Patto leonino e società di fatto: è possibile la convivenza?

L’accertamento della violazione del divieto di patto leonino presuppone l’esistenza tra le parti di un rapporto societario, anche di fatto.

La Prima Sezione della Suprema Corte con ordinanza numero 16123 dell'11 giugno 2024, ha cassato la sentenza impugnata nella parte in cui, pur avendo negato l'esistenza di una società di fatto tra i litiganti, aveva accertato la violazione del divieto di patto di leonino nei rapporti tra gli stessi. La questione in lite Il Tribunale di Massa condannava Alfa S.r.l. a corrispondere a Tizio l'importo di oltre euro 160.000 a titolo di utili di impresa maturati quale titolare “di fatto” della partecipazione in detta società nella misura del 50% ciò sulla base di due contratti stipulati tra le parti nei quali era previsto, appunto, il diritto di Tizio di beneficiare degli utili sociali. La Corte di Appello di Genova confermava la condanna di pagamento a carico della società ma, a parziale riforma della sentenza del primo giudice, disponeva che Tizio le rimborsasse l'importo di circa euro 20.000 dichiarando la nullità dei due contratti suddetti. Segnatamente la Corte di Appello statuiva che nessuna società poteva ritenersi sussistente tra le parti, atteso che Tizio non aveva effettuato alcun conferimento di capitale per la costituzione di Alfa i due contratti stipulati inter partes erano nulli per violazione del divieto di patto leonino, considerato che Tizio avrebbe potuto godere degli utili maturati dalla società senza però aver assunto alcun rischio al riguardo.   Tizio proponeva ricorso per Cassazione, rilevando la nullità della sentenza d'appello poiché contenente in motivazione una serie di affermazioni tra di loro giuridicamente inconciliabili, tali da minarne l'intellegibilità. La società di fatto e il divieto di patto leonino La Corte di Cassazione accoglie il ricorso di Tizio, con motivazione coincisa che può essere così sintetizzata l'esclusione della sussistenza di una società di fatto tra le parti avrebbe dovuto indurre il giudice di appello a farsi carico della qualificazione giuridica del rapporto esistito tra le stesse, idonea a giustificare i rapporti economici instauratisi per effetto delle due scritture private dedotte in lite il giudice di merito ha infatti il dovere, sulla base delle allegazioni e delle prove acquisite al processo, di qualificare correttamente il rapporto esistito e, nei limiti della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, di provvedere in conseguenza il secondo giudice, invece, dopo aver escluso l'esistenza di un valido “patto societario” ha ritenuto che gli impegni assunti tra le parti nelle ridette scritture sarebbero stati nulli per violazione del disposto di cui all'articolo 2265 c.c. siffatta affermazione è però del tutto inconciliabile con la prima, poiché l'accertata inesistenza di alcuna affectio societatis non consente di invocare la violazione del divieto del patto leonino di cui all'articolo 2265 c.c., per la semplice quanto insuperabile considerazione che tale disposizione si applica solo nell'eventualità che tra le parti stipulanti esista una società e non in quella contraria conseguentemente è del tutto incomprensibile la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui, prima, nega l'esistenza di qualsivoglia società tra le parti, poi, accerta la nullità del “patto sociale” tra le stesse per violazione del divieto del patto leonino.   La nullità della sentenza per assenza di motivazione Ciò chiarito, ritiene la Corte di Cassazione che l'aporia motivazionale della sentenza impugnata sia rilevante ai fini dell'invalidità della stessa, perché non si risolve in una mera contraddizione motivazionale o di logica giuridica, ma rende la pronuncia del tutto antinomica difatti, il titolo giuridico del pagamento a carico della società e in favore di Tizio era stato identificato dal giudice di primo grado nella società di fatto esistita tra le parti per effetto delle due scritture private più volte citate la Corte territoriale però, pur confermando la condanna della società in punto di pagamento a favore di Tizio, ha negato l'esistenza del titolo giuridico suddetto omettendo qualsivoglia accertamento su quale fosse, a suo avviso, il negozio inter partes perfezionato. Non solo, il secondo giudice ha poi riqualificato del tutto incomprensibile l'obbligazione di pagamento in termini di “indennizzo”. Qualificazione, questa, tuttavia