Confermata la condanna di un uomo, finito sotto processo per i comportamenti tenuti, nella realtà e online, nei confronti dell’ex compagna. Indiscutibile il reato di stalking secondo i Giudici, i quali sottolineano anche la gravità della diffusione su WhatsApp di una foto mirata ad offendere la donna.
Basta una foto offensiva impostata come profilo personale di WhatsApp per subire una condanna per diffamazione. A finire sotto processo è un uomo, accusato di comportamenti non certo urbani tenuti nei confronti della donna con cui ha avuto una lunga relazione e da cui ha avuto anche un figlio. Nello specifico, gli viene contestato di avere perseguitato l’ex compagna e di averla offesa in maniera palese con una foto impostata sul profilo personale di WhatsApp. Per i giudici di merito non ci sono dubbi l’uomo è colpevole di atti persecutori e di diffamazione , reati commessi ai danni dell’ex compagna. Fondata, secondo i giudici, la tesi accusatoria, secondo cui l’uomo, da un lato, «ha cagionato alla persona offesa, con reiterate ingiurie e minacce ed altre condotte offensive, un grave e perdurante stato d’ansia, e ha ingenerato nella medesima persona il fondato timore per la propria incolumità personale, costringendola ad alterare le proprie abitudini di vita» e, dall’altro, «ne ha offeso l’onore e la reputazione della persona offesa, divulgando una fotografia che la raffigurava», accompagnata da una frase offensiva. Inutili le obiezioni sollevate dal difensore dell’uomo sotto processo. Anche per i Giudici di Cassazione, difatti, è sacrosanta la condanna per i reati di stalking e di diffamazione. Per quanto concerne gli atti persecutori viene osservato che «il clima di conflittualità tra l’uomo e l’ex compagna», nonché «le aggressioni verbali dei familiari della donna» nei confronti dell’uomo e «gli ostacoli frapposti» dalla donna «all’esercizio del diritto dell’uomo di visitare la figlia» non possono assolutamente giustificare le condotte violente, le minacce, le offese e i danneggiamenti commessi dell’uomo. Anche perché «il contesto di litigiosità in cui sono maturate le condotte dell’uomo non era tale da determinare una posizione di sostanziale parità tra l’uomo e l’ex compagna, in ragione della gravità delle violenze, delle minacce e delle offese commesse dall’uomo e che hanno causato» all’epoca «nella vittima un grave stato d’ansia e di paura , che l’aveva costretta ad alterare le proprie abitudini di vita, non uscendo più di casa». Per quanto riguarda la diffamazione, poi, i magistrati ritengono inverosimile la versione dell’uomo, il quale ha sostenuto di avere semplicemente compiuto un errore nell’impostare la foto incriminata come quella del proprio profilo su WhatsApp, e aggiungono che « la rimozione della foto non può privare di penale rilevanza il fatto e l’offesa già arrecata alla vittima». Per chiudere il cerchio, i Giudici ricordano che «il reato di diffamazione si configura quando il messaggio può essere letto da più persone, anche se tra di esse vi è la persona offesa» e precisano che nella vicenda oggetto del processo «risulta evidente la divulgazione del messaggio offensivo , essendo il profilo WhatsApp dell’uomo accessibile quantomeno a tutti gli utenti del social network il cui contatto era inserito nella sua rubrica del telefono».
Presidente Scarlini – Relatore Cirillo Ritenuto in fatto 1. La sentenza impugnata è stata pronunziata il 24 novembre 2022 dalla Corte di appello di Catania, che, per quanto qui di interesse, ha confermato la sentenza del Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Catania che, all'esito di giudizio abbreviato, aveva condannato S.A. per i reati di atti persecutori e di diffamazione commessi in danno di G.V., alla quale in precedenza era stato legato da rapporto di convivenza, dal quale era nata anche una figlia. Secondo l'impostazione accusatoria, ritenuta fondata dai giudici di merito, l'imputato, con reiterate ingiurie e minacce ed altre condotte offensive, avrebbe cagionato alla persona offesa un grave e perdurante stato d'ansia e avrebbe ingenerato nella medesima il fondato timore per la propria incolumità personale, costringendola ad alterare le proprie abitudini di vita. Avrebbe, inoltre, offeso l'onore e la reputazione della persona offesa, divulgando una fotografia che la raffigurava, accompagnata dalla frase omissis . 2. Avverso la sentenza della Corte di appello, l'imputato ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del proprio difensore. 2.1. Con un primo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione all' articolo 612-bis cod. penumero Rappresenta che la difesa aveva prodotto due CD - l'uno contenente dei file audio, l'altro alcune registrazioni di conversazioni telefoniche operate dall'imputato - dal cui contenuto emergeva che l'imputato aveva ricevuto continue minacce e insulti da parte dei familiari della persona offesa la G.V. e i suoi familiari avevano costantemente ostacolato l'esercizio del diritto dell'imputato di vedere la propria figlia. Tanto premesso, sostiene che il giudice di primo grado avrebbe completamente omesso di valutare tale materiale probatorio la Corte di appello, in ordine ad esso, avrebbe effettuato delle valutazioni insufficienti e contraddittorie. Ed invero, pur avendo considerato tale materiale, non avrebbe ritenuto che il comportamento dell'imputato costituisse una mera reazione alle condotte della persona offesa e dei suoi familiari. Mancherebbe, in ogni caso, l'elemento soggettivo richiesto per l'integrazione del reato, atteso che l'imputato si sarebbe limitato a reagire all'altrui condotta offensiva. 2.2 Con un secondo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli articolo 392 e 393 cod. penumero Sostiene che il reato di atti persecutori avrebbe dovuto essere derubricato in quello meno grave di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, atteso che il motivo determinante che aveva indotto l'imputato a commetterlo era legato all'esercizio del diritto di vedere e di visitare la propria figlia. 