c.c., per avere la Corte territoriale erroneamente negato un illegittimo frazionamento degli addebiti, né rilevato l'inidoneità della recidiva dell'articolo 40, lett. c del CCNL contestata con l'addebito del 6 giugno 2018 rispetto al paradigma contrattuale, nell'inosservanza dei principi di diritto in tema di rilevanza della recidiva e di previa contestazione della precedente contestazione quale suo presupposto quarto motivo 9. essi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono in parte inammissibili e in parte infondati 10. i due motivi veicolano, in realtà, una contestazione della valutazione di proporzionalità al p.to 18 dal quart'ultimo capoverso di pg. 23 al terzo di pg. 24 della sentenza , basata sulla gravità complessiva di più infrazioni “inadempimento … anche particolarmente grave sia perché ripetuto sia perché denota arrogante insofferenza nei confronti del datore di lavoro … ” così al penultimo capoverso di pg. 23 della sentenza , insindacabile in sede di legittimità, in quanto implicante un apprezzamento dei fatti spettante al giudice di merito, salve le ipotesi qui non ricorrenti di assoluta mancanza della motivazione o della sua affezione da vizi giuridici integranti ipotesi di nullità della sentenza ovvero di omesso esame di un fatto avente valore decisivo Cass. 3 gennaio 2024, numero 107 Cass. 25 maggio 2012, numero 8293 10.1. la Corte d'appello ha accertato una “persistente volontà di disattendere le prescrizioni aziendali” così al secondo capoverso di pg. 24 della sentenza , non valutando peraltro il primo addebito alla stregua di recidiva, non contestata così al terzo capoverso di pg. 24 della sentenza , in linea con il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, in esito ad un corretto procedimento di sussunzione nelle ipotesi di contrattazione collettiva articolo 40, lett. c, d, i, f, A in esatta applicazione dei principi di diritto in tema di licenziamento disciplinare, secondo cui, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall'articolo 18, commi 4 e 5 legge numero 300/1970, come novellato dalla legge numero 92/2012, il giudice può sussumere la condotta addebitata al lavoratore, e in concreto accertata giudizialmente, nella previsione contrattuale che, con clausola generale ed elastica, punisca l'illecito con sanzione conservativa, non trasmodando detta operazione di interpretazione e sussunzione nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, ma restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità, come eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo Cass. 11 aprile 2022, numero 11665 Cass. 28 giugno 2022, numero 20780 10.2. essa ha inoltre correttamente apprezzato la rilevanza della reiterazione della condotta al secondo capoverso di pg. 24 della sentenza e l'ha valutata, nella complessiva gravità dei fatti del primo addebito, ancorché “non … come recidiva, perché non contestata” al terzo capoverso di pg. 24 della sentenza , in linea con i principi di diritto, secondo cui a ai fini disciplinari, la recidiva, per sua stessa natura, presuppone non solo che un fatto illecito sia posto in essere una seconda volta, ma che lo sia stato dopo che la precedente infrazione sia stata quanto meno contestata formalmente al medesimo lavoratore ove tale contestazione per la precedente infrazione sia mancata, e non sia pertanto configurabile la recidiva, la reiterazione del comportamento, che si ha per effetto della mera ripetizione della condotta in sé considerata, non è irrilevante, incidendo comunque sulla gravità del comportamento posto in essere dal lavoratore, che, essendo ripetuto nel tempo, realizza una più intensa violazione degli obblighi del lavoratore e può, pertanto, essere comunque sanzionato in modo più grave Cass. 20 ottobre 2009, numero 22162 b la mera reiterazione dell'illecito, pur rilevando ai fini della valutazione della gravità del comportamento tenuto dal lavoratore, non può determinare la pretermissione della graduazione delle condotte di rilievo disciplinare contemplata dai contratti collettivi, di cui il giudice deve tenere conto per disposto normativo Cass. 12 luglio 2023, numero 19868, che nella specie – in relazione ad una vicenda in cui, secondo la scala valoriale adottata dal CCNL, le condotte alternativamente idonee a consentire il licenziamento facevano rispettivamente leva sulla “particolare gravità” delle infrazioni punibili con sanzione conservativa oppure sulla recidiva in mancanze sanzionate con due provvedimenti di sospensione nell'arco di un anno – ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento di una lavoratrice sulla base di una valutazione della “particolare gravità” della condotta fondata non già sulle intrinseche caratteristiche - oggettive e soggettive - della condotta stessa, bensì unicamente sulla rilevanza di due omologhi precedenti disciplinari, sanzionati, rispettivamente, con il rimprovero scritto e con la multa, in tal modo finendo per applicare un trattamento sanzionatorio deteriore rispetto a quello previsto dalla contrattazione collettiva 11. pertanto il ricorso deve essere rigettato, con regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza e con raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, numero 23535 . P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il lavoratore ricorrente alla rifusione, in favore della controricorrente, alle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge. Ai sensi dell'articolo 13 comma 1quater del d.p.r. numero 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.