“Probatio diabolica” attenuata se il bene contestato apparteneva ad un comune dante causa

Il rigore della c.d. probatio diabolica , la quale comporta l'onere, a carico dell'attore in rivendicazione, di provare la proprietà del bene risalendo, anche attraverso i propri danti causa, sino ad un acquisto a titolo originario, ovvero dimostrando il compimento dell'usucapione, si attenua nel caso in cui il convenuto non contesta l'originaria appartenenza del bene conteso ad un comune dante causa.

In tale ipotesi, il rivendicante non ha l'onere di provare il diritto dei suoi autori sino ad un acquisto a titolo originario, ma solo che il bene medesimo abbia formato oggetto del proprio titolo di acquisto. Con la sentenza numero 7539 del 21 marzo 2024, il S.C. affronta il tema dell'onere della prova nell'azione di rivendicazione, precisando che la “ probatio diabolica ” – generalmente richiesta in tali azioni – si attenua notevolmente quando il bene in contestazione proviene da un comune dante causa e tale circostanza non è contestata ed accertata nel corso del giudizio. Il caso La sentenza in commento ha origine dall' azione di rivendicazione , poi integrata con richiesta di restituzione , promossa in ordine ad una cantina detenuta, ad avviso delle attrici in primo grado, da un terzo, senza titolo. La domanda viene accolta in primo grado ma successivamente rigettata in appello non essendo stata fornita la “ probatio diabolica ” dell'effettivo acquisto del bene dal coloro che ne rivendicavano la proprietà. La sentenza della corte di appello viene quindi impugnata in Cassazione, sul rilievo, per quanto di interesse in questa sede, che il bene in contestazione proveniva da un comune dante causa – circostanza non contestata - dal che consegue l'attenuazione dell'onere probatorio in capo al rivendicante, secondo la costante giurisprudenza di legittimità La regola generale probatio diabolica e rivendicazione Secondo la posizione consolidata della giurisprudenza, qualora sia esperita azione di rivendicazione, in mancanza di indicazioni univoche sul piano catastale e dei titoli di acquisto delle parti, il giudice deve richiedere per l'accoglimento della domanda di rivendica la c.d. probatio diabolica , ossia non la sola prova del titolo di acquisto a titolo derivativo della particella, bensì la prova di un acquisto a titolo originario, idoneo a fare acquisire per usucapione la proprietà dell'area. Rivendicazione e mancata contestazione Nel solco di quanto in precedenza espresso, si afferma comunemente che, in caso di azione di rivendicazione in ordine un dato bene, non è sufficiente la mancata contestazione della controparte, essendo onere dell'attore fornire la prova della proprietà. Bene principale e bene pertinenziale Analogamente, l'esercizio dell'azione di rivendicazione in ordine ad un bene pertinenziale non fa venir meno l'onere dell'attore di fornire la prova in ordine al bene principale, non essendo sufficiente, per l'esonero da tale onere, la mancata contestazione sulla proprietà del predetto bene, né l'accertamento del rapporto di pertinenzialità, come peraltro discusso nel provvedimento in esame. Attenuazione della probatio diabolica l'ipotesi dell'usucapione La prova che si richiede, per l'azione di rivendicazione, è effettivamente molto gravosa, ma l'ordinamento consente, in alcune situazioni, di assolvere tale onere con modalità “semplificate” . E' il caso di quando si sostiene l'acquisto del bene rivendicato in forza di usucapione in tale