Ai fini del giudizio sulla discriminazione indiretta non si richiede la completa identità della fattispecie ma è sufficiente che le situazioni siano simili o analoghe.
Alcuni cittadini stranieri di Stati extracomunitari avevano convenuto in giudizio davanti al Tribunale competente il Ministero dell'Interno, il Ministero dell'economia e delle finanze e la Presidenza del Consiglio dei ministri premettendo di aver corrisposto per ottenere il rilascio rinnovo dei permessi di soggiorno diversi importi economici e che tali importi, determinati dal Testo unico dell'immigrazione con la quale era stato istituito il “fondo rimpatri”, erano stati ritenuti sproporzionati dalla Corte di giustizia dell'Unione europea rispetto agli obiettivi perseguiti dalla direttiva UE . Lamentavano, così, gli attori che, malgrado tale pronuncia, le Autorità nazionali non avevano modificato il decreto ministeriale costringendo i ricorrenti a versare gli importi dovuti sulla base di disposizioni discriminatorie , in ragione della nazionalità, in quanto volte ad imporre a cittadini stranieri la corresponsione di somme notevolmente superiori a quelle versate da quelli italiani per prestazioni dal contenuto analogo quali, ad esempio, il rilascio della carta di identità. Sulla base di queste premesse, gli attori chiedevano che fosse accertata la discriminazione posta in essere dalle Amministrazioni convenute, per aver determinato l'importo dovuto dai cittadini stranieri per la richiesta di rinnovo oppure di rilascio del permesso di soggiorno in misura sproporzionata rispetto a quello richiesto al cittadino italiano per documenti di analoga natura, nonché la condanna di queste Istituzioni al risarcimento dei danni conseguenti alla discriminazione, da quantificare in misura corrispondente alla differenza tra quanto effettivamente pagato e quanto dovuto se il contributo fosse stato fissato in modo proporzionato. Il Tribunale competente dichiarava che la direttiva comunitaria osta una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento, che impone ai cittadini di Paesi terzi, che chiedono il rilascio o il rinnovo di un permesso di soggiorno nello Stato membro, di pagare un contributo di importo maggiore rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva e, in concreto, atta a creare un ostacolo all'esercizio dei diritti conferiti da quest'ultima. D'altra parte, osservava il Tribunale, lo stesso giudice di Lussemburgo ha attribuito al giudice nazionale, qualora sia stata accertata una discriminazione incompatibile col diritto comunitario, il potere di disapplicare qualsiasi disposizione discriminatoria affinché siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del legislatore, e il dovere di applicare ai componenti della categoria sfavorita lo stesso regime che viene riservato alle persone dell'altra categoria. Per questi motivi il Tribunale stabiliva gli importi da dover restituire agli attori da parte degli Enti convenuti. Avverso la decisione del Tribunale veniva proposto appello dalle Amministrazioni convenute in primo grado, impugnazione che veniva rigettata, con conferma della sentenza impugnata. La questione, così, perveniva agli scranni della Suprema Corte. Per gli Ermellini la decisione resa dal giudice di Lussemburgo è orientata ad evitare che i Paesi dell'Unione possano, attraverso una politica relativa ai costi per i permessi di soggiorno pur riservata alla loro discrezionalità tuttavia, incidere negativamente sui diritti che la Direttiva dell'UE intendeva espressamente salvaguardare e, fra questi, quelli di soggiorno insieme ai diritti fondamentali. Dunque, per la Suprema Corte le censure degli organi amministrativi sono infondate posto che il giudice di appello ha argomentato sulla ritenuta sussistenza di una discriminazione indiretta proprio muovendo dall'esame compiuto della sentenza della Corte di giustizia e della precisazione in ordine alla necessità che la politica in tema di costi per il rilascio di permessi di soggiorno non finisca col costituire un ostacolo al diritto di soggiorno dei richiedenti e non pregiudichi i loro diritti fondamentali in modo discriminatorio. In altri termini, è stato il giudice di merito, di primo e di secondo grado, ad individuare il contegno discriminatorio sotteso alla normativa nazionale in base alla nazionalità nei confronti dei richiedenti i permessi di soggiorno o provenienti da Paesi terzi, assoggettandoli ad un peso economico ingiustificato destinato ad incidere sul diritto di soggiorno, nella ricorrenza dei relativi presupposti individuati dal richiedente, e appunto discriminatorio rispetto ai cittadini richiedenti un titolo ritenuto corrispondente carta di identità per il rilascio del quale l'ordinamento richiede costi notevolmente inferiori. Per gli Ermellini, dunque, la Corte territoriale non è in corsa in alcun error juris rispetto all'assunzione della condotta nel tipo di discriminazione indiretta, ove solo si consideri che, ai fini del giudizio sulla discriminazione indiretta, non si richiede la completa identità della fattispecie, che renderebbe inapplicabile la tutela antidiscriminatoria è invece sufficiente che le situazioni siano simili o analoghe, come appunto ha ritenuto, correttamente, il giudice di merito.
Presidente Scotti – Relatore Conti Fatti e ragioni della decisione 1.Ch.So., Ma.Xi., @2Ca,Ca., Mo.Ra., Mo.El., Ah.Is., Mo.Ta., Ok.Ma., Pr.Ve., tutti cittadini stranieri di Stati extracomunitari, convennero in giudizio davanti al Tribunale di Milano il Ministero dell'interno, il Ministero dell'Economia e delle Finanze e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, premettendo a di avere corrisposto, per ottenere il rilascio e rinnovo dei permessi di soggiorno importi variabili tra euro 80,00 per i permessi di durata superiore a tre mesi e inferiore o pari a un anno euro 100,00 per i permessi di durata superiore a un anno e inferiore o pari a due anni ed euro 200,00 euro per i permessi di soggiornanti di lungo periodo b che tali importi, determinati dall' articolo 15 , c.2-ter T.U. Immigrazione sulla base del D.M. 6 maggio 2011, reso in attuazione della legge 15 luglio 2009 numero 94 , con la quale era stato istituito il Fondo rimpatri , alimentato dalla metà del gettito conseguito dalla riscossione del contributi anzidetti c che tali importi erano stati ritenuti sproporzionati dalla Corte di Giustizia UE, con sentenza 2 settembre 2015, C-309/2014 rispetto agli obiettivi perseguiti dalla direttiva UE 2003/109/2015 CE del 23 novembre 2003 d che malgrado tale pronunzia le autorità nazionali non avevano modificato il D.M. ult.cit., costringendo i ricorrenti a versare importi dovuti sulla base di disposizioni discriminatorie in ragione della nazionalità , in quanto volte ad imporre a cittadini stranieri la corresponsione di somme notevolmente superiori a quelle versate dai cittadini italiani per prestazioni dal contenuto analogo quali ad esempio, il rilascio della carta d'identità . 