Illegali gli oneri supplementari imposti dall’Italia ai giganti del web come Airbnb e Amazon

L’articolo 3 Direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno «direttiva sul commercio elettronico» , deve essere interpretato nel senso che esso osta a misure adottate da uno Stato membro, allo scopo dichiarato di garantire l’adeguata ed efficace applicazione del regolamento UE 2019/1150, che promuove equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online, ai sensi delle quali, a pena di sanzioni, i fornitori di servizi di intermediazione online stabiliti in un altro Stato membro sono obbligati, al fine di prestare i loro servizi nel primo Stato membro, a iscriversi in un registro tenuto da un’autorità di tale Stato membro, a comunicare a quest’ultima una serie di informazioni dettagliate sulla loro organizzazione e a versare alla stessa un contributo economico.

È quanto deciso dalla CGUE relativamente a cause identiche promosse da notissimi siti di intermediazione online come Airbnb, Amazon, Google intermediazione per la pubblicità online , Expedia etc. nelle cause EU C 2024 432-433-434-435 C-662-667/22 del 30 maggio. Queste società erano ricorse al Tar Lazio per impugnare gli oneri supplementari imposti a seguito delle modifiche del quadro normativo nazionale derivanti dalla l. 178/2020 e dalla delibera dell'AGCOM numero  161/2021, adottate dalle autorità italiane segnatamente al fine di garantire l'applicazione del Regolamento 2019/1150. È  loro imposto di iscriversi ad un registro nazionale tenuto dall'AGCOM, trasmettere a questo Garante un documento relativo alla loro situazione economica, nel quale devono essere precisate numerose informazioni, in particolare relative ai ricavi realizzati da tali fornitori versare un contributo economico. Chi non rispetta questi oneri è soggetto a sanzione amministrativa pari al 2-5% del fatturato dell'anno fiscale precedente a quello della sanzione. Quali informazioni possono chiedere gli Stati agli intermediari online? «Il Regolamento 2019/1150 impone obblighi specifici ai prestatori dei servizi interessati per quanto riguarda la trasparenza e l'equità delle condizioni applicate agli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online e stabilisce disposizioni relative alla risoluzione extragiudiziale e giudiziale delle controversie tra tali prestatori e tali utenti commerciali. Pertanto, le informazioni che gli Stati membri possono essere tenuti a fornire alla Commissione europea, ai sensi degli articoli 16 e 18 del Regolamento 2019/1150, devono essere pertinenti al fine di consentire a tale istituzione di monitorare l'evoluzione delle relazioni, in particolare tra i fornitori di servizi di intermediazione online e tali utenti commerciali, o di redigere relazioni sulla valutazione di tale regolamento> > neretto, nda . Sono considerate pertinenti solo quelle informazioni che abbiano un nesso sufficientemente diretto col perseguimento di detto fine e che, poi, potrebbero essere richieste dalla Commissione in sede di tale controllo. Il Regolamento non impone, però, agli Stati di raccogliere altre informazioni arbitrariamente con la scusa che potrebbero essere soggetti a controlli della Commissione. Come detto quando ad un'Authority è affidato un compito di vigilanza sul perseguimento dei suddetti obiettivi ex Regolamento 2019/1150 possono essere richieste solo queste informazioni pertinenti. Più precisamente < < le informazioni richieste ai prestatori di tali servizi sulla base del regolamento 2019/1150 devono riguardare le condizioni del servizio fornito, al fine, in particolare, di consentire alle autorità competenti di conoscere e valutare il carattere equo delle condizioni contrattuali fissate da tali prestatori agli utenti commerciali di servizi di intermediazione online all'interno dell'Unione. Infatti, il nesso tra, da un lato, la situazione economica di un prestatore di tali servizi e, dall'altro, le modalità di prestazione di tali servizi a favore di tali utenti commerciali, ammesso che esista, non può che essere indiretto» neretto, nda .   Alla luce di tutto ciò le contestate norme, essendo contrastanti col diritto comunitario, sono illegali e come tali vanno disapplicate. No a restrizioni alla libera prestazione e circolazione dei servizi. È vietato imporre restrizioni ad una libertà fondamentale se non per gravi e giustificati motivi che abbiano una solida base legale. Nella fattispecie la libera circolazione e prestazione di servizi persegue il fine del buon funzionamento del mercato interno. In base ai principi del mutuo riconoscimento e dei poteri di controllo dello Stato in cui sono stabilite dette società, gli Stati membri < < possono, a determinate condizioni cumulative, adottare provvedimenti in deroga al principio della libera circolazione dei servizi della società dell’informazione per quanto concerne un determinato servizio della società dell’informazione rientrante nell’ambito regolamentato> > neretto, nda . Esso comprende < < le prescrizioni degli ordinamenti degli Stati membri e applicabili ai prestatori di servizi della società dell’informazione o ai servizi della società dell’informazione, indipendentemente dal fatto che siano di carattere generale o loro specificamente destinati. Tale ambito concerne le prescrizioni che il prestatore deve soddisfare e che riguardano l’accesso all’attività di servizi della società dell’informazione, quali le prescrizioni concernenti le qualifiche e i regimi di autorizzazione o notifica, e l’esercizio dell’attività di servizi della società dell’informazione, quali le prescrizioni relative al comportamento del prestatore, alla qualità o ai contenuti del servizio> > . Queste norme e prescrizioni sono stabilite solo dallo Stato in cui sono stabilite le società dell’informazione, perciò le contestate norme italiane impongono illegali restrizioni alle libertà di prestazione e circolazione dei servizi, sì che vanno disapplicate perché incompatibili col diritto dell’UE.