Tanto rumore per nulla? La Corte Costituzionale e i licenziamenti collettivi

Ogni intervento della Corte Costituzionale sulla disciplina dei licenziamenti riporta al centro della scena le tensioni che sul tema caratterizzano ormai da almeno un decennio il confronto fra giudici e legislatori.

Premessa Le tensioni gravitano in particolare intorno alle due importanti riforme della disciplina dei licenziamenti . La prima è quella realizzata dalla l. n. 92/2012 , la c.d. Riforma Fornero dei licenziamenti, che ha riscritto l' art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970. La seconda è quella riconducibile al c.d. Jobs Act che ha introdotto, con il d.lgs. n. 23 del 2015 , il c.d. contratto a tutele crescenti. Entrambe le riforme sono segnate da una esigenza di alleggerimento dei meccanismi sanzionatori previsti in caso di illegittimità del licenziamento, esigenza che è stata ricondotta alla necessità di rendere dinamico il mercato del lavoro e di favorire e sostenere la crescita occupazionale in un quadro socio-economico in profonda trasformazione. Non interessa qui entrare nel merito delle impostazioni poste al centro delle due riforme e delle finalità perseguite ma non ci sono dubbi che qualcosa non ha funzionato , considerate le frequenti difficoltà interpretative emerse nell'applicazione e che la Corte Costituzionale è stata chiamata ad intervenire su entrambi i testi normativi in un numero significativo di ipotesi senza poter qui entrare nel dettaglio della complessa questione, si considerino, in particolare, Corte cost. n. 194/2018 , n. 150/2020 , n. 59/2021 , n. 125/2022 . Vediamo adesso più da vicino il tema affrontato dalla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 7/2024 . La Corte d'Appello di Napoli ha messo sotto i riflettori l' art. 10 del d.lgs. n. 23/2015 che, in caso di licenziamento collettivo illegittimo per violazione delle procedure richiamate dall'art. 4, comma 12 o dei criteri di scelta di cui all' art. 5 della l. n. 223/1991 , prevede come conseguenza l'applicazione dell'art. 3, comma 1, dello stesso decreto e dunque una tutela indennitaria fra un minimo di 4 ed un massimo di 24 mensilità secondo la disciplina applicabile alla fattispecie controversa, poi elevata da un minimo di 6 ad un massimo di 36 mensilità per effetto del c.d. decreto dignità, il d.l. n. 87/2018 conv. in l. n. 96/2018 . Il giudice remittente individua tre profili di illegittimità costituzionale del citato art. 10 a l'eccesso di delega nel senso che il decreto legislativo non poteva affrontare il tema dei licenziamenti collettivi che non sarebbero da ricondurre ai licenziamenti economici” b la disparità che viene a determinarsi con una disciplina differenziata fra lavoratori assunti prima o dopo la data di entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015 l'ormai celebre spartiacque del 7 marzo 2015 c l'inadeguatezza delle tutele previste dalla nuova disciplina che derogherebbe ad un sistema sanzionatorio efficace e adeguato determinando, con il sistema forfettizzato di danno, un affievolimento del ristoro del pregiudizio causato tanto da non garantire una sanzione efficace ed effettiva in caso di violazione dei criteri di scelta . Prima di procedere oltre, occorre ricordare che la Corte Costituzionale, già con la sentenza n. 254/2020, aveva dichiarato inammissibili le questioni di costituzionalità sollevate dalla Corte d'appello di Napoli sempre in materia di licenziamento collettivo e che potevano ricondursi al regime differenziato per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 rispetto a quelli assunti prima di tale data. Veniamo adesso alla sentenza qui commentata. Sul ritenuto eccesso di delega La Corte Costituzionale prende atto della a-tecnicità della definizione di licenziamenti economici di cui alla l. 183/2014 ma ritiene che in essa debbano essere ricompresi sia i licenziamenti individuali che quelli collettivi , sulla base dell'interpretazione testuale, dell'ausilio dei lavori parlamentari, e della coerenza sistematica interna alla riforma del 2015. Con riferimento all' eccesso di delega mediato dalla violazione dell'art. 24 della Carta Sociale Europea, la Corte ricorda che l'interpretazione di esso data dal Comitato europeo dei diritti sociali non è vincolante per il giudice nazionale. Sulla disparità di trattamento causata dall'articolazione temporale della disciplina La Corte si limita sostanzialmente a ribadire le argomentazioni della sentenza 194/2018, estendendone la validità ai licenziamenti collettivi , anche nell'ottica della coerenza con la logica di fondo della riforma di incentivare il ricorso al lavoro subordinato a tempo indeterminato per le nuove assunzioni. In effetti non si deve trascurare