Da 15 anni a 5 mesi di reclusione: ma la sentenza non “tiene”

Il giudice d'appello, nel riformare una sentenza di condanna resa in primo grado, sebbene non abbia l'obbligo di procedere alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, deve confrontarsi con le ragioni addotte a sostegno della decisione del primo giudice, riesaminando il materiale probatorio per fornire una nuova e compiuta struttura motivazionale alla propria decisione assolutoria.

Così ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, con la sentenza n. 51380 depositata il 22 dicembre 2023. Omicidio eutanasico oppure no? Storia parziale di un processo tribolato Non è ancora stata scritta l'ultima parola per una delle due protagoniste di una drammatica vicenda processuale che ruota attorno alla morte di un notissimo avvocato ligure. Per lei l' accusa principale è pesantissima avere soppresso il proprio fratello, affetto da una patologia incurabile in fase terminale, mediante la somministrazione di un farmaco in dosi elevate . A questa fanno da corollario altre imputazioni minori il furto di alcune fiale di un potente sedativo e l'avere falsificato il testamento della vittima. Già, perchè a complicare le cose si aggiunge, secondo l'accusa, un secondo movente”, cioè quello economico. L'altra imputata, invece, è accusata di circonvenzione di incapace e di falso testamentario le condotte che le si contestano, infatti, attengono esclusivamente a questo settore” dell'accusa. Al termine del giudizio di primo grado, celebrato presso la Corte di assise, la prima imputata riportava la condanna a quindici anni di reclusione. La seconda, invece, a quattro anni. Il colpo di scena arriva, a sorpresa, in assise d'appello assoluzione per l'omicidio, per la formazione del falso testamento e per la circonvenzione di incapace non doversi procedere per il furto, riqualificato in furto lieve, in relazione al quale non era stata sporta querela. Una delle due imputate veniva assolta anche in relazione alla modifica di una scheda testamentaria, mentre l'altra ne veniva invece ritenuta responsabile e la sua pena – dai quindici anni iniziali – veniva ridotta a cinque mesi, con sospensione condizionale della stessa. Contro la decisione insorgono tutti, e i ricorsi in Cassazione approdano sulla scrivania della Prima Sezione penale. L'obbligo di motivazione rafforzata il tema centrale della sentenza Coglie nel segno – come usa dire in questi casi – il ricorso della Procura Generale, che aveva lamentato la motivazione apparente della sentenza d'appello, dotata – secondo le prospettazioni poi condivise dagli Ermellini – di una motivazione su molti punti soltanto apparente. Ora dovrà celebrarsi un nuovo giudizio presso la Corte d'assise di Milano. I supremi giudici, prima di consegnare la seconda imputata alla definitività del giudicato assolutorio, ripercorrono nei minimi dettagli le parti della sentenza d'appello crocifissa dal ricorso della pubblica accusa. Il vizio principale che vi ravvisano è quello della illegittimità della motivazione. Siamo di fronte ad un ribaltamento in senso favorevole all'imputato di una prima sentenza di condanna. In questi casi, secondo un insegnamento che è stigmatizzato in una sentenza delle Sezioni Unite del 2017, poi ripresa anche da numerose decisioni a sezioni semplici, il giudice d'appello ha un onere particolare . Deve, infatti, analizzare accuratamente tutte le risultanze probatorie acquisite nel primo grado di giudizio e quelle eventualmente emerse dopo, poi dovrà confrontarsi con esse e con le ragioni addotte dal primo decidente. Ciò allo scopo di articolare una propria decisione di segno opposto, dimostrando in quale passaggio il collega di primo grado aveva errato. Nel caso di specie ciò, ad avviso dei Giudici di legittimità, non sarebbe avvenuto. Vi è una minuziosissima analisi di alcune intercettazioni – sul cui tenore, tanto più che non c'è ancora una pronuncia definitiva – sorvoliamo intenzionalmente, che la Cassazione passa al setaccio per dimostrare l'inconsistenza della motivazione della sentenza d'appello. Non è necessario, in questi casi, rinnovare l'istruzione dibattimentale, ma occorre confrontarsi analiticamente con le argomentazioni poste a sostegno della decisione da riformare. Decisione di legittimità o terzo grado di merito? Il principio di diritto espresso dalla Cassazione con la sentenza che vi proponiamo non ha connotati di particolare originalità era già contenuto, come vi abbiamo già fatto osservare, in una decisione delle Sezioni Unite. Era anche ripreso da successive decisioni. Non è, insomma, una sentenza storica” o di taglio innovativo. Ciò che colpisce, però, è la profondità dell'analisi di merito che i supremi giudici hanno condotto sul materiale probatorio attinto dal ricorso. È curioso dietro l'etichetta del vizio di motivazione – ogni tanto – rinveniamo vere e proprie decisioni con cui si spulciano aspetti che nella maggior parte dei casi vengono dichiarati preclusi perché, come è noto, in cassazione non si può fornire una lettura alternativa delle prove assunte nei primi due gradi di giudizio. Eppure, questo profilo non è da considerarsi necessariamente un problema anzi. Potrebbe essere una risorsa decisiva, se soltanto fosse uniformemente applicato. A chi non è capitato di avere segnalato in Cassazione passaggi motivazionali che non stanno in piedi? E quanta delusione nel vedersi recapitare l'avviso della Settima Sezione, alla quale il ricorso è stato smistato per motivi non consentiti dalla legge”? Ma questo, si sa, è storia vecchia.