2.3. Con un terzo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione all' articolo 595 cod. penumero Rappresenta che l'imputato è stato ritenuto responsabile del reato di diffamazione per aver divulgato, mediante pubblicazione sul proprio profilo omissis , una fotografia della persona offesa, accompagnata dalla frase omissis l'imputato, in sede di interrogatorio di garanzia, aveva spiegato che, in realtà, egli intendeva inviare tale foto alla persona offesa, ma, per errore, «l'aveva salvato quale immagine del proprio profilo dell'applicativo omissis », provvedendo poi a rimuoverlo. Tanto premesso, il ricorrente sostiene che sarebbe insussistente il dolo necessario per l'integrazione della fattispecie contestata, atteso che l'imputato avrebbe commesso il fatto solo per mero errore. 2.4. Con un quarto motivo, deduce il vizio di motivazione, in relazione all' articolo 594 cod. penumero Sostiene che in ogni caso il fatto contestato come diffamazione avrebbe dovuto essere riqualificato nel reato di ingiuria, che, però, nel 2016 è stato abrogato. 3. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte, ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso. 4. L'avv. Maria Chiaramente, per la parte civile, ha depositato memoria scritta con la quale ha chiesto di rigettare il ricorso. 5. L'avv. Giovanni Bellino, per l'imputato, ha depositato memoria scritta con la quale ha chiesto di accogliere il ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. 1.1. Il primo motivo è inammissibile. Esso, infatti, oltre a essere completamente versato in fatto, è privo di specificità, perché meramente reiterativo di identiche doglianze proposte con i motivi di gravame, disattese nella sentenza impugnata con corretta motivazione in diritto e congrua e completa argomentazione in punto di fatto cfr. pagina 4 della sentenza impugnata , con le quali il ricorrente non si è effettivamente confrontato. La Corte di appello, in particolare, ha evidenziato che il clima di conflittualità tra imputato e persona offesa, le aggressioni verbali dei familiari della persona offesa e gli ostacoli frapposti all'esercizio del diritto dell'imputato di visitare la figlia non giustificavano le condotte violente, le minacce, le offese e i danneggiamenti commessi dall'imputato il contesto di litigiosità nel quale erano maturate le condotte in questione non era tale da determinare una posizione di sostanziale parità tra imputato e persona offesa, in ragione della gravità delle violenze, delle minacce e delle offese commesse dal primo, che avevano causato nella vittima un grave stato d'ansia e di paura, che l'aveva costretta ad alterare le proprie abitudini di vita, non uscendo più di casa. Si tratta di una decisione in linea con la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale «la reciprocità dei comportamenti molesti non esclude la configurabilità del delitto di atti persecutori, incombendo, in tali ipotesi, sul giudice un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell'evento di danno, ossia dello stato d'ansia o di paura della presunta persona offesa, del suo effettivo timore per l'incolumità propria o di persone ad essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita» Sez. 5, numero 42643 del 24/06/2021, Rv. 282170 . 1.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato. Il reato di atti persecutori ha un oggetto giuridico diverso da quello dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni, dal quale si differenzia nettamente anche per l'abitualità della condotta e per la specificità dell'evento cfr. Sez. 5, Sentenza numero 20696 del 29/01/2016, R., Rv. 267148 . Nel caso in esame, avendo i giudici di merito ritenuto dimostrata la condotta abituale dell'imputato e lo specifico evento da essa causato, appare corretta la qualificazione giuridica del fatto nel reato di cui all' articolo 612-bis cod. penumero 1.3. Il terzo motivo è inammissibile. Esso, infatti, oltre a essere completamente versato in fatto, è privo di specificità, perché meramente reiterativo di identiche doglianze proposte con i motivi di gravame, disattese nella sentenza impugnata con corretta motivazione in diritto e congrua e completa argomentazione in punto di fatto cfr. pagina 4 della sentenza impugnata , con le quali il ricorrente non si è effettivamente confrontato. La Corte di appello, in particolare, ha ritenuto inverosimile la ricostruzione dell'imputato, rilevando che la successiva rimozione della foto non privava di penale rilevanza il fatto e l'offesa già arrecata alla vittima. 1.4. Il quarto motivo è manifestamente infondato. Appare, infatti, corretta la qualificazione giuridica del fatto come diffamazione, atteso che tale reato si configura quando il messaggio può essere letto da più persone, anche se tra di esse vi è la persona offesa cfr. Sez. 5, numero 18919 del 15/03/2016, Laganà, Rv. 266827 . Nel caso di specie, la divulgazione del messaggio offensivo risulta evidente, essendo il profilo OMISSIS accessibile quantomeno a tutti gli utenti del social network il cui contatto era inserito nella rubrica del telefono dell'imputato. 2. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione, consegue, ai sensi dell' articolo 616 cod. proc. penumero , la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende, che deve determinarsi in euro 3.000,00. Il ricorrente, altresì, è tenuto alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente grado di giudizio dalla costituita parte civile, che vanno liquidate complessivamente in euro 3.500,00, oltre accessori di legge. 3. La natura dei rapporti oggetto della vicenda impone, in caso di diffusione della presente sentenza, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che liquida in complessivi euro 3.500,00, oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell 'articolo 52 d.lgs. 196/0 3, in quanto imposto dalla legge.