I messaggi discriminatori inviati in privato su Facebook non costituiscono diffamazione

Respinta la richiesta di risarcimento avanzata dall’uomo nei confronti dell’ex compagna, rea, a suo dire, di averlo denigrato. A salvare la donna sono stati due dettagli l’esercizio di un legittimo diritto di critica verso l’ex compagno e l’utilizzo di una comunicazione privata.

Impossibile parlare di diffamazione se le critiche rivolte dalla donna all'ex compagno, definito “immaturo” sono state messe nero su bianco in messaggi privati indirizzati singolarmente , tramite Facebook, a due differenti amici dell'uomo. Chiara la ricostruzione della vicenda, che ha poi dato il via alla battaglia legale tra gli ex partner. In sostanza, l'uomo ha citato in giudizio l'ex compagna per vederla condannata a versargli un adeguato risarcimento dei danni provocatigli per «averlo accusato ingiustamente del compimento di atti persecutori» con conseguente procedimento penale da cui l'uomo era stato assolto con formula piena, e «per averlo screditato agli occhi di amici e colleghi, inviando email e messaggi tramite Facebook con l'intento preciso di danneggiarlo ed di isolarlo dal contesto degli amici e colleghi di lavoro». In primo grado i giudici catalogano come diffamatoria la condotta tenuta online dalla donna, la quale viene condannata a versare all'ex compagno 5mila euro come risarcimento per il danno morale. Di parere opposto, invece, sono i giudici d'Appello, i quali ritengono « mancanti gli estremi della diffamazione , in quanto i messaggi sono stati inviati dalla donna verso un unico destinatario alla volta, quindi in forma riservata e senza superare i limiti della continenza». Per maggiore chiarezza, comunque, i giudici di secondo grado puntualizzano che «le comunicazioni della donna con i due amici dell'ex compagno, avvenute in tempi diversi» si sono concretizzate «a mezzo di uno scambio di messaggi su Facebook e sono state indirizzate ad un singolo interlocutore per volta», e ciò consente di sancire la mancanza dell'elemento oggettivo richiesto per parlare di diffamazione, ossia «la comunicazione diretta ad una pluralità di destinatari». In aggiunta, viene precisato anche che le comunicazioni effettuate sono risultate prive di valenza denigratoria , essendo «semplicemente espressione della delusione personale e della preoccupazione della donna a fronte degli atteggiamenti ritenuti immaturi assunti dal proprio ex compagno». Con il ricorso in Cassazione, però, il legale che rappresenta l'uomo fornisce una differente chiave di lettura. Nello specifico, l'avvocato sottolinea che, anche se «i messaggi della donna sono stati indirizzati separatamente, quindi in forma confidenziale e riservata, a due amici dell'ex compagno», bisogna tener presente che «di uno dei messaggi è venuta a conoscenza anche una terza persona» e quindi il relativo contenuto non è risultato «essere in realtà riservato». Il legale aggiunge poi che «le parole usate nei messaggi celano in realtà una volontà denigratoria, e quindi i messaggi, per come formulati, non possono essere considerati volti a precluderne la divulgazione». Infine, secondo il legale è illogico ricondurre i messaggi vergati dalla donna all'espressione di un presunto diritto di critica verso l'ex compagno, poiché «la donna ha utilizzato epiteti ed espressioni di per sé offensivi, poiché volti a sottolineare l'immaturità dell'ex compagno e dei suoi comportamenti». A fronte di tali obiezioni, però, i giudici di Cassazione condividono la valutazione compiuta in Appello, valutazione secondo cui «le espressioni usate dalla donna non hanno espresso, oltre che una delusione personale e una certa preoccupazione sul conto del suo ex compagno, anche la consapevolezza che quelle espressioni, pur non direttamente offensive, avrebbero potuto avere comunque l'effetto di tracciare un quadro non lusinghiero dell'uomo, dipinto indirettamente come una persona instabile e immatura». Per quanto concerne, poi, la configurabilità del presupposto obiettivo della diffamazione , integrato dall'essere stata la comunicazione indirizzata a una pluralità di destinatari, i magistrati ribadiscono che laddove, come nella vicenda oggetto del processo, «ci siano state più comunicazioni , ma tutte indirizzate ad un singolo destinatario , l'elemento oggettivo della