Presidente Mogini – Relatore Toscani Ritenuto in fatto 1. Con sentenza resa il 17 maggio 2021, la Corte di assise di La Spezia aveva ritenuto C.M. responsabile dei reati di cui all' art. 624 c.p. , art. 625 c.p. , comma 1, n. 7 relativamente a tre fiale di Midazolam capo a , art. 575 c.p. , art. 576 c.p. , n. 1, art. 577 c.p. capo e concernente l'omicidio del fratello C.M.V. nonché, in concorso con F.G., dei reati di formazione di falso testamento olografo del fratello, falsificazione e uso dello stesso, contestati ai capi c ed f . F.G. era ritenuta inoltre responsabile del reato di cui all' art. 643 c.p. capo d , mentre era assolta dal reato di occultamento di testamento, contestato al capo b , per insussistenza del fatto. Riconosciute, quindi, a C.M. le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti e riconosciuto per entrambe il vincolo della continuazione tra i reati, condannava C.M. alla pena di quindici anni di reclusione, F.G. a quella di quattro anni di reclusione ed Euro 1.200,00 di multa ed entrambe al pagamento delle spese processuali. Seguivano le pene accessorie dell'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici e di quella legale durante la pena per C., l'interdizione temporanea dai pubblici uffici per F Entrambe erano escluse dalla successione di C.M.V. per indegnità ed era dichiarata la falsità del testamento a firma di C.M.V. del 18 settembre 2015, modificato il 29 settembre e pubblicato il 6 ottobre 2015 erano, infine confiscate le somme di denaro in sequestro. L'articolata vicenda oggetto del giudizio concerne la morte di C.M.V., di professione avvocato, colpito nell'anno 2013 da una grave malattia oncologica che caratterizzò gli ultimi anni della sua vita, sino al decesso, avvenuto il omissis . Il Giudice di primo grado aveva ritenuto provato che C.M. - sorella della vittima e di professione medico anestesista - si fosse impossessata di tre fiale di Midazolam sedativo non disponibile nelle comuni farmacie , sottraendole all'ospedale di […], dove aveva lavorato in passato, approfittando dell'occasione in cui aveva accompagnato il fratello per una visita medica e aveva salutato gli ex colleghi del reparto fatto commesso tra il omissis . Tale farmaco si è ritenuto che fosse stato successivamente adoperato dalla stessa C. per cagionare la morte del germano capo e , attraverso la sua somministrazione in un quantitativo e a una velocità di infusione superiori alla normale tollerabilità, così anticipando l'exitus di un tempo stimato da alcune settimane a qualche mese. Riteneva, inoltre, la Corte di assise che C., con la collaborazione di F.G., avvocato ed ex collega di studio di C.M., avesse redatto di proprio pugno il testamento datato 18 settembre 2015 e che l'avesse fatto sottoscrivere al fratello, profittando della sua condizione di fragilità psicofisica determinata dalla patologia che lo affliggeva e dai farmaci antidolorifici assunti. Tale testamento, contrariamente alle originarie ed espresse volontà di C.M. di indicare quali sue uniche eredi la madre, C.G., e la compagna, B.I., prevedeva invece anche un lascito di un milione di Euro in favore della stessa C. e uno di quattrocentomila Euro in favore di F., con lesione della quota legittima di C.G. capo c . Del pari provato si riteneva che entrambe le imputate, successivamente al decesso di C.M., avessero modificato tale atto il 29 settembre 2015, sostituendo ai beneficiari originariamente indicati, D.G. e Unicef, il nominativo di C.S., quindi provvedendo a far pubblicare l'atto così modificato, il 6 ottobre 2015, dal notaio M.M. capo f . La sola F.G., era ritenuta altresì colpevole del reato di circonvenzione d'incapace, contestato al capo d , invece ritenuto improcedibile per difetto di querela nei riguardi di C.M. Come anticipato, la Corte riteneva non provata la condotta addebitata a F. di avere, nel periodo compreso tra luglio e settembre 2015, distrutto, o comunque occultato, un precedente testamento olografo redatto da C.M.V. che non la indicava quale beneficiaria di alcun lascito testamentario capo b e nel quale questi indicava, invece, quali sue uniche eredi le menzionate C.G. e B.I. 2. Con la sentenza in preambolo, in parziale riforma di quella di primo grado, la Corte di assise di appello di Genova ha - dichiarato non doversi procedere per difetto di querela nei riguardi di C.M. per il reato di cui all' art. 626 c.p. , comma 2, n. 2, così diversamente qualificato il fatto di cui al capo a - assolto entrambe le imputate dal reato di falso di cui al capo c , perché il fatto non sussiste - assolto F. dal reato di circonvenzione d'incapace di cui al capo d e C. da quello di omicidio contestato al capo e , per entrambe con la formula perché il fatto non sussiste - assolto F. dal reato di cui al capo f , per non avere commesso il fatto, del quale ha, invece, ritenuto responsabile C.M. e ha rideterminato la pena nei suoi riguardi, con le già riconosciute circostanze attenuanti generiche, in quella di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, con il riconoscimento dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. 