Le dimissioni del lavoratore rassegnate sotto minaccia di licenziamento sono annullabili per violenza morale, qualora venga accertata l'inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al licenziamento per insussistenza dell'inadempimento addebitato al dipendente, dovendosi ritenere che, in detta ipotesi, il datore di lavoro, con la minaccia del licenziamento, abbia inteso perseguire un risultato non raggiungibile con illegittimo esercizio del diritto di recesso.
Così ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza 9129, depositata il 18.3.2024. Dimissioni…sotto minaccia Un lavoratore sosteneva di essere stato costretto a dimettersi, redigendo, sotto dettatura e sotto minaccia, una lettera di licenziamento. La condotta veniva fatta oggetto di un procedimento penale per il reato di estorsione in concorso articolo 110 e 629 c.p. , successivamente derubricato in reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone articolo 393 c.p. e, da ultimo, ancora riqualificato come reato di violenza privata articolo 610 c.p. . Il lavoratore minacciato si costituiva parte civile deducendo la riconducibilità delle estorte dimissioni ad un licenziamento nullo, chiedendo, di conseguenza, il riconoscimento di tutte le retribuzioni maturate e non percepite, dal dì dell'estorsione a quello della pronuncia definitiva. I giudici di merito non avallavano le difese del lavoratore e, anzi, qualificavano l'atto di cessazione del rapporto di lavoro come “dichiarazione di dimissioni su violenza” che, in quanto tale, era passibile di annullabilità e pertanto le conseguenze risarcitorie potevano essere ricostruite in via equitativa e, quindi, ricondotte solo alla perdita della retribuzione per il periodo intercorrente tra le dimissioni e l'inizio di una nuova occupazione nel caso di specie, 9 mesi . Nel caso di specie, inoltre, doveva considerarsi l'intervenuta prescrizione quinquennale dell'azione di annullabilità. Reati e contratti Il caso giunge avanti la Corte di Cassazione, chiamata a chiarire se l'estorsione delle dimissioni comporti la nullità o l'annullabilità del negozio giuridico. La Suprema Corte sintetizza il proprio consolidato orientamento, secondo cui quando un negozio si è concluso commettendo un reato, occorre distinguere l'ipotesi di reati commessi nell'attività di conclusione del contratto cosiddetti “reati in contratto” e l'ipotesi di reati che consistono nel concludere un determinato contratto in sé vietato cosiddetti “reati contratto” . In altri termini, nel caso in cui la norma incriminatrice vieti proprio la stipulazione del contratto , in ragione dell'assetto degli interessi ivi sottesi, si è di fronte al “reato contratto” ad esempio, la vendita di sostanze stupefacenti, la ricettazione o il commercio di prodotti falsi , quando invece la norma incriminatrice sanziona la condotta posta in essere da uno dei contraenti a danno dell'altro, nella fase di stipulazione, si è di fronte alla categoria del “reato in contratto” ad esempio, la circonvenzione di persone incapace, l'usura. Ciò considerato, un negozio giuridico può considerarsi nullo, per contrarietà alle norme penali imperative ex articolo 1418 c.c. quando il contratto è vietato - esplicitamente -dalla norma penale, nel senso che la sua stipulazione integra reato diversamente non rileva ai fini della nullità del negozio giuridico il divieto che colpisca soltanto un comportamento delle parti durante la stipula. Nel caso di specie, quindi, si è concretizzata un'ipotesi di “reato in contratto”, determinato dal vizio del consenso per effetto di violenza privata su una delle parti del negozio, il lavoratore, con conseguente annullabilità - e non nullità - dell'atto di dimissioni da qui, la qualificazione e quantificazione del risarcimento sulla base del criterio equitativo, comprendente il periodo di effettiva non occupazione e non, come avrebbe voluto il lavoratore, il ripristino dello status quo ante con diritto a percepire tutte le retribuzioni maturate dal dì delle storte dimissioni sino a quello della pronuncia definitiva.