incompatibile con la declaratoria di nullità delle due scritture private, dalla quale avrebbe potuto al più discendere un indebito oggettivo. La Prima Sezione Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia le parti innanzi alla Corte di appello di Genova, in diversa composizione. Il divieto di patto leonino La sentenza in esame offre l'occasione di soffermarsi brevemente sulla ratio dell'articolo 2265 c.c. il quale dispone che è nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite. Il c.d. divieto del patto leonino trova la sua esplicita formulazione nella disciplina della società semplice, richiamata da quella della società in nome collettivo, a sua volta estesa alla società in accomandita semplice. È dunque un principio previsto per le società di persone. La ragione è piuttosto semplice le società di persone sono caratterizzate, nella loro tipica configurazione, dall'effettivo esercizio in comune di un'attività economica. Il legislatore ha dunque voluto evitare che i soci più forti facessero la parte del “leone”, escludendo, col contratto sociale, altri soci dalla partecipazione agli utili. È pacifico in dottrina e giurisprudenza che l'articolo 2265 c.c. abbia portata generale, dunque valga anche per le società di capitali. Al riguardo la Suprema Corte di Cassazione ritiene che l'articolo 2265 c.c. sia una norma transtipica. Se la societas è l'unione di più patrimoni, al fine del raggiungimento dello scopo comune di suddividere i risultati dell'intrapresa economica, si pone in contrasto con questa causa tipica la esclusione di uno o più soci da quei risultati cfr. Cass. civ. 4 luglio 2018, numero 17498 Cass. civ. 1° settembre 2023, numero 25594 per la dottrina, autorevolmente, v. Abriani, Il divieto del patto leonino. Vicende storiche e prospettive applicative, Milano, 1994, pagg. 77 e ss . La Suprema Corte di Cassazione ha  altresì precisato che «il divieto di esclusione dalla partecipazione agli utili o alle perdite deve essere riguardato in senso sostanziale, e non formale, per cui esso sussiste anche quando le condizioni della partecipazione agli utili o alle perdite siano, nella previsione originaria delle parti, di realizzo impossibile, e nella concretezza determinino una effettiva esclusione totale da dette partecipazioni» nel senso di una effettiva, non formalistica visione, v. Campobasso, Manuale di diritto commerciale. Diritto delle società, II, Milano, 2015, 78 . E sempre la Corte di legittimità ha ulteriormente chiarito che «il cosiddetto patto leonino, vietato ai sensi dell'articolo 2265 c.c., presuppone la previsione della esclusione totale e costante del socio dalla partecipazione al rischio d'impresa o dagli utili, ovvero da entrambi. Esula, pertanto, da tale divieto le clausole che contemplino la partecipazione agli utili e alle perdite in una misura diversa dalla entità della partecipazione sociale del singolo socio, sia che si esprimano in misura difforme da quella inerente ai poteri amministrativi, sia che condizionino in alternativa la partecipazione o la non partecipazione agli utili o alle perdite al verificarsi di determinati eventi giuridicamente rilevanti» Cass. civ. 21 gennaio 2020, numero 642 . In altri termini, si integra la fattispecie di patto leonino qualora l'esclusione dalle perdite o dagli utili sia “assoluta e costante”, cioè qualora si apporti una modifica alla causa del contratto di società. È rilevante, inoltre, che tale patto intercorra tra il socio e la società, qualora invece l'accordo sia esterno, dunque posto in essere tra i soci nel legittimo esercizio della loro autonomia negoziale, questo produce i suoi effetti solo inter partes, non ha alcun effetto nei confronti della società, la quale continuerà ad imputare le perdite e gli utili alle partecipazioni sociali di tutti i soci nel rispetto dell'articolo 2265 c.c. Secondo la Suprema Corte di Legittimità è quindi lecito e non integra un patto leonino l'accordo con il quale un socio, in occasione di un finanziamento partecipativo, si obbliga a manlevare un altro socio dalle conseguenze negative del conferimento effettuato in società, attribuendogli il diritto di vendita entro un determinato termine ed un corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale ad un prezzo predeterminato così, Cass. civ. 25 marzo 2024, numero 7934 v. anche Cass. civ. 4 luglio 2018, numero 17498 Cass. civ. 21 ottobre 2019, numero 26774 Cass. civ. 7 ottobre 2021, numero 27227 .