1.1. Sulla base di tali premesse, gli attori chiedevano che fosse accertata la discriminazione posta in essere dalle amministrazioni convenute per aver determinato l'importo dovuto dai cittadini stranieri per la richiesta di rinnovo o rilascio del permesso di soggiorno in misura sproporzionata rispetto a quello richiesto al cittadino italiano per documenti di analoga natura, nonché la condanna delle convenute al risarcimento dei danni conseguenti alla discriminazione, da quantificare in misura corrispondente alla differenza tra quanto effettivamente pagato e quanto dovuto se il contributo fosse stato fissato in modo proporzionato. 2. Il Tribunale di Milano, con sentenza dell'8 luglio 2016, dopo avere disatteso l'eccezione di incompetenza territoriale del Tribunale di Milano a favore della competenza del Tribunale di Roma, riteneva che a la Corte di Giustizia UE sent. 2.9.2015, causa C-309/2014 nel dare seguito al rinvio pregiudiziale proposto dal TAR Lazio nell'ambito del ricorso nel quale era stato impugnato il D.M. 6 ottobre 2011, aveva dichiarato che la direttiva 2003/109 osta ad una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, che impone ai cittadini di paesi terzi che chiedono il rilascio o il rinnovo di un permesso di soggiorno nello Stato membro considerato di pagare un contributo di importo variabile tra EUR 80 e EUR 200, in quanto siffatto contributo è sproporzionato rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva ed è atto a creare un ostacolo all'esercizio dei diritti conferiti da quest'ultima b lo stesso giudice di Lussemburgo aveva attribuito al giudice nazionale, qualora sia stata accertata una discriminazione incompatibile con il diritto comunitario, il potere di disapplicare qualsiasi disposizione discriminatoria finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del legislatore, e il dovere di applicare ai componenti della categoria sfavorita lo stesso regime che viene riservato alle persone dell'altra categoria Corte Giust., 16 gennaio 2008, cause riunite da C-128/07 a C 131/07 c il TAR Lazio, all'esito del rinvio pregiudiziale, aveva annullato il DM 6.10.2011 limitatamente agli articolo 1, commi 1, che fissava i contributi, di 80,00, 100,00 e 200,00 euro, 2, 2, e 3 precisando che l'effetto utile sarebbe compromesso anche dalla fissazione di un contributo eccessivo nei confronti di coloro che richiedono il rilascio di permessi di soggiorno più brevi, dato che il conseguimento di questi ultimi costituisce il presupposto logico e giuridico per il conseguendo status di soggiornante di lungo periodo , senza dunque limitare il criterio enunciato alla fattispecie del permesso di soggiorno di lungo periodo d le disposizioni che determinano la misura del contributo per il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno, nei limiti indicati, erano da considerare, sulla base di una valutazione compiuta in via incidentale, del tutto illegittime e si traducevano in un atto dal contenuto discriminatorio e la legge ordinaria e il DM, adottato a norma degli articoli 5, comma 2 ter, e 14 bis del decreto legislativo numero 286/1998 avevano quindi introdotto, in contrasto con il diritto comunitario, una disparità di trattamento del cittadino straniero rispetto al cittadino italiano, posto che gli stessi, per ottenere il permesso di soggiorno, erano stati costretti a pagare una somma notevolmente superiore, pari a circa otto volte a quella pagata dagli italiani per usufruire di prestazioni dal contenuto analogo, come il rilascio di carta d'identità nazionale f la discriminazione per motivi di nazionalità opera in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato allo straniero quale effetto della sua appartenenza ad una nazionalità diversa da quella italiana g i ricorrenti, costretti a corrispondere le somme di cui al DM 6.10.2011 per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno, dovevano ritenersi vittime di discriminazione fondata sulla nazionalità h l'assunto prospettato dalle amministrazioni resistenti circa l'esistenza di una attività istruttoria più complessa, necessaria per il rilascio dei permessi di soggiorno rispetto al rilascio di titoli di contenuto analogo per i cittadini italiani, non era stata in alcun modo dimostrata i una volta accertata la discriminazione, stante l'impossibilità di determinare in via giurisdizionale l'importo previsto per le tre tipologie di permessi di soggiorno determinazione che rientra nella discrezionalità della P.A., da esercitare nei limiti tracciati dalla Corte di Giustizia e dalla presente decisione, così da esigere importi analoghi a quelli richiesti ai cittadini italiani per documenti di analoga natura la domanda di restituzione così riqualificata la domanda di condanna al risarcimento del danno proposta dai ricorrenti poteva essere accolta con riferimento alla differenza tra l'importo previsto per il permesso di soggiorno elettronico, pari ad euro 27,50 e quello versato dai ricorrenti in base all'articolo 28 del D.Lgs. 150/2001 h pertanto, andavano riconosciuti a Ch.So., Ok.Ma. e Ca.Ca.,Ma.Xi. che avevano versato euro 100,00 per il permesso di soggiorno biennale nel 2012 e 200,00 euro per il permesso di soggiorno di lungo periodo la somma di euro 245,00 e a Mo.Ra. Ah.Is. che avevano corrisposto euro 200,00 ciascuno per 2 richieste di rinnovo del permesso di soggiorno la somma di euro 145,00 ciascuno, oltre interessi dalla data della domanda. 3.Avverso la decisione del Tribunale è stato proposto appello dalle Amministrazioni convenute in primo grado le quali, nel corso del giudizio precisavano che il Ministero dell'economia e delle Finanze, di concerto con il Ministero dell'Interno, aveva provveduto, con il decreto 5/5/2017 G.U. numero 131 del 8/6/2017 , a modificare le disposizioni interessate alla vicenda oggetto di valutazione, sostenendo che gli originari importi di cui all'articolo 1 D.M. 6/10/2011 erano stati ridotti, sulla base della discrezionalità riconosciuta allo Stato membro dalla stessa Corte di Giustizia UE di far gravare sui soggetti che ne beneficiavano una parte dei costi dell'istruttoria necessaria al rilascio del permesso di soggiorno, e che i nuovi importi, indicati con riferimento alla durata dei singoli permessi di soggiorno, risultavano proporzionati e non ostativi all'effetto utile che la direttiva comunitaria aveva inteso raggiungere. 4. La Corte di appello di Milano, con sentenza numero 4564/2018 , ha rigettato l'impugnazione, confermando la sentenza impugnata. 