Presidente Patti – Relatore Michelini Rilevato che 1. G.L. domandava l'ammissione al passivo del fallimento della OMISSIS s.r.l. in liquidazione dichiarato dal Tribunale di Ancona, chiedendo l'ammissione in privilegio ex articolo 2751 bis, numero 1, c.c. per l'importo di € 133.640 a titolo di retribuzioni maturate da agosto 2009 al 21.12.2017 data di dichiarazione del fallimento , nonché per l'importo di € 24.055,20 in prededuzione per il periodo successivo, previo accertamento della nullità dell'atto di apparenti dimissioni del 15.7.2009 per violazione di norme imperative ovvero, in via alternativa e subordinata, annullamento dell'atto siccome affetto di violenza o dolo ovvero ai sensi dell'articolo 428 c.c. e conseguenti accertamento e declaratoria che il rapporto di lavoro subordinato era proseguito senza soluzione di continuità, con diritto alle retribuzioni maturate in tutto il periodo dalle apparenti dimissioni al fallimento 2. a sostegno della propria domanda, esponeva che - era stato costretto a presentare una lettera di dimissioni compilata sotto dettatura di due responsabili dell'azienda, che lo minacciavano altrimenti di conseguenze pregiudizievoli, in data 15.7.2009 - aveva denunciato i fatti, con conseguente apertura di un procedimento penale per il delitto di estorsione in concorso articolo 110 e 629 c.p. , nel quale si era costituito parte civile - il Tribunale di Ancona dichiarava estinto il reato nei confronti di un imputato per morte del reo, condannava l'altro imputato, previa riqualificazione del fatto, per il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone articolo 393 c.p. , dichiarava la società responsabile civile, con condanna solidale al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale cagionato alla parte civile, alla quale liquidava una provvisionale di € 20.000 - in sede di appello il fatto veniva riqualificato nel reato di violenza privata articolo 610 c.p. , dichiarato estinto per intervenuta prescrizione, ferme le statuizioni civili - la Quinta Sezione Penale di questa Corte dichiarava inammissibili i ricorsi dell'imputato e della parte civile Cass. penumero numero 25597/2019 3. il G.D. rilevava che - non ricorrevano i presupposti per la declaratoria di nullità del licenziamento, dovendosi semmai porre il problema dell'annullabilità della dichiarazione di dimissioni per violenza - rispetto a tale ipotesi era decorso il termine quinquennale di prescrizione - in ogni caso, le conseguenze pregiudizievoli scaturenti dalla violenza privata subita dovevano essere quantificate in relazione al pregiudizio effettivo, tenendo conto che dopo le dimissioni il ricorrente aveva ripreso a lavorare presso altra società con contratti a tempo determinato, salvo un periodo di sospensione - il danno subito doveva essere quantificato nella perdita della retribuzione per il periodo di 9 mesi non lavorati - l'istante andava ammesso al passivo a tale titolo per l'importo di € 12.027,06 in privilegio, oltre interessi, e per € 13.423,90 categoria chirografari a titolo di spese liquidate nelle sentenze di primo e secondo grado 4. il lavoratore proponeva opposizione allo stato passivo, insistendo nelle proprie pretese fondate sul prospettato diritto al percepimento delle retribuzioni con conseguente ricostituzione della posizione giuridica e con valutazione del credito come se il rapporto fosse proseguito senza soluzione di continuità, piuttosto che come risarcimento del danno 5. con decreto numero 1038/2020 il Tribunale di Ancona rigettava l'opposizione, specificando che - in sede penale era stata accertata la sussistenza di condotta criminosa di cui all'articolo 610 c.p., con declaratoria che di tale fatto dovesse rispondere la società poi fallita ai sensi degli articolo 2049 c.c. e 185 c.p. - da tale accertamento non discendeva la nullità