situazione, l'onere della c.d. probatio diabolica incombente sull'attore si attenua quando il convenuto si difenda deducendo – a titolo di acquisto - l'usucapione, che non sia in contrasto con l'appartenenza del bene rivendicato ai danti causa dell'attore. In tali ipotesi, detto onere può ritenersi assolto, in caso di mancato raggiungimento della prova dell'usucapione, con la dimostrazione della validità del titolo di acquisto da parte del rivendicante e dell'appartenenza del bene ai suoi danti causa in epoca anteriore a quella in cui il convenuto assuma di aver iniziato a possedere. Azione di rivendicazione e “comune dante causa” Nel caso di specie, il S.C. ritiene errata la valutazione compiuta dalla Corte di Appello, in considerazione del fatto che il bene in contestazione proveniva da un comune dante causa, dal che consegue l' attenuazione dell'onere probatorio in capo al rivendicante, secondo la costante giurisprudenza di legittimità. In particolare, nell'azione di rivendicazione il rigoroso onere probatorio sopra evidenziato, si attenua, in relazione sia al comportamento ed alla linea difensiva della controparte, sia in tutti quegli altri casi che ne evidenzino l'inutilità, come nella vicenda per cui è causa, in cui la controversia riguardi un bene che le parti non contestano essere appartenuto ad un dante causa comune ad entrambe. Gli effetti del “comune dante causa” sull'onere della prova Di conseguenza, il S.C. rileva che, qualora ricorra l'ipotesi della comunanza del dante causa, che, secondo il diritto vivente, attenua la “ probatio diabolica ”, compete al giudice, sulla base delle evidenze probatorie di causa, trarne la conseguenza in ordine al soddisfacimento dell'onere della prova. La verifica di una tale ipotesi non è, pertanto, dipendente da eccezione , costituendo invece applicazione della corretta regola “ iuris ”, che compete al giudicante di conseguenza, il rivendicante, che ne assuma la sussistenza, ignorata dal giudice, non introduce, con il gravame, un tema nuovo” Azione di rivendicazione ed azione di restituzione La sentenza in commento chiarisce anche la distinzione tra azione di rivendicazione ed azione di restituzione , per le quali sono previsti anche regimi probatorie diverse e sulle quali vi era stato un diverso inquadramento tra il giudice di prime cure ed il giudice di appello. Entrambe le azioni, infatti, pur tendendo allo stesso risultato pratico, quale è il recupero della disponibilità materiale del bene, si distinguono sotto il profilo della causa petendi , in quanto la prima, si fonda sul diritto di proprietà vantano sul bene, mentre la seconda, ha per oggetto il diritto alla restituzione del bene derivante dall'inesistenza o dal sopravvenuto venir meno del titolo, in forza del quale l'occupante ne aveva, originariamente, acquistato la disponibilità. Tale differenza strutturale impone un onere probatorio molto più rigoroso in capo al soggetto che agisca ai sensi dell' articolo 948 c.c. perché colui che domanda il rilascio e la restituzione dell'immobile debba fornire la c.d. probatio diabolica , consistente nel provare la proprietà risalendo, anche attraverso i propri danti causa, fino all'acquisto a titolo originario, ovvero, dimostrando il compimento dell'usucapione. Diversamente, l'azione personale di restituzione impone la dimostrazione non già della titolarità del diritto di proprietà, bensì la sola prova dell'avvenuta consegna del bene sulla base di un titolo invalido o successivamente venuto meno.