4.1 Per quel che qui ancora rileva, la Corte di appello ha osservato che a la domanda giudiziale del ristoro del danno patrimoniale non era stata proposta autonomamente, ma dipendeva dall'azione discriminatoria alla quale i ricorrenti avevano collegato la richiesta risarcitoria, per la quale vigeva la competenza funzionale, inderogabile ed esclusiva del Tribunale del luogo in cui il ricorrente ha il domicilio alla stregua dell' articolo 28 del D.Lgs. numero 150/2011 , non venendo in discussione alcuna azione autonoma di risarcimento del danno per inadempimento di direttive comunitarie b era corretta la decisione impugnata laddove, nel condividere l'assunto espresso dal Consiglio di Stato con la sentenza numero 4487/2016, di conferma della sentenza del Tar Lazio del 24.6.2016, aveva ritenuto che la sentenza della Corte di Giustizia del 2 settembre 2015 si era consapevolmente e deliberatamente occupata, per evidenti e ben motivate ragioni di ordine logico-sistematico, anche della misura dei contributi stabiliti per il rilascio o il rinnovo dei permessi di breve durata, per quanto non contemplati dalla direttiva numero 2003/109/CE, sicché la realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva è un limite invalicabile al potere discrezionale degli Stati membri nella determinazione dei contributi anche con riferimento ai permessi di soggiorno di breve periodo tra le condizioni per l'acquisizione dello status di soggiornante di lungo periodo vi è anche quella del soggiorno legale ed ininterrotto nel territorio del singolo Stato membro per diversi anni , ciò pure ricavandosi dai consideranda della direttiva numero 2003/109/CE numero 9, 10 e 18 c l'attività istruttoria necessaria per il rilascio dei permessi di soggiorno non poteva ritenersi complessa e si risolveva in adempimenti burocratici che permettono la facile reperibilità delle informazioni necessarie, nemmeno differendo in base alla tipologia di permesso di soggiorno d la destinazione della metà del gettito del contributo al finanziamento del Fondo rimpatri per le spese connesse al rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi rintracciati in posizione irregolare sul territorio nazionale verso i Paesi di origine o di provenienza era in contrasto con la finalità rappresentata dalle Amministrazioni appellanti, secondo cui i costi sostenuti dallo Stato italiano per l'accertamento dei requisiti per l'acquisizione dello status di soggiornante di lungo periodo e per il rilascio del permesso di soggiorno potevano essere pari o anche maggiori al gettito del contributo e il D.M. del 6/10/2011 aveva introdotto un trattamento differenziato dei cittadini di Paesi terzi, rispetto ai cittadini italiani, per motivi di nazionalità, costringendoli a pagare contributi di importo notevolmente superiori a quelli versati dai cittadini italiani per ottenere documenti elettronici di analoga natura, dando luogo ad una situazione di svantaggio per i cittadini extracomunitari a causa di una caratteristica che, pur non senza espressamente indicare il fattore discriminante era ad esso intimamente e inscindibilmente connesso, creando un ostacolo al conseguimento dell'effetto utile perseguito dalle disposizioni comunitarie, in aperto contrasto con la parità di trattamento garantita anche dall'articolo 11 della direttiva 2003/109/CE f acclarata dalla Corte di giustizia UE la natura sproporzionata dei contributi fissati dall'ordinamento nazionale, doveva ritenersi che la violazione della direttiva, così come accertata, consentiva al cittadino straniero che ha pagato l'importo sproporzionato di ottenere a titolo di risarcimento danni danno patrimoniale l'importo in eccedenza versato poiché la Direttiva comunitaria non fissava un importo massimo da versare, era condivisibile il criterio di liquidazione adottato dal Tribunale di Milano sulla base di un principio di equità g la nuova normativa entrata in vigore il 9/6/2017 e con cui sono stati fissati i nuovi contributi per le diverse e singole tipologie di permessi, non conteneva disposizioni transitorie, sicché si doveva ribadire la correttezza degli importi da restituire indicati nella sentenza impugnata. 5. Il Ministero dell'interno, il Ministero dell'Economia e delle Finanze e la Presidenza del Consiglio dei ministri hanno impugnato la sentenza indicata in epigrafe con ricorso per cassazione, affidato a due motivi, al quale Ch.So., Ma.Xi., Ca.Ca., Mo.Ra., Mo.El., Ah.Is., Mo.Ta., Ok.Ma., Pr.Ve. hanno resistito con controricorso. 6. I controricorrenti hanno depositato memoria. La causa è stata posta in decisione all'udienza del 7.3.2024. 7. Con il primo motivo le ricorrenti prospettano la violazione dell' articolo 25 c.p.c. e dell'articolo 28 del D.Lgs. numero 150/2011 , nonché dell'articolo 101 c.p.c. La Corte di appello avrebbe errato nel qualificare la domanda come azione di discriminazione, anziché quale azione di risarcimento del danno quantificato nelle somme versate, a titolo di contributo, in eccedenza rispetto al dovuto, risultando dunque fondata l'eccezione di incompetenza del Tribunale di Milano ai sensi dell' articolo 25 c.p.c. Inoltre, avendo i ricorrenti azionato la pretesa risarcitoria in relazione alla permanenza di una normativa in contrasto con il diritto dell'Unione europea, non potrebbe che discenderne il difetto di legittimazione passiva del Ministero dell'Economia e della Presidenza del Consiglio dei ministri, poiché il Ministero dell'Interno era l'unico soggetto deputato alla riscossione del contributo per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno. 7.1 Con il secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli articolo 5 , comma 2-ter, 43 e 44 del D.Lgs. numero 286/1998 , 2 D.Lgs. numero 215/2003 , 1, c.22, lett.b l.numero 94/2005, 7-viciesquater d.l.numero 7/2005 , D.M. 4.4.2006, D.M. 6.10.2011, D.M. 5.5.2017. La Corte di appello avrebbe errato nel ritenere equiparabili gli importi dovuti per il rilascio di permessi di soggiorno a quelli sostenuti dai cittadini italiani per ottenere documenti elettronici ritenuti di natura analoga, parimenti errando nel considerare che l'attività necessaria per il rilascio dei primi fosse non particolarmente complessa, muovendo da un'erronea ricostruzione della nozione di discriminazione. Infatti, nel caso di specie, l'imposizione del contributo economico a tutti i richiedenti il permesso di soggiorno non potrebbe assurgere a comportamento discriminatorio, risultando detti contributi fissati in ragione della complessità degli accertamenti e delle operazioni di rilascio e di rinnovo dei predetti titoli, non assimilabili a quelli richiesti per l'emissione di altri documenti amministrativi . La Corte di appello non avrebbe dunque considerato la divergenza per natura e funzione fra permessi di soggiorno e documenti di identità rilasciati ai cittadini italiani, i primi legittimando la presenza dello straniero sul territorio nazionale sulla base di una attività provvedimentale a contenuto autorizzatorio ed i secondi consistendo in una mera attività dichiarativa finalizzata alla dimostrazione dell'identità nazionale. La Corte di giustizia UE non avrebbe dunque conclamato l'esistenza di un comportamento discriminatorio quale effetto del D.M. dell'ottobre 2011, essendosi limitata ad affermare la natura sproporzionata del contributo come fissato a livello nazionale. Peraltro, l' articolo 5 bis d.l.numero 66/2014 , convertito con modificazioni nella l.numero 89/2014 , aveva introdotto un contributo consolare di euro 300,00 per le spese istruttorie necessarie al trattamento della domanda di riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis. Per tali motivi dovrebbe escludersi la discriminazione a carico dei richiedenti il permesso di soggiorno, anche in ragione dell'esiguità della misura posta a loro carico. Peraltro, il D.M. 5.5.2017, nel rideterminare gli importi dovuti per il rilascio delle varie tipologie di permesso di soggiorno, in attuazione della sentenza del Consiglio di Stato numero 4487/2016 , che aveva confermato TAR Lazio numero 6095/2016 , era stato erroneamente ritenuto non applicabile in quanto sprovvisto di disposizioni transitorie, essendo stato adottato ora per allora proprio in relazione alla decisione del Consiglio di Stato, rendendo erronea la decisione del giudice di appello in punto di quantificazione del contributo dovuto dai ricorrenti sulla base dei costi per il rilascio di documento elettronico, non afferendo minimamente alle spese istruttorie sottese al rilascio dei permessi di soggiorno. 