dell'atto di dimissioni o un licenziamento, trattandosi di “reato in contratto”, in cui si punisce il comportamento tenuto da una delle parti nella fase di formazione o di esecuzione, per cui non rileva il contratto in sé, ma rilevano le modalità frode, violenza, minacce mediante le quali lo stesso viene concluso o eseguito, sicché, nel caso in oggetto, si trattava non di atto di licenziamento nullo, ma di dimissioni annullabili, a fronte delle quali il lavoratore non aveva esercitato tempestivamente l'azione nel termine di prescrizione di 5 anni, in assenza di atti interruttivi validi - unico criterio risarcitorio utilizzabile rimaneva quello equitativo, comprendente il periodo di effettiva non occupazione, somma da considerarsi satisfattiva unita a quella assegnata in provvisionale in sede penale 6. per la cassazione di tale provvedimento propone ricorso G.L., sulla scorta di 6 motivi, illustrati da memoria resiste con controricorso l'amministrazione fallimentare al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell'ordinanza Considerato che 1. preliminarmente va disattesa l'eccezione, formulata da parte ricorrente, di inammissibilità del controricorso per invalidità della procura 2. come di recente chiarito da Cass. S.U. numero 2075/2024, in tema di ricorso per cassazione, il requisito della specialità della procura, di cui agli articolo 365 e 83, comma 3, c.p.c., non richiede la contestualità del relativo conferimento rispetto alla redazione dell'atto a cui accede, essendo a tal fine necessario soltanto che essa sia congiunta, materialmente o mediante strumenti informatici, al ricorso e che il conferimento non sia antecedente alla pubblicazione del provvedimento da impugnare e non sia successivo alla notificazione del ricorso in questo caso controricorso stesso 3. sempre preliminarmente, va disattesa l'eccezione di parte controricorrente di improcedibilità del ricorso per carenza di documenti ai sensi dell'art 369, comma 3, c.p.c., avendo parte ricorrente documentato di aver adempiuto alle prescritte formalità nel rispetto delle particolari procedure previste nel periodo pandemico 4. con il primo motivo, parte ricorrente deduce articolo 360, numero 3, c.p.c. , violazione o falsa applicazione degli articolo 1324,1325,1418,1425,1427,428 c.c. e 112 c.p.c. in punto di ritenuta insussistenza di un vizio di nullità dell'atto unilaterale di dimissioni per assenza di volontà del lavoratore o di annullabilità dell'atto di apparenti dimissioni 5. con il secondo motivo, deduce articolo 360, numero 3, c.p.c. violazione o falsa applicazione degli articolo 2938 e 1442 c.c., 112 c.p.c. in punto di rilevazione d'ufficio della prescrizione dell'azione di annullamento delle dimissioni in assenza di eccezione della curatela 6. con il terzo motivo, deduce violazione o falsa applicazione degli articolo 111 Cost, 131, 132, 135 c.p.c., 118 disp. att. cpc, per omessa motivazione sulla ritenuta non validità degli atti interruttivi e dunque nullità del provvedimento impugnato 7. con il quarto motivo, deduce articolo 360, numero 3, c.p.c. violazione o falsa applicazione degli articolo 2943,2697 c.c., 112 c.p.c. , in punto di ritenuta assenza di validi atti interruttivi della prescrizione dell'azione di annullamento delle apparenti dimissioni 8. con il quinto motivo, deduce articolo 360, numero 5, c.p.c. omesso esame del fatto decisivo costituito dall'esistenza di validi atti di interruzione della prescrizione dell'azione di annullamento ex articolo 1442 c.c. 9. con il sesto motivo, deduce articolo 360, numero 3, c.p.c. violazione o falsa applicazione degli articolo 112 c.p.c., 1223, 1226, 2056 c.c., 185 c.p. in punto statuizione equitativa su un risarcimento non richiesto, ossia per essersi il Tribunale pronunciato sul risarcimento dei danni non oggetto di domanda, anziché riconoscere le retribuzioni per tutto il periodo come da domanda del lavoratore 10. il primo e sesto motivo devono essere esaminati