3. Avverso quest'ultima sentenza ricorre il Procuratore generale presso la Corte di appello di Genova relativamente a tutti i capi della sentenza concernenti l'assoluzione di C.M. e, quanto al capo c , anche per l'assoluzione di F.G., e affida le proprie doglianze a sei motivi. 3.1. Con il primo deduce violazione di legge per motivazione apparente e, comunque, vizio di manifesta illogicità con particolare riferimento al significato della conversazione telefonica captata il 21 gennaio 2016 tra C.M. e C.S. A fronte dell'individuazione, da parte della Corte d'assise di La Spezia, di un duplice movente economico ed eutanasico per l'omicidio da parte dell'imputata del fratello C.M.V., i giudici di appello non solo avrebbero escluso quello di carattere economico, anche con riferimento al falso in testamento per il quale hanno, tuttavia, confermato la condanna nei riguardi di C.M. , ma avrebbero ritenuto che non vi fosse neppure la prova dell'omicidio eutanasico, perpetrato dalla C. per porre fine alle gravi sofferenze dell'uomo, ormai malato terminale. E ciò avrebbero fatto interpretando in modo del tutto illogico e irragionevole, la conversazione intercettata il 21 gennaio 2016, intercorsa tra C.M. e C.S., nella quale la prima confessava alla seconda di essere stata lei a decidere di far morire il fratello per porre fine alle sue sofferenze, conversazione riportata nel ricorso nella parte di rilievo ai fini dell'autosufficienza, cui la Corte territoriale di secondo grado ha negato il valore di confessione stragiudiziale. Il Procuratore generale ricorrente - richiamato il principio di diritto secondo il quale In materia d'intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all'esclusiva competenza del giudice di merito, l'interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità e irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite Sez. 3 n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 282337 e, incidentalmente, Sez. U. n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263716 - ha stigmatizzato l'interpretazione affatto irragionevole e manifestamente illogica della conversazione fornita dalla Corte di assise di appello, rimarcando come - diversamente da quanto sostenuto nella sentenza impugnata - il discorso tra le due donne, lungi dall'essere parole defluite senza controllo e senza logica, emerse dalla profondità dei pensieri aggrovigliati con il dolore così nella sentenza impugnata , ha uno sviluppo assolutamente coerente e contiene l'affermazione, più volte ribadita da C.M ., che il fratello era morto perché lei l'aveva sedato , che avrebbe vissuto ancora un mese sicuro . anche più, non sarebbe mai morto nè quel giorno, nè il giorno dopo, nè dopo una settimana , che lei non ce la faceva più a vederlo in quello stato e che quella di procedere alla sedazione terminale era stata una decisione solo sua, rispetto alla quale non aveva rimorsi. Il Giudice di appello ha, inoltre, ritenuto di ascrivere le frasi proferite da C.M. nella conversazione in parola al senso di colpa che ha definito analogo a quello dalla stessa avvertito in occasione della morte dei suoi pazienti. Si tratta di un'affermazione della quale il Procuratore generale evidenzia l'apoditticità e l'irragionevolezza rispetto alla chiara e contraria affermazione della donna, svolta nella conversazione in parola, di non avere alcun rimorso. 