8. I controricorrenti, nel controricorso, hanno dedotto l'inammissibilità ed infondatezza dei motivi proposti. Le amministrazioni appellanti, nel precisare le conclusioni innanzi alla Corte di appello, avrebbero rinunciato alla domanda originariamente proposta di rigetto integrale delle domande attoree, limitando le conclusioni di merito alla sola rideterminazione degli importi mediante modifica del parametro di riferimento del residuo importo dovuto ciò precluderebbe, a loro dire, l'esame dell'eccezione di incompetenza territoriale e della questione relativa all'accertamento sul carattere discriminatorio, apparendo comunque corretta la decisione impugnata. 9. Il primo motivo è infondato sotto tutti i profili esposti. 9.1. Per un verso, giova ricordare che la rilevazione ed interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata al giudice di merito ed è sindacabile a ove ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell'attività del giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex articolo 360, comma 1, numero 4, c.p.c. b qualora comporti un vizio del ragionamento logico decisorio, eventualità in cui, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del petitum, potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere prospettato come vizio di nullità processuale ai sensi dell' articolo 360, comma 1, numero 4, c.p.c. c quando si traduca in un errore che coinvolge la qualificazione giuridica dei fatti allegati nell'atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un atto allegato e non contestato da ritenere decisivo, ipotesi nella quale la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di error in iudicando, in base all' articolo 360, comma 1, numero 3, c.p.c. , o al vizio di error facti, nei limiti consentiti dall' articolo 360, comma 1, numero 5, c.p.c. cfr. Cass.numero 11103/2020 . 9.2. La decisione impugnata, nel disattendere l'eccezione di incompetenza ai sensi dell' articolo 25 c.p.c. , si è correttamente limitata ad interpretare le domande proposte dai ricorrenti in primo grado, cogliendone l'inscindibile collegamento fra domanda risarcitoria e condotta discriminatoria derivate dalla normativa interna prospettata dalle parti attrici, per la quale è prevista la competenza funzionale del Tribunale del luogo nel quale il ricorrente ha il domicilio articolo 28 D.Lgs.numero 150/2011 , in tal modo coerentemente escludendo, con statuizione che si sottrae alla verifica di questa Corte, il radicamento della competenza in base all' articolo 25 c.p.c. 9.3. A conferma della correttezza delle valutazioni operate in punto di competenza dal giudice di merito, è utile ricordare che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte evidenziato la natura speciale disciplina processuale dettata dal D.Lgs. numero 150 del 2011, articolo 28, individuandone il fondamento nelle preminenti esigenze di tutela delle vittime di atti e comportamenti discriminatori e riconoscendo, quindi, il carattere funzionale ed esclusivo del foro da essa introdotto, ritenuto prevalente sugli altri fori anche inderogabili previsti dal codice di rito o da norme speciali a garanzia di interessi ulteriori, anch'essi considerati meritevoli di particolare tutela cfr. Cass., Sez. VI, 29/10/2013, numero 24419 . Si è infatti sottolineata l'importanza primaria che, nel nostro sistema di valori, rivestono le finalità perseguite dal legislatore attraverso la disciplina antidiscriminatoria, affermandosi che, in quanto finalizzata ad una piena realizzazione del fondamentale principio di uguaglianza, la cui completa attuazione risulta impedita o comunque ostacolata dai predetti atti o comportamenti, essa di certo prevale, per tale connotazione ulteriore, sulle norme inderogabili che, nell'intento di garantire il minore disagio possibile nell'esercizio dei diritti in sede giudiziaria, concentrano la competenza in un determinato foro, individuato secondo criteri di prossimità con l'oggetto della controversia cfr., per le controversie in materia di lavoro, Cass. numero 3936/2017 . E' stato inoltre richiamato il principio, ripetutamente affermato da questa Corte in riferimento all'ipotesi in cui la medesima controversia ricada astrattamente nell'ambito applicativo di più norme che contemplino fori diversi, tutti inderogabili, secondo cui il conflitto dev'essere risolto affermando la prevalenza di quello previsto dalla norma più recente, alla quale dev'essere riconosciuta una portata limitatrice di quelle precedenti cfr. Cass., Sez. I, 9/10/2015, numero 20304 Cass., Sez. VI, 12/03/2014, numero 5703 Cass., Sez. III, 9/06/2011, numero 12685 -cfr. Cass.numero 3936/2017 -. Resta solo da aggiungere che nel valutare nel merito la domanda proposta nei confronti di tutti i soggetti che avevano a vario titolo contribuito, nella prospettiva esposta dai ricorrenti e condivisa dal giudice di merito, a dare luogo, ciascuno per gli atti di propria competenza, alle condotte discriminatorie, non può ravvisarsi alcuna violazione in punto di legittimazione passiva, come prospettato dalle ricorrenti, riguardando piuttosto il tema di causa la fondatezza nel merito id est la titolarità passiva delle domande proposte dai ricorrenti in primo grado. 10. Passando all esame del secondo motivo, lo stesso si riassume nelle censure che, per un verso, contestano l'affermazione dalla ritenuta natura discriminatoria in relazione alla pronunzia della Corte di giustizia UE che si sarebbe limitata ad accertare il carattere sproporzionato dei contributi originariamente disposti dalla normativa secondaria interna e non già il carattere discriminatorio delle stesse. Per altro verso, andrebbe escluso l'effetto discriminatorio in relazione alla finalità dell'imposizione del contributo, collegata alla complessità degli accertamenti per il rilascio dei permessi, tutt'affatto diversi da quelli correlati all'emissione delle carte di identità ai cittadini italiani, unicamente rivolte a determinare l'identità personale del titolare. Per altro verso ancora, le ricorrenti contestano, in definitiva, la quantificazione del risarcimento del danno riconosciuto dal giudice di merito, ritenendo che il parametro utilizzato per tale liquidazione non sarebbe corretto, dovendosi utilizzare quello del D.M. 5.5.2017, dotato di efficacia retroattiva, in quanto emesso per conformarsi alla decisione del giudice amministrativo 10.1 Occorre a questo punto riflettere sul senso da attribuire alla decisione della Corte di giustizia UE. Non vi è dubbio che la Corte di giustizia UE, con la sentenza del 2 settembre 2015, in causa C-309/2014, abbia per un verso acclarato la natura sproporzionata dei contributi fissati a livello interno, senza operare alcuna distinzione fra i costi dei permessi di soggiorno richiesti o per i relativi rinnovi a carico dei soggetti lungo-soggiornanti e cioè di coloro che sono cittadini di paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri da quelli previsti a carico di richiedenti altre tipologie di permessi di soggiorno, all'epoca dei fatti per cui è processo, profondamente modificata dalla legislazione successiva. 