congiuntamente, perché correlati alla riconduzione della fattispecie all'ipotesi di annullabilità delle dimissioni con diritto al risarcimento del danno, anziché di nullità, con ricostituzione giuridica del rapporto ex tunc con diritto alle retribuzioni, e perché aventi rilievo assorbente 11. essi non sono fondati 12. parte ricorrente nel primo motivo contesta la ricostruzione giuridica della fattispecie quale “reato in contratto” e nega nel sesto motivo di avere richiesto in sede civile il risarcimento del danno, avendo piuttosto domandato il pagamento delle retribuzioni dalla data delle dimissioni contestate alla data del fallimento 13. non viene, pertanto, posta questione, in questa sede, in ordine alla quantificazione del risarcimento pur riconosciuto, con criterio dichiaratamente equitativo, nella misura sopra indicata con riferimento a quanto liquidato in sede penale e alle retribuzioni perdute in periodo di disoccupazione involontaria 14. dunque, le stesse questioni sviluppate nei motivi dal secondo al quinto della prescrizione dell'azione di annullamento, della relativa eccezione che, comunque, parte controricorrente ha puntualmente dedotto e localizzato , della validità degli atti scrutinio circa la correttezza della riconduzione della fattispecie concreta a quella astratta del “reato in contratto” e del diritto alle retribuzioni anziché al risarcimento del danno per effetto della prospettata qualificabilità in termini di nullità delle dimissioni contestate 15. tale pregiudiziale scrutinio delle questioni connesse oggetto del primo e sesto motivo conduce, ad avviso del Collegio, per le ragioni che seguono, al rigetto delle censure contenute nei motivi stessi e al conseguente assorbimento degli altri motivi 16. come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, non è possibile individuare un automatismo tra nullità e atto di autonomia privata posto in essere in violazione di una norma penale nella prospettiva del diritto civile, non è sufficiente, per aversi nullità del negozio, che sia sanzionata, anche penalmente, la condotta di colui o coloro che l'hanno posto in essere, dovendo farsi oggetto di verifica, piuttosto, le finalità perseguite e gli interessi tutelati dalla norma violata l'individuazione del trattamento civilistico dell'atto negoziale che si confronti con una fattispecie di reato dipende dal rapporto che, di volta in volta, si abbia tra reato e contratto o negozio Cass. numero 17959/2020, numero 26097/2016 17. tradizionalmente, quando il negozio si è concluso commettendo un reato, si usa distinguere l'ipotesi dei reati commessi nell'attività di conclusione di un contratto, cioè dei cd. reati in contratto , e l'ipotesi dei reati che consistono nel concludere un determinato contratto, in sé vietato, cioè dei cd. reati contratto 18. in sintesi, la distinzione è la seguente nel caso in cui la norma incriminatrice penale vieti proprio la stipulazione del contratto, in ragione dell'assetto degli interessi che esso mira a realizzare, si è al cospetto del cd. reato-contratto ad es. la vendita di sostanze stupefacenti, la ricettazione ex articolo 648 c.p., il commercio di prodotti con segni falsi ex articolo 474 c.p. allorché, al contrario, la norma penale sanzioni la condotta posta in essere da uno dei contraenti in danno dell'altro nella fase della stipulazione, rileva la categoria concettuale del cd. reato in contratto si tratta, per lo più, delle fattispecie di reato caratterizzate dalla cooperazione artificiosa della vittima come la violenza privata ex articolo 610 c.p., l'estorsione ex articolo 629 c.p., la circonvenzione di persona incapace ex articolo 643 c.p., l'usura ex articolo 644 c.p. 19. in altri termini, in tema di cause di nullità del negozio giuridico, per aversi contrarietà a norme penali ai sensi dell'articolo 1418 c. c., occorre che il contratto sia vietato direttamente dalla norma penale, nel senso che la sua stipulazione integri