Presidente Orilia – Relatore Grasso Svolgimento del processo 1. V.A., V.M. e V.N., esponendo di avere ricevuto in donazione il 9.5.2006 dai propri genitori taluni immobili e che fra essi v'era la metà indivisa di un locale cantina e che S.E. occupava senza titolo tale locale, con atto di citazione chiesero che quest'ultima fosse condannata al rilascio dell'immobile e a corrispondere l'indennità per l'occupazione La convenuta si difese eccependo, in via riconvenzionale, di avere acquistato il bene oggetto di causa, con atto del 14.7.2005, da B.C., il quale le aveva venduto un appartamento e un garage, del quale la porzione di cantina costituiva pertinenza. Con la memoria autorizzata di cui all' articolo 183, co. 6, cod. proc. civ. le attrici, ad integrazione delle esperite domande, precisarono che la condanna alla riconsegna dell'immobile fosse da reputare conseguenza dell'accertamento del loro diritto di proprietà sul medesimo bene. Il Tribunale, accolta la domanda, dichiarò le attrici proprietarie del bene e condannò la convenuta al rilascio e a corrispondere un'indennità, quantificata in € 6.000,00, per l'occupazione 1.1. La Corte d'appello di Venezia, per quel che ancora qui rileva, accolta in parte l'impugnazione della S.E., rigettò la domanda attorea e quella della convenuta. 1.1.1. Stante la difformità di “decisum” tra le due sentenze di merito conviene, sia pure in sintesi, riprendere il ragionamento del giudice di secondo grado, il quale evidenziava che - aveva errato il Tribunale a qualificare la domanda delle V. come di restituzione, trattandosi, invece, di rivendicazione, avendo queste chiesto restituirsi loro un bene abusivamente occupato, in conformità della sentenza numero 7305/2014 delle Sezioni unite, ciò a maggior ragione a seguito della precisazione della domanda - le stesse appellate avevano affermato “di non essere nel possesso dell'immobile che è stato loro trasferito in forza di donazione nel 2006 … anche i loro danti causa non erano nel possesso del bene nel momento in cui lo hanno donato. Coloro che nel 1984 erano proprietari del bene, V.G. e V.O. eredi della precedente unica proprietaria del fabbricato A.F., deceduta nel OMISSIS , avevano a quel tempo concesso in uso la cantina, per ragioni di cortesia, alla locataria dell'appartamento di cui al mapp. OMISSIS quello poi acquistato da S.E. . Poi, nel 1999, quando essi avevano venduto a D.T.F. l'appartamento in questione, la conduttrice, lasciando l'appartamento, aveva inopinatamente consegnato a D.T.F. anche le chiavi della cantina. È da questo momento che, nella ricostruzione delle appellate, i loro danti causa hanno perso il possesso del bene” - ricostruiti i passaggi che avevano condotto al titolo proprietario della A.F., le appellate non avevano provato l'acquisto a titolo originario, tenuto conto del fatto che il locale di cui si discute non era “venuto in essere al momento della ristrutturazione della palazzina, anche se in tale occasione il vano avesse assunto una propria autonoma denominazione catastale” - il vincolo pertinenziale invocato dalla convenuta non sussisteva poiché esso non preesisteva all'atto del di lei acquisto immobiliare e non constava essere stato esplicitamente e inequivocamente enunciato nel predetto atto. 2. V.A., V.M. e V.N. proponevano ricorso sulla base di tre motivi. Resisteva con controricorso, con il quale avanzava ricorso incidentale condizionato, S.E 3. Il Relatore, cui la causa era stata assegnata, giudicati manifestamente infondati i motivi del ricorso, propose, ai sensi dell'allora vigente articolo 380bis cod. proc. civ. , trattarsi la controversia “in camera di consiglio non partecipata della Sesta sezione civile”. 4. Le ricorrenti depositavano memoria illustrativa. 5. Con l'ordinanza interlocutoria numero 1816/2020, depositata il 27/1/2020, la Sesta Sezione, all'esito della camera di consiglio dispose rimettersi la causa alla pubblica udienza, in quanto “anche alla luce della memoria depositata dalle ricorrenti, ritiene che non ricorrano i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ex articolo 375, comma 1, nnumero 1 e 5 c.p.c. e che, pertanto, ai sensi dell'ultimo comma dell'articolo 380-bis c.p.c., la causa va rimessa alla pubblica udienza della sezione semplice”. 