10.2. A tale conclusione è pervenuto motivatamente il Consiglio di Stato dalla lettura della sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione europea del 2 settembre 2015, in C-309/14, emerge chiaramente che, al contrario di quanto sostengono le appellanti , essa abbia inteso riferirsi consapevolmente e deliberatamente, per evidenti e ben motivate ragioni di ordine logico-sistematico, anche alla misura dei contributi stabiliti per il rilascio o il rinnovo dei permessi di breve durata, per quanto non contemplati dalla direttiva numero 2003/109/CE. 12.1. se è pur corretto affermare, come sostiene l'Avvocatura Generale dello Stato nell'appello qui in esame, che la direttiva numero 2003/109/CE regoli esclusivamente i permessi UE per soggiornanti di lungo periodo, non è altrettanto corretto dedurne che il diritto eurounitario sia estraneo, ed indifferente, al percorso normativo che nel suo complesso ogni singolo Stato delinea per il conseguimento di tali permessi. 12.2. Se fosse vero che solo il segmento finale di tale percorso e, cioè, quello esclusivamente concernente la procedura -e il contributo-per l'ottenimento del permesso UE per i soggiornanti di lungo periodo debba essere oggetto di normazione eurounitaria e di interpretazione da parte della Corte di Giustizia, ogni singolo Stato potrebbe introdurre una normativa sui permessi di più breve soggiorno tanto restrittiva da rendere sostanzialmente impossibile o eccessivamente oneroso per gli stranieri la legale permanenza nel territorio per cinque anni necessari a stabilizzare la loro posizione all'interno dell'Unione europea e a consentirne l'inserimento nel tessuto socioeconomico. 12.3. In questo modo la libertà di stabilimento, che pure la direttiva numero 2003/109/CE mira a proteggere, diverrebbe puramente teorica finendo di fatto per essere vanificata, perché mediante l'introduzione di una legislativa nazionale relativa ai permessi di più breve durata, sostanzialmente penalizzante o addirittura proibitiva, già solo a livello economico, per la stabile permanenza degli stranieri nel territorio nazionale l'obiettivo di conseguire i permessi di lunga durata sarebbe un traguardo irraggiungibile e illusorio per molti di essi, per quanto in possesso di tutti i requisiti previsti dalla normativa eurounitaria, con evidente elusione delle finalità perseguite dalla stessa direttiva numero 2003/109/CE. 12.4. Quanto all'aspetto qui controverso dei contributi richiesti per il rilascio e il rinnovo dei permessi, la Corte di Giustizia ha evidenziato tale percorso ed ha censurato nel suo complesso la normativa italiana sullo straniero intenzionato a stabilizzarsi, avente tutti i requisiti previsti dalla direttiva, perché tale normativa pone una serie di ostacoli sproporzionati rispetto alle finalità perseguite dalla direttiva l'inserimento dei lungo soggiornanti e costituenti un ostacolo all'esercizio dei diritti che essa loro conferisce Queste argomentazioni sono state condivise sia dal giudice di primo grado sia dalla Corte di non sono nemmeno contrastate dalle ricorrenti, le quali hanno del resto dato atto che è stata data piena attuazione alla decisione di annullamento del D.M.6.10.2011 pronunziata dal giudice amministrativo per effetto dell'adozione di un nuovo D.M. 5.5.2017 . 10.3. Ora, la posizione espressa dalla Corte di appello appare pienamente condivisibile ove appunto si consideri che nella ricordata sentenza della Corte di giustizia UE il giudice di Lussemburgo, dopo avere espressamente ricordato il D.M. del 2011 e gli importi fissati per i permessi di breve periodo e per quelli relativi ai soggiornanti di lungo periodo, ebbe ad aggiungere che l'incidenza economica di un contributo siffatto può essere considerevole per taluni cittadini di paesi terzi che soddisfano le condizioni poste dalla direttiva 2003/109 per il rilascio dei permessi di soggiorno previsti da quest'ultima, e ciò a maggior ragione per il fatto che, in considerazione della durata di tali permessi, tali cittadini sono costretti a richiedere il rinnovo dei loro titoli assai di frequente e che all'importo di detto contributo può aggiungersi quello di altri tributi previsti dalla preesistente normativa nazionale, cosicché, in tali circostanze, l'obbligo di versare il contributo di cui trattasi nel procedimento principale può rappresentare un ostacolo alla possibilità per i predetti cittadini dei paesi terzi di diritti conferiti loro dalla summenzionata direttiva. cfr. par. 27 Corte giust., 2 settembre 2015, C-309/14 . 10.4. Tanto è sufficiente per ritenere che la Corte di giustizia UE abbia effettivamente individuato il punto di collegamento fra i costi previsti a livello nazionale per le diverse tipologie dei permessi di soggiorno in Italia all'epoca previsti, individuando la necessità che il test di proporzionalità reso necessario dalla dir.2003/109 dovesse estendersi necessariamente a tutte le tipologie regolate dal D.M. del 2011. 10.5. A questo sindacato, d'altra parte, era stata sollecitato il giudice comunitario dal TAR Lazio che, con l'ordinanza di rinvio pregiudiziale numero 5290/2014, aveva per l'appunto esposto, nella parte motiva del rinvio, il proprio avviso secondo il quale risulta che l'imposizione del pagamento di un contributo per il rilascio del titolo a soggiornare sul territorio dello Stato italiano, richiesto da un cittadino di un Paese terzo, pari nel minimo a circa 8 volte il costo del rilascio della carta d'identità, tenuto conto di quanto già affermato dalla Corte di giustizia UE nella decisione numero 508 del 2012, appare confliggente con i ricordati principi di livello comunitario e soprattutto non sembra coerente con il citato principio di proporzionalità nel senso espresso dalla direttiva 2003/109/CE. 10.6. Orbene, sotto questo profilo la decisione del giudice di Lussemburgo, resa con riferimento ai costi per i permessi dei soggiornanti di luogo periodo e dei loro familiari si riferisce alla direttiva 109 già ricordata, nella quale peraltro non vi era alcun espresso riferimento alla proporzionalità dei costi, diversamente che per altri permessi disciplinati da ulteriori strumenti comunitari nei quali il riferimento alla necessità di contenere detti costi è stata espressamente considerata cfr., ad es., articolo 36 dir.UE 11 maggio 2016, 2006/801 relativa alle condizioni di ingresso e soggiorno dei cittadini di paesi terzi per motivi di ricerca, studio, tirocinio, volontariato, programmi di scambio di alunni o progetti educativi, e collocamento alla pari rifusione articolo 19, par.1, Dir.2014/36/UE del 26 febbraio 2014 sulle condizioni di ingresso e di soggiorno dei cittadini di paesi terzi per motivi di impiego in qualità di lavoratori stagionali . 