Presidente Di Marzio – Relatore Fraulini Rilevato che 1. D.E. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sette motivi, avverso la sentenza con cui la Corte di appello di Genova, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Massa, lo ha condannato a rimborsare alla società omissis s.r.l. unipersonale in liquidazione in prosieguo, breviter, “la società” la somma di euro 22.041,00, oltre accessori, come conseguenza della declaratoria di nullità dei contratti stipulati tra le parti in data 27 febbraio 2003 e 4 settembre 2004, confermando per il resto la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva condannato la società a corrispondere al D.E. la somma di euro 163.934,16, oltre accessori, a titolo di utili di impresa maturati quale titolare della partecipazione in detta società nella misura del 50%. 2. La società ha resistito con controricorso. 3. La Corte territoriale, per quanto in questa sede ancora rileva, ha osservato a che nessuna società poteva ritenersi sussistente tra il D.E. e la omissis , atteso che il primo non aveva in alcun modo conferito qualsivoglia elemento economicamente apprezzabile ai fini della costituzione del capitale sociale della seconda b che la nullità del contratto stipulato inter partes poteva comunque rinvenirsi nella violazione del divieto di patto leonino, per come chiaramente emergeva dalla lettura delle clausole dei due contratti stipulati tra il D.E. e la società, atteso che, mancando ogni forma di conferimento lecito da parte del primo, egli si sarebbe trovato a beneficiare di utili “senza assunzione di alcun rischio, né di capitale, né di opera” c che i rapporti patrimoniali connessi ai pagamenti reciprocamente effettuati tra le parti, valutati sulla base delle prove in atti, dimostravano la sussistenza di un credito a saldo della società nei confronti del D.E. pari a euro 22.041,00. 4. Le parti hanno depositato memoria. Considerato che 1. Il ricorso lamenta a. Primo motivo «I. Illegittimità derivata per illegittimità costituzionale degli articolo da 62 a 67 del d.l. 21/6/2013 N° 69, convertito con modificazioni nella L. 9/8/2013 N°98, in relazione agli articolo 102 co. 1 e 106 co. 1 e 2 Costituzione e conseguente nullità della Sentenza per vizio di costituzione del Giudice ex articolo 158 C.P.C. in relazione all'articolo 360 co. 1 N°4 C.P.C.» deducendo che l'incostituzionalità dell'istituzione dei giudici ausiliari in appello per assenza di esigenze emergenziali che ne giustificassero la creazione determina la nullità derivata della sentenza, emessa nella specie con il concorso di uno di essi.  Il motivo è infondato, dovendosi dare continuità a quanto condivisibilmente già affermato da questa Corte Sez. 6-2, Ordinanza numero 32065 del 05/11/2021 secondo cui, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale numero 41 del 2021, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di quelle disposizioni, contenute nel d.l. numero 69 del 2013 conv. con modif. nella l. numero 98 del 2013 , che conferiscono al giudice ausiliario di appello lo status di componente dei collegi nelle sezioni delle corti di appello, queste ultime potranno legittimamente continuare ad avvalersi dei giudici ausiliari, fino a quando, entro la data del 31/10/2025, si perverrà a una riforma complessiva della magistratura onoraria fino a quel momento, infatti, la temporanea tollerabilità costituzionale dell'attuale assetto è volta a evitare l'annullamento delle decisioni pronunciate con la partecipazione dei giudici ausiliari e a non privare immediatamente le corti di appello dei giudici onorari al fine di ridurre l'arretrato nelle cause civili. b. Secondo motivo «II. Violazione e falsa applicazione dell'articolo 2247 C.C., in relazione all'articolo 360, co. 1, NN°3 e 5 C.P.C, per avere la Corte territoriale escluso ogni forma di conferimento da parte del ricorrente nella società di fatto costituita con scrittura privata 27/2/2003, violando e non applicando il disposto normativo, con motivazione quanto meno perplessa ed