6. All'approssimarsi della fissata pubblica udienza, pervenute le conclusioni del P.G, con le quali ha chiesto accogliersi il primo motivo e dichiarare assorbiti i rimanenti, nonché il ricorso incidentale condizionato, la resistente ha depositato memoria. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo del ricorso principale le ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli articolo 948 e 2697 cod. civ. Con il motivo si afferma che il bene in contestazione proviene da un comune dante causa, dal che consegue l'attenuazione dell'onere probatorio in capo al rivendicante, secondo la costante giurisprudenza di legittimità. In particolare, le ricorrenti spiegano di essere divenute proprietarie attraverso la donazione del 9/5/2006 disposta in loro favore da V.G. e M.T.B. ed S.E. aveva prodotto in primo grado all. 1, 4 e 5 i documenti che consentivano di risalire, anche per costei a V.G. e M.T.B., i quali nel 1999 avevano venduto a D.T.F., il quale, nel 2004, aveva venduto a B.C., il quale, da ultimo, aveva venduto a S.E Di conseguenza, non sussistendo alcun conflitto a riguardo all'anteriore appartenenza, ma solo a riguardo dell'attuale, per le rivendicanti l'onere della prova era stato assolto, avendo costoro dimostrato il proprio titolo d'acquisto. 2. Il motivo è fondato. Il principio di diritto richiamato dalle ricorrenti risulta costituire vero e proprio “diritto vivente”, essendo stato da lungo tempo enunciato in sede di legittimità. Già nel 1982 si è avuto modo di affermare che il rigore della cosiddetta “probatio diabolica”, la quale comporta l'onere a carico dell'attore in rivendicazione, di provare la proprietà del bene risalendo, anche attraverso i propri danti causa, sino ad un acquisto a titolo originario, ovvero dimostrando il compimento dell'usucapione, si attenua nel caso in cui il convenuto non contesti l'originaria appartenenza del bene conteso ad un comune dante causa, nel senso che, in tale ipotesi, il rivendicatore non ha l'onere di provare il diritto dei suoi autori sino ad un acquisto a titolo originario, ma solo che il bene abbia formato oggetto del proprio titolo di acquisto e di quello dei suoi danti causa, sino al proprietario comune autore tra i contendenti Sez. 2, numero 518, Rv. 418223 ma già nello stesso senso, Cass. nnumero 5807/1978, 991/1977 . La ratio, com'è evidente, risiede nella “contraddizione che nol consente” di negare la titolarità del rivendicante comune alla controparte. Successivamente il principio è stato reiteratamente confermato Cass. nnumero 8394/1990 , si vedano, ex multis, Cass. nnumero 439/1985 , 1873/1985 , 4556/1985 , 6592/1986 e per i decenni successivi, Cass. nnumero 8394/1990 , 22598/2010 , 19499/2015 , 29707/2017 , 36335/2023 . Controdeduce la resistente che una simile prospettazione non risulta essere stata esaminata dalla Corte d'appello, davanti alla quale non sarebbe stata posta. Quindi, a cagione della sua novità, la doglianza sarebbe inammissibile. L'argomento, pur approfondito con dovizia in memoria, non è condiviso dal Collegio. L'onere di assolvere alla “probatio diabolica”, facente carico al rivendicante, consiste nella dimostrazione che il bene rivendicato è stato da lui acquistato a titolo originario, ovvero, molto più comunemente, che è a lui pervenuto attraverso una serie ininterrotta di trasferimenti aventi inizio da chi lo aveva acquistato a titolo originario. Al fine di soddisfare un tale onere occorre, di conseguenza, che il giudice venga posto nella condizione di conoscere la sequela. 