diffamazione, integrato dalla diffusività della condotta denigratoria, può sussistere solo nell'ipotesi in cui il soggetto, pur comunicando direttamente con un'unica persona, esprima la volontà o ponga comunque in essere un comportamento tale da provocare l'ulteriore diffusione del contenuto diffamatorio attraverso il destinatario». I magistrati aggiungono poi che «né può ritenersi che il particolare strumento di comunicazione usato dalla donna – ossia il canale Facebook privato – si presti, di per sé, per le caratteristiche intrinseche del mezzo di facilitare la diffusione delle comunicazioni, a far ritenere formata in capo alla donna l'accettazione del rischio di diffusione» dei messaggi. E «diversamente opinando, l'apprezzamento aprioristico della potenziale idoneità diffusiva del mezzo di comunicazione usato, scisso dalla considerazione delle circostanze del caso concreto , avrebbe l'effetto di ribaltare impropriamente sul mittente di un messaggio con unico destinatario l'onere della prova di non aver voluto l'ulteriore diffusione del messaggio», chiariscono i giudici, i quali aggiungono che «non si può quindi affermare che, in mancanza di una prova del divieto di diffusione da parte del mittente, si presume che i messaggi inviati tramite social network sui canali di posta privati siano destinati alla diffusione o che, comunque, il mittente abbia consapevolmente accettato il rischio della diffusione del messaggio da parte del destinatario e debba subire, per questo, le conseguenze dell'eventuale diffusione qualora essa integri un obiettivo discredito della persona di cui si parla» nel messaggio.

Presidente Travaglino – Relatore Rubino Fatti di causa 1.- G.M. propone ricorso per cassazione articolato in tre motivi nei confronti di G. S., per la cassazione della sentenza numero 984\2021 , pronunciata dalla Corte d'appello di Milano in data 29.3.2021, notificata il 31.3.2021, regolarmente depositata in copia notificata. Resiste G.S. con controricorso. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale. All'esito della discussione il collegio ha riservato la decisione nei successivi 60 giorni. 2. - Questi i fatti da cui trae origine la vicenda G.M. citava in giudizio G.S., con la quale aveva avuto una relazione sentimentale, per sentirla condannare al risarcimento dei danni provocatigli per averlo accusato ingiustamente del compimento di atti persecutori, causando l'emissione di una diffida nei suoi confronti da parte della polizia e quindi un procedimento penale a carico del G.M., dal quale questi era stato assolto con formula piena, e per averlo screditato agli occhi di amici e colleghi inviando mail e messaggi tramite Facebook con l'intento preciso di danneggiarlo ed di isolarlo dal contesto degli amici e colleghi di lavoro. 3. - Il tribunale adito rigettava la domanda in relazione alla calunnia – e sul punto non veniva proposto appello – e accoglieva la domanda risarcitoria per diffamazione, condannando la G.S. al risarcimento del danno morale nei confronti del G.M. per euro 5.000. 4. - La Corte d'appello di Milano, in accoglimento della impugnazione della G.S., rigettava invece integralmente la domanda risarcitoria, ritenendo mancassero gli estremi della diffamazione, in quanto i messaggi erano stati inviati dall'appellante verso un unico destinatario alla volta, quindi in forma riservata e senza superare i limiti della continenza. La corte puntualizzava che le comunicazioni della G.S. con i due amici del G.M., avvenute in tempi diversi, erano avvenute a mezzo di uno scambio di messaggi su Facebook ed erano indirizzate ad un singolo interlocutore per volta, e quindi mancava l'elemento oggettivo richiesto dalla giurisprudenza di legittimità per integrare la diffamazione, costituito dalla comunicazione diretta ad una pluralità di destinatari. Valutava anche il contenuto delle comunicazioni e le riteneva prive di valenza denigratoria, ritenendole semplicemente espressione della delusione personale e della preoccupazione dell'appellante a fronte degli atteggiamenti ritenuti immaturi assunti dal proprio ex. Ragioni della decisione Il ricorrente, come detto, ricorre avverso la sentenza d'appello con tre motivi. 1.