omettendo di valutare fatti decisivi per il giudizio. c. Terzo motivo «III. Violazione e falsa applicazione dell'articolo 2247 C.C., in relazione all'articolo 360 co. 1 NN°3 e 5 C.P.C, per aver la Corte territoriale ritenuto la sussistenza del c.d. “patto leonino” sul presupposto dell'inesistenza di conferimenti leciti da parte dell'odierno ricorrente.» d. Quarto motivo «IV. Violazione e falsa applicazione degli articolo 1362 e segg. C.C. in relazione all'articolo 360 co. 1 NN°3 e 5 C.P.C, per avere la Corte territoriale interpretato la scrittura 27/2/2003 quale costituente un'unica pattuizione riferibile sia all'attività di direzione dei lavori che alle attività connesse alla vendita degli immobili». e. Quinto motivo «V. Violazione e falsa applicazione dell'articolo 1419 C.C. in relazione all'articolo 360 co. 1 NN°3 e 5 C.P.C, per avere la Corte territoriale dichiarato la nullità dell'intero contratto in presenza di una asserita nullità relativa ad una singola pattuizione. f. Sesto motivo «VI. Violazione e falsa applicazione dell'articolo 1418 C.C. in relazione all'articolo 360 co. 1 NN°3 e 5 C.P.C, per avere la Corte territoriale dichiarato la nullità del contratto 27/2/2003 per essersi impegnato il Sig. D.E. a svolgere attività tecniche che, a detta della Corte, presupponevano l'esistenza in capo al Geom. D.E. della sua abilitazione professionale di Geometra e di Mediatore.». g. Settimo motivo «VII. Omessa e comunque perplessa motivazione e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio articolo 360, co.1 n°5 per avere la Corte territoriale riconosciuto a favorire della OMISSIS s.r.l. la somma di euro 22.041,00 condannando il geom. D.E. al relativo pagamento oltre rivalutazione monetaria dalla data dei singoli pagamenti e gli interessi dalla data della spettanza al saldo.» I motivi dal secondo al settimo sono complessivamente fondati, nei limiti e per le considerazioni che seguono. La sentenza impugnata è nulla in quanto consta, come eccepito dal ricorrente, di una motivazione contenente una serie di affermazioni tra di loro giuridicamente inconciliabili, che ne minano complessivamente l'intellegibilità. A pag. 10 della sentenza, la Corte territoriale afferma che nessuna affectio societatis sarebbe rinvenibile nel rapporto che ha legato le parti in particolare, afferma che dagli atti non sarebbe emerso alcun apporto oggettivo del D.E. alla realizzazione degli scopi societari della OMISSIS riferiti alla negoziazione di immobili, ciò che costituiva l'oggetto della società che, nella tesi dell'odierno ricorrente, si sarebbe instaurata di fatto tra le parti. L'affermata esclusione dell'esistenza di una società di fatto tra le parti avrebbe, tuttavia, dovuto indurre la Corte a farsi carico della qualificazione giuridica del rapporto pacificamente esistito tra le parti in causa, idonea a giustificare gli altrettanto pacifici rapporti economici tra le stesse instaurati per effetto delle due scritture private sottoscritte inter partes. Ciò che corrisponde a un dovere del giudice del merito che, allorquando mostra di non condividere la qualificazione giuridica proposta dalle parti, ha tuttavia il preciso obbligo, sulla base delle allegazioni e delle prove acquisite al processo, di qualificare correttamente il rapporto esistito e, nei limiti della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, di provvedere in conseguenza. Sennonché la sentenza impugnata, ben lungi che effettuare quanto appena indicato, afferma sempre a pag. 10 che l'impossibilità di configurare, seppur di fatto, un valido “patto societario” avrebbe determinato che gli impegni assunti nelle due scritture private sarebbero da considerarsi nulli per aver violato il disposto dell'articolo 2265 cod. civ. Orbene, una siffatta affermazione è del tutto inconciliabile con la prima, poiché l'accertata inesistenza di alcuna affectio societatis non consente di ritenere sotto alcun profilo applicabile alle obbligazioni assunte dalle parti stipulanti il divieto del patto leonino di cui all'articolo 