reato, mentre non rileva il divieto che colpisca soltanto un comportamento materiale delle parti o di una sola di esse Cass. numero 18016/2018 20. in questa cornice interpretativa, è stato affermato che il contratto stipulato per effetto diretto del reato di estorsione è affetto da nullità ai sensi dell'articolo 1418 c.c. Cass. numero 17568/2022, numero 17959/2020 cit. 21. diversamente, è stato affermato che le dimissioni del lavoratore rassegnate sotto minaccia di licenziamento sono annullabili per violenza morale, qualora venga accertata l'inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al licenziamento per insussistenza dell'inadempimento addebitato al dipendente, dovendosi ritenere che, in detta ipotesi, il datore di lavoro, con la minaccia del licenziamento, persegua un risultato non raggiungibile con il legittimo esercizio del diritto di recesso cfr. Cass. numero 41271/2021, numero 8298/2012, numero 24405/2008 cfr. anche, parallelamente, Cass. numero 18930/2016, sull'annullabilità del contratto concluso per effetto di truffa di uno dei contraenti in danno dell'altro, atteso che il dolo costitutivo di tale delitto non è ontologicamente diverso, neanche sotto il profilo dell'intensità, da quello che vizia il consenso negoziale 22. è stato anche chiarito che la violenza morale esercitabile dal datore di lavoro, che può determinare l'annullabilità delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, può esprimersi secondo modalità variabili e indefinite, anche non esplicite ad es., può agire anche solo come concausa, ed essere ravvisata nella minaccia dell'esercizio di un diritto, quando la relativa prospettazione sia immotivata e strumentale - Cass. numero 24363/2010 e che le dimissioni rassegnate dal lavoratore sono annullabili per violenza morale ove siano determinate da una condotta intimidatoria, oggettivamente ingiusta, tale da costituire una decisiva coazione psicologica, risolvendosi il relativo accertamento da parte del giudice di merito in un giudizio di fatto, incensurabile in cassazione se motivato in modo sufficiente e non contraddittorio Cass. numero 16161/2015 23. ora, dato atto che la questione della configurabilità delle dimissioni in esame quale conseguenza del reato di estorsione ovvero di violenza privata è stata ampiamente dibattuta nel procedimento penale v. la motivazione di Cass. penumero numero 25597/2019 sul caso in esame , il Collegio osserva che essa è stata in tale sede definita nel secondo senso reato di violenza privata 24. alla qualificazione in sede penale del comportamento del rappresentante del datore di lavoro - dalla quale discende la responsabilità civile di parte datoriale qui rappresentata dalla curatela fallimentare - quale reato di violenza privata vanno dunque ricollegate le condivisibili statuizioni del Tribunale in termini a di ricorrenza, nel caso concreto, di “reato in contratto”, determinante vizio del consenso per effetto di violenza morale su una delle parti del negozio b di conseguente annullabilità e non nullità dell'atto di dimissioni c di insussistenza del diritto al pagamento delle retribuzioni maturate da agosto 2009 a dicembre 2017, oggetto della domanda di ammissione al passivo come azionata in questa sede 25. assorbite le ulteriori questioni logicamente e giuridicamente dipendenti, in ragione della soccombenza parte ricorrente deve essere condannata alla rifusione delle spese del presente giudizio in favore di parte controricorrente, liquidate come da dispositivo 26. al rigetto dell'impugnazione consegue il raddoppio del contributo unificato, ove dovuto nella ricorrenza dei presupposti processuali P.Q.M. La Corte rigetta il primo e il sesto motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, che liquida in € 4.000 per compensi, € 200 per esborsi, spese generali al 15%, accessori di legge. Ai sensi dell'articolo 13 comma 1 quater del d.p.r. numero 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.