2.1. L'attenuazione della regola probatoria dovuta alla comunanza del dante causa non costituisce oggetto d'una eccezione in senso stretto, bensì conseguenza della corretta interpretazione della regola “iuris” cui il giudice è tenuto. In altre parole, all'esito del vaglio dei titoli il giudicante, ove accerti una tale comunanza, è tenuto a trarne le debite conseguenze. Per questa ragione deve escludersi che nel caso in esame la questione cioè il fatto che la “probatio diabolica” dovesse reputarsi attenuata dalla comunanza del dante causa integri un tema nuovo non sottoposto al Giudice d'appello. Quest'ultimo, infatti, deve decidere la controversia, sulla base delle emergenze di causa nella specie costituite dai documenti messi a disposizione da entrambe le parti , essendo tenuto, se ne ricorra il caso, a riconoscere soddisfatto l'onere nell'ipotesi, più volte evocata, di comunanza del dante causa. È appena il caso di soggiungere che, un tale accertamento, che non consta la Corte di Venezia abbia compiuto, è squisitamente di merito. Per quanto esposto, accolto il motivo in esame, il Giudice del rinvio dovrà, giudicando la domanda di rivendicazione, accertare l'eventuale soddisfazione dell'onere della prova che grava sul rivendicante nei termini sopra riportati. 2.2. È utile, inoltre, precisare il seguente principio di diritto correlato al configurarsi del predetto onere nel caso in cui vi sia comunanza di dante causa “ove ricorra l'ipotesi della comunanza del dante causa, che, secondo il diritto vivente, attenua la “probatio diabolica”, compete al giudice, sulla base delle evidenze probatorie di causa, trarne la conseguenza in ordine al soddisfacimento dell'onere della prova. La verifica di una tale ipotesi non è, pertanto, dipendente da eccezione, costituendo invece applicazione della corretta regola “iuris”, che compete al giudicante di conseguenza, il rivendicante, che ne assuma la sussistenza, ignorata dal giudice, non introduce, con il gravame, un tema nuovo”. 3. In ragione dell'accoglimento del primo motivo, il secondo e il terzo, con i quali le ricorrenti lamentano l'omesso esame di un fatto controverso e decisivo, per non avere la Corte d'appello correttamente apprezzato “l'origine del bene immobile”, nonché “contraddittorietà della motivazione [e] falsa applicazione dell' articolo 132 c.p.c. ”, per avere la sentenza impugnata, attraverso il rigetto delle domande di entrambe le parti, reso il bene conteso “res nullius”, restano assorbiti in senso proprio. 4. Con il motivo del ricorso incidentale si denuncia violazione degli articolo 817 e 818 cod. civ. Questo, in sintesi, il ragionamento impugnatorio - la sentenza aveva escluso la natura pertinenziale del locale valorizzando la circostanza che nel 1984 V.G. e V.O. non locarono a S.B. anche la cantina, invece, a tenore dell' articolo 817 cod. civ. la Corte d'appello avrebbe dovuto tenere conto esclusivamente della oggettiva destinazione accessoria al bene principale - non era occorrente alcuna specifica, formale indicazione della cosa accessoria alla principale, essendo, al contrario, nel caso di vendita del solo bene principale, necessario escludere espressamente quello accessorio. 5. Il motivo è infondato. 5.1. La sentenza impugnata, dopo avere affermato che il vincolo pertinenziale tra unità immobiliari siti nello stesso edificio richiede “un'inequivoca volontà, da parte di chi ha il potere di disporre delle due cose, che ponga stabilmente l'una al servizio dell'altra”, esclude che nella condotta di V.G. e V.O. eredi di A.F. potesse riscontrarsi la volontà di trasformare la quota indivisa della cantina nella pertinenza dell'appartamento posto al secondo piano, per avere consegnato alla locatrice dell'appartamento le chiavi della cantina e tollerato che le stesse, pur dopo la cessazione del contratto di locazione e la vendita a terzi dell'appartamento, “restassero nelle mani di coloro che nel tempo si sono succeduti nella proprietà dell'appartamento”, non ravvisandosi in tali comportamenti “i tratti dell'inequivocità che la norma di cui all' articolo 817 c.c. ” richiede. Viene soggiunto che se è pur vero che il rapporto di pertinenzialità può sussistere fra un appartamento e una cantina, nel caso in cui quest'ultima arrechi utilità alla cosa principale, tuttavia, “quando vi sono diversi appartamenti-ufficio ai quali può essere destinata in servizio la cantina e non vi è un elemento materiale che vincoli con evidenza la cantina a uno degli appartamenti piuttosto che ad un altro, l'atto di destinazione funzionale della pertinenza ad una specifica