10.7. Ciò posto, non è superfluo evidenziare che la Corte giustizia UE, in piena linea di continuità con quanto già ritenuto nella pronunzia che aveva riguardato la procedura di infrazione nei confronti del Regno di Olanda e della Grecia, sempre relativa ai costi sproporzionati fissati per il rilascio di permessi di soggiorno ai soggetti soggiornanti di lungo periodo, aveva ritenuto che la fissazione di importi sproporzionati previsti dal D.M. del 2011, in attuazione dell'articolo 5, c.2 ter, T.U.I., era anche atta a creare un ostacolo all'esercizio dei diritti conferiti da quest'ultima. 10.8. Pare dunque al Collegio che tale precisazione abbia estremo rilievo ai fini del presente giudizio, dimostrando che la decisione resa dal giudice di Lussemburgo fosse orientata ad evitare che i Paesi dell'Unione potessero, attraverso una politica relativa ai costi per i permessi di soggiorno pur riservata alla discrezionalità degli stessi, tuttavia incidere negativamente sui diritti che la stessa direttiva 109 intendeva espressamente salvaguardare e, fra questi quello di soggiorno insieme ai diritti fondamentali. 10.9. Né può essere senza significato che tale indicazione rifletta, ancora una volta, il contenuto della sentenza della Corte di giustizia UE del 2012, causa 508/10, cit., resa nel procedimento di infrazione ricordato, allorché si era espressamente affermato che Contributi aventi un'incidenza finanziaria considerevole per i cittadini di paesi terzi che soddisfano le condizioni previste dalla direttiva 2003/109 per il rilascio di detti permessi di soggiorno potrebbero privare tali cittadini della possibilità di far valere i diritti conferiti dalla direttiva in parola, contrariamente al decimo considerando della medesima. Orbene, come emerge da tale considerando, il sistema di regole procedurali per l'esame delle domande intese al conseguimento dello status di soggiornante di lungo periodo non dovrebbe costituire un mezzo per ostacolare l'esercizio del diritto di soggiorno cfr. par. 70 e 71 Corte giust. C-508/10 . 10.10. Ciò consente di affrontare l'ulteriore censura esposta nel secondo motivo di ricorso e dunque di verificare il senso e la portata della sentenza della Corte di giustizia UE più volte ricordata e delle pronunzie del giudice amministrativo sul quale si appunta parte della censura, contestandosi dai ricorrenti l'equiparazione fra ritenuta sproporzione del contributo originariamente fissato sul piano interno e discriminazione invece nel caso di specie ritenuta dal giudice di merito di primo e di secondo grado . 10.11. La censura è infondata, posto che il giudice di appello ha argomentato sulla ritenuta sussistenza di una discriminazione indiretta correlata al D.M. 6.10.2011 proprio muovendo dall'esame compiuto della sentenza della Corte di giustizia e della precisazione, ivi già ricordata, in ordine alla necessità che la politica in tema di costi per il rilascio di permessi di soggiorno non finisca col costituire un ostacolo al diritto di soggiorno dei richiedenti e non pregiudichi i loro diritti fondamentali in modo discriminatorio. 10.12. In altri termini, è stato il giudice di merito di primo e di secondo grado ad individuare il contegno discriminatorio sotteso al D.M. del 2011 in base alla nazionalità nei confronti dei richiedenti i permessi di soggiorno provenienti da paesi terzi, assoggettandoli ad un peso economico ingiustificato destinato ad incidere sul diritto di soggiorno, nella ricorrenza dei relativi presupposti individuati dal richiedente, e appunto discriminatorio rispetto ai cittadini richiedenti un titolo ritenuto corrispondente carta d'identità per il rilascio del quale l'ordinamento positivo richiedeva costi notevolmente inferiori. e ciò ha ratto correttamente sussumendo la fattispecie nel corretto quadro normativo articolo 43 D.Lgs.numero 286/1998 e articolo 2 D.Lgs.numero 215/2003 . 10.13. Ciò esclude, dunque, di poter profilare il vizio sotto il profilo della non corretta applicazione della giurisprudenza comunitaria al caso di specie. Ed invero, il giudice di merito ha operato direttamente una verifica in ordine alla ricorrenza nel caso di specie di un comportamento discriminatorio in violazione dell'articolo 2, c.2, lett.b del D.Lgs.numero 215/2003 , affermando che il D.M. del 6/10/2011 ha introdotto un trattamento differenziato dei cittadini di Paesi terzi, rispetto ai cittadini italiani, per motivi di nazionalità poiché li ha costretti a pagare dei contributi di importo notevolmente superiori a quelli versati dai cittadini italiani per ottenere documenti elettronici che ben possono essere considerati di analoga natura . 10.14. Ragion per cui bene ha fatto la Corte di appello a ritenere, con valutazione autonoma ed al contempo intimamente collegata rispetto a quella relativa al giudizio di proporzionalità operato dalla Corte di giustizia UE, che il D.M. del 2011, in attuazione della legge g ià ricordata articolo 5, c.2 ter, T.U.I. , aveva consapevolmente creato una situazione di svantaggio per i cittadini non comunitari, onerandoli di contributi economici necessari per l'ottenimento dei permessi di soggiorno non solo sproporzionati rispetto alle finalità perseguite dalla direttiva UE 109, cit., ma altresì idonei a rappresentare un fattore discriminante per l'ottenimento tanto dello status di lungo-soggiornanti che dei permessi di soggiorni di più breve durata. 10.15. E altrettanto corretto deve ritenersi il giudizio di contrarietà ai canoni di non discriminazione fatti propri dalla stessa direttiva CE numero 109/2003 con le declinazioni contenute nell'articolo 11. 10.16. In definitiva, nelle affermazioni esposte dalla Corte di appello non si ravvisa il vizio prospettato dai ricorrenti. 10.17. Ciò perché il giudice di merito ha correttamente ritenuto sussistente una discriminazione indiretta, valutando che la differenza di trattamento fra i costi sopportati dai cittadini italiani richiedenti una carta d'identità e quelli richiesti ai richiedenti i permessi di soggiorno dei lungo-soggiornanti e/ richiedenti che avrebbero perciò potuto acquisire lo status anzidetto, stimata in misura pari ad otto volte, costituiva una discriminazione fondata sulla nazionalità e quindi un ostacolo all'ottenimento della certificazione fondata sulla nazionalità. Così facendo, la Corte territoriale non è incorsa in alcun error iuris rispetto alla sussunzione della condotta nel tipo di discriminazione indiretta, ove solo si consideri che ai fini del giudizio sulla discriminazione non si richiede la completa identità delle fattispecie che renderebbe inapplicabile la tutela antidiscriminatoria è invece sufficiente che le situazioni siano simili o analoghe, come appunto ha ritenuto, correttamente, il giudice di merito. 