2265 cod. civ., per la semplice quanto insuperabile considerazione che tale disposizione codicistica si applica solo nell'eventualità che tra le parti stipulanti esista una società e non in quella contraria. Di talché, del tutto incomprensibile appare come la Corte ligure abbia potuto affermare, subito dopo aver negato la venuta a esistenza di qualsivoglia società tra le parti, che il “patto sociale” sarebbe stato nullo per la violazione del divieto del patto leonino. Né alcuna motivazione è offerta dalla sentenza a spiegazione dell'affermazione pag. 11 secondo cui la violazione del citato patto sarebbe conseguenza dell'assenza di “alcun conferimento lecito” da parte del D.E Se poco prima si era escluso che vi sia stato alcun conferimento, è evidente che tale inesistenza non può qualificare la violazione di un divieto societario né vi è alcuna spiegazione del riferimento al “conferimento lecito”, quasi a intendere che ve ne siano stati di non leciti. L'aporia motivazionale appena illustrata è rilevante ai fini dell'invalidità della sentenza, perché non si risolve in una mera contraddizione motivazionale o di logica giuridica, ciò che avrebbe potuto condurre a una mera correzione motivazionale, ma conduce la Corte territoriale a una diretta applicazione pratica nella regolazione dei rapporti tra le parti anziché applicare i principi generali in tema di effetti retroattivi della nullità, con conseguente impartizione delle disposizioni di accertamento e di condanna alla restituzione di tutte le prestazioni legittimamente ripetibili, la Corte territoriale conferma espressamente la sentenza di primo grado nella parte in cui ha condannato la società a corrispondere al D.E. la somma di euro 163,934,16 a titolo di utili di impresa nella misura del 50%. In tal modo, la Corte di appello non solo dimentica di applicare i principi sulla retroattività della declaratoria di nullità dei contratti, ma non si avvede che, confermando in parte qua la sentenza di primo grado, ove la società di fatto era stata ritenuta sussistente, finisce per rendere una sentenza del tutto antinomica il titolo giuridico del pagamento disposto in primo grado, e confermato in appello, a carico della società e in favore del D.E. è identificato nella società di fatto esistita tra le parti per effetto delle due scritture private in atti il titolo giuridico del pagamento disposto in appello, per effetto della parziale riforma della sentenza di primo grado, a carico del D.E. e in favore della società, muove dall'accertata inesistenza o, alternativamente, nella nullità della società, ma omette qualsivoglia accertamento di quale negozio giuridico sia insorto tra le parti che possa giustificare un calcolo di dare e avere che, tuttavia, la sentenza impugnata effettua a pag. 12/13 , qualificandolo come “indennizzo”. Affermazione, ancora una volta, del tutto incomprensibile, dovendo ribadirsi che la declaratoria di nullità del contratto comporta non già l'insorgere di un diritto all'indennizzo, bensì di un indebito oggettivo, come più volte affermato da questa Corte Sez. 2, Sentenza numero 715 del 15/01/2018 Sez. 1, Ordinanza numero 6664 del 16/03/2018 , con precise conseguenze sia in tema di onere della prova, sia in tema di effetti restitutori connessi all'eventualmente accertata sussistenza delle condizioni per il ripristino dello status quo ante nel patrimonio delle parti coinvolte nel contratto invalido. 2. La sentenza va, dunque, cassata e le parti rinviate alla Corte di appello di Genova, in diversa composizione, che provvederà a rinnovare il giudizio secondo i principi sopra esposti e a regolare le spese della presente fase di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta il primo motivo di ricorso accoglie, nei sensi di cui in motivazione, i restanti motivi di ricorso cassa la sentenza impugnata e rinvia le parti, in relazione ai motivi accolti, innanzi alla Corte di appello di Genova, in diversa composizione, che provvederà anche a regolare le spese della presente fase di legittimità.