unità principale deve avere una leggibilità particolarmente chiara e priva di ambiguità”. Infine, la Corte di Venezia soggiunge “dice l'appellante che con un simile argomento si sovvertirebbe la regola di cui all' articolo 818 c.c. , la quale richiede una menzione espressa solo per il caso in cui si voglia escludere il trasferimento della pertinenza. Questa regola presuppone tuttavia che il vincolo pertinenziale sia già sorto. Nel caso in cui l'autore della presunta destinazione a pertinenza del bene accessorio e il dante causa nel trasferimento del bene principale coincidano, il contenuto dell'atto di trasferimento è uno degli elementi che vanno considerati per interpretare la volontà del proprietario e comprendere se veramente egli abbia voluto creare tra i due beni il legame previsto dagli articolo 817-818 c.c. ”. Esaminate le emergenze istruttorie la sentenza afferma, sulla base del tenore degli atti di cessione in sequenza, potersi ricavare una tale volontà. Sicché, infine, “V.G. e M.T.B. non hanno mai trasferito a terzi, prima della donazione del 9.5.2006, la titolarità della quota di ½ della cantina oggetto di causa [avente, peraltro, una propria registrazione catastale] e che pertanto, correttamente, il giudice di prime cure ha rigettato la domanda di accertamento della proprietà da parte di S.E.”. 5.2. La decisione, sorretta dagli argomenti, sia pure in sintesi, riportati, non ponendosi in contrasto con gli arresti nomofilattici di questa Corte, ha deciso sulla base di un accertamento di merito non sindacabile davanti al Giudice della legittimità. La sentenza coglie nel segno, specie laddove spiega che, in assenza di comprovato preesistente vincolo pertinenziale, non vale sostenere che solo dalla manifestazione di una volontà espressa può dedursi che l'alienante abbia voluto alienare solo la cosa principale, separandola da quella accessoria. Non si registra, invero, alcun contrasto con il testo normativo laddove si affermi, come nel caso, che non si tratta di separare il bene, destinato alla funzione accessoria, da quello principale, in assenza di una espressa e inequivoca volontà manifestata in tal senso dall'alienante. Ma, ben diversamente, di assegnare una tale destinazione a un bene che, sulla scorta di quanto probatoriamente acquisito, non consti risultare asservito a un bene principale un tale asservimento è particolarmente evidente ove le due cose risultino “collegate” sul piano strutturale, o quello accessorio, dipendente obiettivamente – ad esempio per l'esistenza di un unico impianto dei servizi tecnologici – da quello principale ma alla stessa conclusione può giungersi ove per volontà dell'unico proprietario, di cui vi sia prova indubbia, sia stato creato il vincolo . Esattamente al contrario di quel che assumono i ricorrenti incidentali, ove un tal vincolo non risulti preesistere, esso non può che sorgere dall'atto, attraverso la inequivoca espressa manifestazione di volontà dell'alienante. Così inquadrata la disciplina trovano coerente armonizzazione le varie pronunce emesse da questa Corte, le quali, al contrario dell'apparenza, non si pongono in contrasto tra loro, nel senso che non si rinvengono due filoni interpretativi, uno volto a privilegiare l'oggettività del vincolo e l'altro la volontà dell'alienante. Così, si è affermato che in tema di pertinenze, gli atti e i rapporti giuridici aventi ad oggetto la cosa principale non estendono i propri effetti alla pertinenza ove tanto sia espressamente enunciato nell'atto avente ad oggetto la cosa principale, ovvero risulti da chiari ed univoci elementi contenuti nello stesso atto, il cui apprezzamento è riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità se correttamente motivato Sez. 2, numero 26946, 15/12/2006, Rv. 594124 . Sotto altro correlato profilo si è ulteriormente precisato che in tema di pertinenze, la legittima costituzione del vincolo presuppone l'esistenza, oltre che di un unico proprietario, di un elemento oggettivo, consistente nella materiale destinazione del bene accessorio ad un rapporto funzionale con quello principale, e di un elemento soggettivo, consistente