- Con il primo motivo denuncia l'omesso esame di un fatto decisivo della controversia oggetto di discussione tra le parti, avendo erroneamente ritenuto la corte d'appello che i messaggi della G.S. erano stati indirizzati a due amici del G.M., separatamente, quindi in forma confidenziale e riservata, senza considerare che di uno dei messaggi era venuta a conoscenza anche una terza persona, e che il contenuto di uno di essi non era in realtà riservato. Sostiene, proponendo alla Corte una rilettura del testo dei messaggi, che le parole usate celassero in realtà una volontà denigratoria, e che, per come gli stessi erano formulati, non fossero volti a precludere la divulgazione del messaggio. 2. - Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli articolo 595 c.p. , 115 e 116 c.p.c. per aver la corte d'appello ritenuto assente il dolo nell'utilizzo, da parte della G.S., di espressioni e parole offensive, riconducendo i suoi messaggi all'espressione del diritto di critica. Sottolinea per contro il contenuto effettivamente denigratorio delle frasi pronunciate dalla ex compagna. Sostiene poi che le comunicazioni non erano riservate, tant'è che dall'attività istruttoria svolta emergerebbe che il loro contenuto era stato effettivamente divulgato. Richiama l'orientamento di legittimità secondo il quale, in caso di diffamazione commessa mediante scritti, sussiste il requisito della comunicazione con più persone, necessario per integrare il reato, anche quando le espressioni offensive siano state comunicate a una sola persona ma destinate ad essere riferite almeno ad un'altra persona che ne abbia poi effettiva conoscenza e richiama Cass. numero 31728 del 2004 ed altri precedenti . Sottolinea poi che il dolo richiesto per il reato di diffamazione è soltanto il dolo generico e che il contenuto dei messaggi non poteva essere legittimamente ricondotto nell'ambito della critica lecita perché la controricorrente aveva utilizzato epiteti ed espressioni di per sé offensivi, perché volti a sottolineare l'immaturità del ricorrente e dei suoi comportamenti. 3. - Con il terzo motivo denuncia la nullità della sentenza, per violazione dell' articolo 132, secondo comma, numero 4 c.p.c. , per non aver il giudice d'appello esplicitato le ragioni del suo convincimento in ordine alla mancanza dell'elemento oggettivo della diffusione a terzi delle comunicazioni, e alla mancanza dell'elemento soggettivo del dolo. Attraverso le argomentazioni a supporto del motivo il ricorrente torna a ribadire che ad integrare la diffamazione sia sufficiente il dolo generico e che quindi non fosse necessario accertare la sussistenza della volontà di offendere, in capo alla G.S., ma che la corte avrebbe dovuto piuttosto valutare l'obiettiva idoneità screditante ed offensiva delle espressioni utilizzate. 4. - I tre motivi possono essere trattati congiuntamente in quanto connessi. Tutti presentano profili di inammissibilità, in quanto in tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione, la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti in questo caso, dei messaggi inviati tramite Facebook sul profilo privato dei destinatari , l'apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell'altrui reputazione, costituiscono oggetto di accertamenti in fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da idonea motivazione, mentre il controllo affidato alla Corte di cassazione è limitato alla verifica dell'avvenuto esame, da parte del giudice del merito, della sussistenza del requisito della continenza nell'esprimere i propri giudizi su un'altra persona e della avvenuta diffusione dei messaggi aventi intrinseca valenza diffamatoria tra più persone, restando estraneo al giudizio di legittimità l'accertamento relativo alla capacità diffamatoria delle espressioni in contestazione. Pertanto, laddove sollecitano la Corte, riproducendo il testo dei messaggi inviati dalla G.S. agli amici e colleghi del G.M., ad apprezzarne direttamente la potenzialità denigratoria, i motivi vanno incontro al rilievo della inammissibilità. 