10.18. Mette del resto conto rilevare, a conferma della soluzione espressa dalla Corte di appello, che l'Avv.generale Bot, nelle conclusioni relative alla causa 508/10 presentata il 19 gennaio 2012, ult.cit., relativa al procedimento di infrazione definito con la sentenza della Corte di giustizia del 26 aprile 2012, aveva affermato che l'obiettivo perseguito dalla direttiva, volta a favorire l'integrazione dei soggiornanti di lungo periodo attraverso la loro assimilazione, sia pure parziale, ai cittadini dell'Unione, debba condurre a trattare i primi in condizioni paragonabili a quelle applicate ai secondi qualora, in forza di tale direttiva, essi chiedano, in condizioni simili, il rilascio di documenti analoghi. Anche in mancanza di disposizioni relative al percepimento dei contributi, tale obiettivo mi pare renda illegittima una disparità di trattamento che non sia giustificata da alcuna ragione oggettiva. Il margine di discrezionalità riconosciuto agli Stati membri mi pare peraltro soggetto ad una seconda serie di limiti, concernenti il rispetto dei diritti fondamentali. Emerge, infatti, da una giurisprudenza costante della Corte, che i doveri inerenti alla tutela dei principi generali riconosciuti nell'ordinamento giuridico dell'Unione, tra i quali vanno annoverati i diritti fondamentali, vincolano parimenti gli Stati membri quando danno esecuzione alle normative dell'Unione e, quindi, questi sono tenuti, quanto più possibile, ad applicare siffatte normative in condizioni tali da non violare detti doveri. Il terzo considerando della direttiva precisa, d'altro canto, che quest'ultima rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti segnatamente nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali , firmata a Roma il 4 novembre 1950 , e nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea . Ne consegue che le disposizioni di attuazione della direttiva devono essere valutate alla luce dei diritti fondamentali e, più in particolare, del principio di non discriminazione. Richiamato nel quinto considerando della direttiva, la quale precisa che g li Stati membri dovrebbero attuare le disposizioni della presente direttiva senza operare discriminazioni fondate su sesso, razza, colore della pelle, origine etnica o sociale, caratteristiche genetiche, lingua, religione o convinzioni personali, opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, appartenenza a una minoranza nazionale, censo, nascita, disabilità, età o tendenze sessuali , il principio di non discriminazione mi pare osti alla previsione di contributi il cui importo sia dissuasivo per i cittadini di paesi terzi che non dispongano di capacità finanziarie sufficientemente consistenti. 10.19. Ora, tali argomentazioni espresse dall'Avvocato Generale, pur ovviamente non dotate di alcuna efficacia vincolante rispetto al sistema interno, risultano pienamente convincenti ed utilizzabili, con l'autorevolezza che può riconoscersi alle conclusioni degli Avvocati generali presso la Corte di giustizia UE, per ulteriormente corroborare il giudizio operato dalla Corte di appello, poiché appaiono anch'esse orientate a considerare, proprio sulla base dell'esame diretto delle disposizioni contenute nella dir.10y, cit., gli effetti discriminatori prodotti dalla determinazione sproporzionata dei costi dei permessi di soggiorno su soggetti provenienti da paesi terzi, alcuni dei quali, peraltro, particolarmente vulnerabili proprio per la loro condizione di non soggiornanti di lungo periodo e richiedenti in Italia il rilascio di tali permessi. 10.20. D'altra parte, l'ulteriore censura mossa dalle ricorrenti in ordine al fatto che sarebbe stata operata una indebita comparazione fra situazioni differenti è infondata. Sul punto, è sufficiente rammentare che ancora una volta la Corte di giustizia Corte giust., sez. II, sentenza 26/04/2012, C-508/10 , nell'accertare l'inadempimento dei Paesi Bassi agli obblighi nascenti dalla dir.109/2003 per avere introdotto costi sproporzionati per i rilascio dei permessi ai lungo-soggiornanti, ebbe tra l'altro ad affermare che gli importi dei contributi richiesti dal Regno dei Paesi Bassi variano all'interno di una forbice il cui valore più basso è all'incirca sette volte superiore all'importo dovuto per ottenere una carta nazionale d'identità. Anche se i cittadini olandesi ed i cittadini di paesi terzi nonché i loro familiari contemplati dalla direttiva UE 2003/109 non si trovano in una situazione identica, un simile divario dimostra la natura sproporzionata dei contributi richiesti in applicazione della normativa nazionale in esame cfr. Corte giust. 26/04/2012, C-508/10 , p. 77 per concludere, appunto, che i contributi richiesti dal Regno dei Paesi Bassi ai sensi della normativa nazionale che attua la direttiva 2003/109 risultavano di per sé, sproporzionati e idonei a creare un ostacolo all'esercizio dei diritti conferiti da tale direttiva. 10.21. Ciò consente di affermare che la comparazione fra situazioni simili operata dal giudice di merito sia esente dal vizio prospettato e rappresenti il fondamento dell'accertata discriminazione, dovendosi sul punto richiamare le considerazioni espresse sub 10.17. 10.22. Né migliore sorte può riconoscersi alla censura esposta nel motivo qui scrutinato, nella parte in cui prospetta la comparazione con i costi richiesti per il rilascio della cittadinanza italiana iure sanguinis ai sensi dell' articolo 5 bis del d.l.numero 66/2014 per desumerne la proporzionalità dei costi determinati nel D.M. del 2011 per il rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno, non apparendo in questo caso rispettato il canone della similitudine fra i permessi di soggiorno richiesti in Italia e la richiesta relativa ai diritti consolari da riscuotersi dagli uffici diplomatici e consolari, ai sensi della cennata disposizione. 10.23. Resta infine da esaminare la censura dei ricorrenti in ordine alla mancata considerazione da parte della Corte di appello, ai fini del danno liquidato, del D.M.5.5.2017. Giova rilevare che la Corte di appello, acclarata l'esistenza di una discriminazione, ha confermato la decisione di primo grado ritenendo che la nuova normativa in vigore dal 9.6.2017 con cui sono stati fissati i nuovi contributi per le diverse e singole tipologie di permessi, non contiene disposizioni transitorie . 10.24 Orbene, occorre precisare ancora una volta che sul piano interno, all'esito della sentenza del Consiglio di Stato sopra ricordata, il D.M. 5.5.2017, che ha esso stesso regolato la materia in modo dissonante rispetto a quanto previsto dall' articolo 5, comma 2-ter del D.Lgs. numero 286/1998 , ove si prevedeva che per la richiesta di rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno era necessario versare un contributo fra un minimo di euro 80 e un massimo di euro 200 . Ed infatti, l'articolo 1 del D.M. ult. cit. ha previsto che l'articolo 1, comma 1, del decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dell'interno del 6 ottobre 2011, sia sostituito dal seguente Ai sensi dell' articolo 1, comma 22, lettera b della legge 15 luglio 2009, numero 94 , la misura del contributo per il rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno a carico dello straniero di età superiore ad anni diciotto è determinata come segue a Euro 40,00 per i permessi di soggiorno di durata superiore a tre mesi e inferiore o pari a un anno b Euro 50,00 per i permessi di soggiorno di durata superiore a un anno e inferiore o pari a due anni c Euro 100,00 per il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo e per i dirigenti e i lavoratori specializzati