nella effettiva volontà, espressa o tacita, di destinazione della res al servizio o all'ornamento del bene principale da parte di chi abbia il potere di disporre di entrambi. Pertanto, proprio in quanto la destinazione in modo durevole di una cosa - pure immobile - a servizio od ornamento di un'altra non necessita di alcuna forma solenne, anche la volontà di esclusione o cessazione di un rapporto pertinenziale tra due cose può essere desunta da qualsiasi elemento a tal fine ritenuto idoneo, con accertamento di mero fatto, insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente e correttamente motivato Sez. 2, numero 6656, 29/04/2003, Rv. 562529 ma già in precedenza Cass. numero 12755/1999 e, successivamente, “ex multis”, Cass. numero 20911/2021 . Ed ancora, per la costituzione del vincolo pertinenziale sono necessari un elemento oggettivo, consistente nella materiale destinazione del bene accessorio in una relazione di complementarità con quello principale, e un elemento soggettivo, consistente nella effettiva volontà, del titolare del diritto di proprietà, o di altro diritto reale sui beni collegati, di destinazione della res al servizio o all'ornamento del bene principale Sez. 2, numero 9563, 09/05/2005, Rv. 581711 . Peraltro, posto che la destinazione a pertinenza di una cosa considerata accessoria rispetto ad altra considerata principale può derivare o dalla destinazione oggettiva e funzionale dell'una al servizio dell'altra o dalla destinazione operata dal proprietario di quest'ultima, anche con riguardo a cose prive del rapporto di accessorietà, e che l'avente diritto, può far venir meno tale rapporto mediante la manifestazione espressa di una volontà contraria, facendo considerare le due cose in modo distinto e separato, è compito del giudice accertare, nell'ambito dei trasferimenti negoziali, l'esistenza di tale volontà, attraverso l'esame di tutte le clausole contrattuali Sez. 2, numero 8468, 13/6/2002, Rv. 555035 . 5.3. Tirando le fila, avendo il giudice accertato insindacabilmente non potersi affermare che la cantina quota di ½ fosse stata in precedenza destinata inequivocamente a servizio e utilità dell'appartamento, solo dall'atto si sarebbe potuto ricavare la volontà della creazione di un tale vincolo. Per contro, il Giudice, anche in questo caso con giudizio di merito non sindacabile, peraltro sorretto da compiuta e coerente motivazione pag. 10 , ha escluso il sussistere di una tale volontà. 5.4. In disparte va evidenziato che non consta essere stata censurata quella che appare come una seconda ratio decidendi, fondata sulla mancata menzione della cantina tra i beni oggetto del trasferimento del 1999 in favore di D.T.F. dante causa della convenuta , nonostante che la cantina fosse dotata di una sua autonoma identificazione catastale v. pagg. 9 e 10 della sentenza . 6. In conclusione la sentenza merita di essere cassata solo in relazione al primo accolto motivo del ricorso principale, fermo restando che il Giudice del rinvio dovrà riesaminare il punto sulla scorta degli elementi probatori in atti, ormai cristallizzati. Il Giudice del rinvio regolerà anche il capo delle spese del presente giudizio di legittimità. 7. Ai sensi dell'articolo 13, comma 1-quater D.P.R. numero 115/02 inserito dall' articolo 1, comma 17 legge numero 228/12 applicabile ratione temporis essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013 , sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte delle ricorrenti incidentali di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto. P.Q.M. accoglie il primo motivo del ricorso principale e dichiara assorbiti gli altri due, rigetta il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione all'accolto motivo e rinvia alla Corte d'appello di Venezia, altra composizione, anche per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità. Ai sensi dell 'articolo 13, comma 1-quater D.P.R. numero 115/0 2 inserito dall 'articolo 1, comma 17 legge numero 228/1 2 , si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte delle ricorrenti incidentali di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.