5. – Peraltro, essi pongono anche alcune questioni giuridiche, e sotto questo profilo sono infondati, dovendosi confermare la correttezza dei principi applicati dalla corte d'appello. In primo luogo, è ben vero che ai fini della configurabilità della diffamazione è richiesto, in capo all'autore della condotta dedotta come lesiva dell'altrui onorabilità, solo il dolo generico e non anche il dolo specifico. Come precisato da Cass. numero 25420 del 2017 , in tema di responsabilità civile per diffamazione, è necessario e sufficiente che ricorra l'elemento soggettivo del cd. dolo generico, anche nelle forme del dolo eventuale, cioè non è richiesta la volontà ma è sufficiente la consapevolezza di poter, con le proprie dichiarazioni, offendere l'onore e la reputazione altrui, la quale si può desumere anche dalla intrinseca consistenza diffamatoria delle espressioni usate. E tuttavia, con valutazione in fatto non superabile, la corte d'appello ha escluso che le espressioni usate dalla G.S. esprimessero, oltre che una delusione personale e una certa preoccupazione sul conto del suo ex, anche la consapevolezza che quelle espressioni, pur non direttamente offensive, avrebbero potuto avere comunque l'effetto di tracciare un quadro non lusinghiero del ricorrente, dipinto indirettamente come una persona instabile e immatura. Vi è poi da considerare la seconda questione, ovvero la configurabilità o meno del presupposto obiettivo della diffamazione, integrato dall'essere stata la comunicazione indirizzata a una pluralità di destinatari v. Cass. numero 11271 del 2020 Nel caso in cui, come nella specie, ci siano state più comunicazioni, ma tutte indirizzate ad un singolo destinatario, l'elemento oggettivo della diffamazione, integrato dalla diffusività della condotta denigratoria, potrebbe sussistere solo nell'ipotesi in cui l'agente, pur comunicando direttamente con un'unica persona, esprima la volontà o ponga comunque in essere un comportamento tale da provocare, da parte dell'agente medesimo, l'ulteriore diffusione del contenuto diffamatorio attraverso il destinatario. Valutando le espressioni usate dalla controricorrente nei suoi messaggi con amici del G.M., la corte d'appello ha però preso in considerazione anche questo profilo ed ha escluso, con valutazione in fatto non sindacabile in questa sede, che in realtà le affermazioni della G.S., nel senso di pregare gli amici di non far sapere al G.M. dei suoi messaggi esprimenti preoccupazione sul suo conto, fossero surrettiziamente volte a sollecitare in effetti la diffusione dei messaggi stessi e comunque di notizie preoccupanti sul conto del G.M. nell'ambiente musicale al quale tutte le persone coinvolte appartenevano. Né può ritenersi che il particolare strumento di comunicazione usato messaggi inviati sul canale Facebook privato si presti di per sé, per le caratteristiche intrinseche del mezzo di facilitare la diffusione delle comunicazioni, a far ritenere formata in capo al mittente l'accettazione del rischio di diffusione. Diversamente opinando, l'apprezzamento aprioristico della potenziale idoneità diffusiva del mezzo di comunicazione usato, scisso dalla considerazione delle circostanze del caso concreto, avrebbe l'effetto di ribaltare impropriamente sul mittente di un messaggio con unico destinatario l'onere della prova di non aver voluto l'ulteriore diffusione del messaggio. Non si può quindi affermare, senza ribaltare la distribuzione degli oneri probatori, che in mancanza di una prova del divieto di diffusione da parte del mittente, si presume che i messaggi inviati tramite social network sui canali di posta privati siano destinati alla diffusione o che, comunque, il mittente abbia consapevolmente accettato il rischio della diffusione da parte del destinatario e debba subire, per questo, le conseguenze dell'eventuale diffusione qualora essa integri un obiettivo discredito della persona di cui si parla. Nel caso di specie, la corte d'appello ha fatto corretto uso dei principi indicati, e non ha ritenuto provata in capo alla G.S. la volontà o l'accettazione del rischio che i suoi messaggi, sol perché indirizzati ad un destinatario determinato tramite Facebook, fossero diffusi ad altri. Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese del giudizio di legittimità possono essere compensate, stanti gli alterni esiti del giudizio di merito. Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e la parte ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall'obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dell'articolo 13, comma 1 quater del d.P.R. numero 115 del 2002. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di legittimità tra le parti. Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.