richiedenti il permesso di soggiorno ai sensi degli articoli 27, comma 1, lettera a , 27-quinquies , comma 1, lettere a e b e 27-sexies, comma 2 del decreto legislativo 25 luglio 1998, numero 286 e successive modificazioni e integrazioni . Disciplina, quest'ultima, che dunque è andata a modificare il testo normativo primario articolo 5, c.2-ter T.U. imm., introdotto dall' articolo 1 , c.22 l.numero 94/2009 , cit. , individuando come costo per alcuni permessi importi inferiori a quelli legali , proprio in ragione della scelta di adottare sul piano interno una regolamentazione che seguisse i principi espressi dalla Corte di giustizia UE nell'ambito dell'interpretazione dalla stessa espressa con riguardo alla dir.109/2003/CE , relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo. 10.25. Orbene, non pare condivisibile l'argomentazione utilizzata dalla Corte di appello per escludere la rilevanza del D.M. ai fini della quantificazione della domanda di restituzione delle somme indebitamente corrisposte, così riqualificata la richiesta risarcitoria da parte del Tribunale di Milano, secondo la quale non emergerebbe alcun elemento dal D.M. medesimo per confermare la sua efficacia retroattiva. 10.26 Ed invero, premesso che gli stessi controricorrenti hanno dato atto nella memoria conclusionale che il Ministero dell'Interno, in epoca successiva al pagamento delle somme versate dagli stessi per il rilascio dei permessi si era adeguato al D.M. del 2017, sostenendone però la non applicabilità alle somme corrisposte prima della sua entrata in vigore in linea con la decisione impugnata, questa Corte ritiene che, a prescindere dalla circostanza che il Ministero abbia ritenuto applicabile il D.M. 5.5.2017 alle vicende anteriori circolare numero 44790 del 2019 è l'interpretazione che la Corte di appello di Milano ha utilizzato per escludere la rilevanza del D.M. del 2017 a non essere coerente con la giurisprudenza comunitaria. Ciò per l'assorbente ragione che, conformemente alla giurisprudenza costante della Corte di giustizia UE, nell'applicare il diritto nazionale, e in particolare le disposizioni di una legge che sono state introdotte specificamente al fine di garantire la trasposizione di una direttiva non correttamente attuata, il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva, onde conseguire il risultato perseguito da quest'ultima e conformarsi pertanto all'articolo 189, terzo comma, del Trattato CE v. sentenze 13 novembre 1990, causa C-106/89, Marleasing, punto 8, e 16 dicembre 1993, causa C-334/92, Wagner Miret, punto 20 . Il giudice comunitario è fermo nel ritenere che il potere di fare, all'atto stesso di tale applicazione, tutto quanto è necessario per disapplicare una normativa o una prassi nazionale che eventualmente osti alla piena efficacia delle norme del diritto dell'Unione costituisce parte integrante del ruolo di giudice dell'Unione che incombe al giudice nazionale incaricato di applicare, nell'ambito della propria competenza, le norme del diritto dell'Unione v., in tal senso, sentenza del 21 dicembre 2021, Euro Box Promotion e a., C-357/19 , C-379/19 , C-547/19 , C-811/19 e C-840/19, EU C 2021 1034 , punto 257, Corte giust.,24 luglio 2023 , causa C-107/23 PPU Lin , par. 134 . In definitiva il giudice nazionale è tenuto a interpretare il proprio diritto nazionale quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest'ultima e conformarsi pertanto all'articolo 189, comma 3, del Trattato CE oggi articolo 249, comma 3 CE . 10.27. Ora, è sufficiente leggere le premesse al D.M. del 5 maggio 2017 per accorgersi che lo stesso intendeva eliminare gli effetti prodotti dal D.M. del 2011, in modo da paralizzare la procedura di infrazione che era stata medio tempore proposta dalla Commissione UE. Si legge, infatti, nel D.M. che lo stesso era stato adottato Vista la sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea del 2 settembre 2015 C-309/14 Vista la lettera della Commissione europea Direzione generale migrazione e affari interni del 9 novembre 2015, con la quale viene richiesto di comunicare le misure atte a conformarsi alla citata sentenza della Corte di giustizia Vista la procedura di infrazione 2014/4253. Sono stati, altresì, aggiunti, nelle premesse, alcuni stralci della sentenza del Consiglio di Stato numero 4487/2016 e, specificamente il seguente capo di decisione In ottemperanza della presente decisione e previa disapplicazione, nei limiti sopra esplicati, del comma 2-ter dell' articolo 5 del decreto legislativo numero 286 del 1998 , alla luce di quanto stabilito dalla Corte di giustizia, le Amministrazioni competenti ridetermineranno l'importo dei contributi, nell'esercizio della loro discrezionalità, in modo tale che la loro equilibrata e proporzionale riparametrazione non costituisca un ostacolo all'esercizio dei diritti riconosciuti dalla direttiva numero 2003/109/CE . 10.28 Orbene, sulla base di tali argomenti testuali, risulta evidente che il D.M. del 5 maggio 2017, nel determinare i contributi dovuti dai richiedenti i permessi di soggiorno, ha inteso pienamente adeguarsi alla sentenza della Corte di giustizia UE, adottando una ri modulazione dei detti costi che voleva ispirarsi alla decisione resa dal giudice di Lussemburgo, proprio al fine di risolvere il contenzioso preannunziato dalla Commissione con l'apertura di una procedura di infrazione, così garantendo il pieno ristoro dei richiedenti che avevano dovuto corrispondere importi sproporzionati e discriminatori per il rilascio dei permessi di soggiorno. 10.29, Da qui l'obbligo del giudice nazionale di interpretare il D.M. del 2017 nel senso di ritenerlo pienamente applicabile anche retroattivamente, quanto ai costi da rimborsare rispetto a quelli sproporzionati fissati dal D.M. del 2011, alla vicenda processuale che aveva riguardato le somme versate sulla base del D.M. del 2011, di contenuto discriminatorio, ancorché prima che il D.M. fosse stato adottato, appunto dovendo applicarsi in modo da eliminare gli effetti pregiudizievoli prodotti dalla normativa precedente. 11. Sulla base di tali considerazioni, idonee ad assorbire ogni altra cesnura proposta dalle ricorrenti, in parziale accoglimento del secondo motivo di ricorso, limitatamente all'importo spettante ai ricorrenti quale ristoro dell'accertata discriminazione, rigettato il primo motivo, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte di appello di Milano, che, in diversa composizione, provvederà altresì alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. Va disposto che, ai sensi del D.Lgs. numero 196 del 2003, articolo 52 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento. P.Q.M. Rigetta il primo motivo ed accoglie per quanto di ragione il secondo motivo di ricorso, nei termini di cui alla parte motiva. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Milano, che, in diversa composizione, provvederà altresì alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. Dispone che, ai sensi del D.Lgs. numero 196 del 2003, articolo 5 2 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento. Così deciso il 7 marzo 2024 nella camera di consiglio della prima sezione civile in Roma.