che una diversa soluzione normativa ad esempio, l'entrata in vigore della riforma del 2015 non legata alle nuove assunzioni ma alla data di intimazione del licenziamento avrebbe certamente evitato le forti differenziazioni protettive di cui si discute ma posto ben diverse questioni proprio sul versante dell'irrazionalità giuridica, soprattutto per la compromissione, con riferimento a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, dell'affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica. In sostanza, l'applicazione del c.d. contratto a tutele crescenti riferita alla data del licenziamento e non alla data dell'assunzione avrebbe immediatamente disattivato l'operatività dell' art. 18 Stat. lav . per tutti i lavoratori, con forti dubbi di legittimità costituzionale proprio in relazione alla lesione del legittimo affidamento di questi sulla disciplina vigente al momento della loro assunzione. Questa considerazione non esclude che, pur potendo ritenere superate le censure di legittimità costituzionale, l' attuale assetto normativo sia profondamente insoddisfacente non solo perché opera differenziazioni che rendono scarsamente effettivi i diritti dei lavoratori ma anche perché consente se non addirittura incentiva una distorsione della concorrenza, promuovendo in particolare quelle imprese che operano un frequente ricambio di forza lavoro di basso valore professionale. Sulla ritenuta inadeguatezza delle tutele Sul piano della dissuasività per il datore e della adeguatezza protettiva della tutela indennitaria per il lavoratore licenziato, la Corte ripercorre i propri precedenti secondo i quali la tutela reintegratoria non è costituzionalmente necessitata e possono esserci regimi indennitari adeguati, alla luce di quanto già deciso nella sentenza n. 150/2020 . A questo punto, la Corte afferma di avere già riconosciuto che il limite massimo di [ ] trentasei mensilità non si pone in contrasto con il canone di necessaria adeguatezza del risarcimento punto 18.3 . In effetti nelle sentenze nn. 194/2018 e 150/2020 non veniva espressamente in questione la fissazione di un tetto massimo al risarcimento/indennità bensì esclusivamente l' automaticità del meccanismo di commisurazione lo riconosce espressamente la sentenza n. 150/2020, al punto 11.3 . Tuttavia, in entrambe le sentenze la previsione di soglie massime è in qualche modo implicitamente ammessa dalla Corte che riconosce la discrezionalità del legislatore nell'individuazione delle tutele contro i licenziamenti illegittimi , nel rispetto di canoni di razionalità e adeguatezza, nonché al fatto che non è costituzionalizzato un principio di necessaria riparazione integrale del danno sentenza n. 303 del 2011 . Il risarcimento, dunque, ancorché non necessariamente riparatorio dell'intero pregiudizio subito dal danneggiato, deve essere necessariamente equilibrato Corte Cost. 194/2018 . Implicitamente i tetti massimi delle indennità sono riconosciuti in quei passaggi in cui la sentenza del 2018 illustra le modalità di determinazione delle indennità da applicare in seguito alla caducazione del criterio automatico C. cost. 194/2018 . L'esiguità delle soglie massime è invece oggetto specifico della sentenza n. 183/2022, che tuttavia riguarda il diverso tema della protezione contro i licenziamenti illegittimi per i lavoratori alle dipendenze di datori di lavoro con meno di quindici dipendenti e che si è risolta in un monito inascoltato al legislatore. Sembra dunque di poter concludere sul punto che un riconoscimento dell'adeguatezza delle soglie massime era già contenuto nelle sentenze precedenti. Conclusioni La sentenza sembra collocarsi nel solco dei precedenti interventi della Corte sul delicato terreno delle riforme della disciplina dei licenziamenti richiamate in premessa. Emerge, con maggior nitidezza, l' adeguatezza delle soglie massime di risarcimento del c.d. contratto a tutele crescenti . Non sembra si possa tuttavia sottovalutare il quadro estremamente critico che emerge dall'attuale impianto normativo. Occorre infatti rimarcare che la Corte Costituzionale non può sostituirsi al legislatore e che la circostanza che non si pervenga in tal caso ad una declaratoria di illegittimità costituzionale non è motivo di soddisfazione ove si considerino le incertezze applicative e le incongruenze del sistema normativo soprattutto sul profilo dell'articolazione temporale della disciplina. A ciascuno il suo mestiere, mi sembra di poter concludere la Corte Costituzionale non può riscrivere la riforma dei licenziamenti perché è dovere del legislatore intervenire e mettere ordine in una stratificazione normativa che crea iniquità, fratture, difficoltà ed incertezze interpretative che non ci possiamo più permettere.