3.2. Con il secondo motivo deduce violazione dell'obbligo di motivazione rafforzata in punto d'interpretazione della conversazione 21 gennaio 2016 tra C.M. e C.S. Le motivazioni contenute nella sentenza impugnata con riferimento all'interpretazione del significato della conversazione intercettata non si confronterebbero con le ampie e puntuali argomentazioni del giudice di primo grado che aveva articolato il percorso logico con cui era pervenuto ad affermare l'attendibilità e la genuinità di quelle parole, aventi sicura natura di confessione stragiudiziale. Così facendo, il giudice di appello avrebbe violato il principio di diritto espresso da questa Corte nel suo massimo consesso, secondo cui Il giudice d'appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado non ha l'obbligo di rinnovare l'istruzione dibattimentale mediante l'esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, ma deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva Sez. U. n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430 . 3.3. Con il terzo motivo denuncia violazione dell'obbligo di motivazione rafforzata e, comunque, vizio di manifesta illogicità, con riferimento agli altri elementi di prova del reato di omicidio. La Corte di assise di appello ha affermato che l'autodenuncia di C. contenuta nella conversazione telefonica di cui si è detto non troverebbe alcun riscontro, poiché le gravissime condizioni di C.M. non lasciano alternative alla morte . Si lamenta che il giudice di appello avrebbe del tutto ignorato elementi obiettivi - evidenziati nella sentenza di primo grado e da questa collocati al centro del proprio percorso logico-argomentativo - che costituirebbero elementi decisivi di riscontro, sia in punto di attendibilità della confessione stragiudiziale, sia in punto di ricostruzione dell'omicidio e, segnatamente 1 la descrizione delle condizioni cliniche di C.M. nella mattina del omissis . Osserva sul punto il Procuratore generale ricorrente che la stessa imputata, nel corso della telefonata del 21 gennaio 2016, nel descrivere le condizioni fisiche e cliniche del fratello nel giorno della morte, non dubitava che questi non sarebbe morto quel giorno , affermando che sarebbe andato avanti un mese o forse due , che si era alzato con le sue gambe e che aveva scherzato con lei. Tale descrizione, particolarmente qualificata siccome proveniente da un medico anestesista, avrebbe - secondo la Pubblica accusa trovato riscontro in quanto riferito dalla compagna B.I. e dall'infermiera T., pure presenti il giorno della morte, sulla scorta delle cui dichiarazioni la sentenza di primo grado, con articolata motivazione p. 551 e s. , aveva fondato l'affermazione dell'assenza di evidenze di necessità di sedazione palliativa. Lamenta il ricorrente che tali testimonianze non sarebbero state prese in alcuna considerazione dal giudice di appello 2 l'aspettativa di vita della vittima. Le più volte richiamate considerazioni espresse sul punto da C.M. nella telefonata del 21 gennaio sarebbero, secondo il Procuratore generale ricorrente, viepiù confermate da quanto dichiarato da M.M. e C.S ., medici oncologi curanti di C.M ., che avevano concordemente indicato un'aspettativa di vita di questi, a far data dal 23 settembre 2015 giorno in cui M. aveva visitato per l'ultima volta il paziente , da un minimo di un mese a un massimo di quattro o cinque mesi, a seconda dell'efficacia della nuova cura con il farmaco Regorafenib cui il paziente stesso era stato avviato. Lamenta il ricorrente come il giudice di secondo grado avrebbe ignorato del tutto tali decisive testimonianze 3 la mancata condivisione dell'imputata della scelta di procedere alla sedazione terminale con i numerosi medici curanti del fratello. Si osserva nel ricorso della Pubblica accusa che la sentenza di primo grado, attraverso un analitico esame delle conversazioni telefoniche intercorse nella giornata del 25 gennaio 2015 tra C.M. e i medici G., C., M. e B., a vario titolo coinvolti nella cura di C.M., era giunta alla conclusione che l'imputata aveva intrapreso la sedazione del germano senza confrontarsi con nessuno di costoro, nonostante avesse avuto con gli stessi plurimi contatti in quella giornata. È, infatti, emerso dalle dichiarazioni dei sanitari che l'imputata aveva riferito alla Dott.ssa C. di aver iniziato la sedazione, asseritamente concordata con altri, ma ciò aveva fatto ancora prima che la sedazione fosse effettivamente iniziata inoltre C. aveva riferito al Dott. B., palliativista ufficiale dal 15 settembre 2015, esclusivamente di un generico aggravamento delle condizioni del fratello, chiedendogli conferma delle dosi di farmaco Midazolam da utilizzare. Lamenta il ricorrente che le dichiarazioni dei citati medici sarebbero state del tutto ignorate dal giudice di secondo grado. 3.4. Il quarto motivo di ricorso censura la violazione dell' art. 606 c.p.p. , comma 1, lett. d , per mancata assunzione di una prova decisiva. Il Procuratore generale, nel giudizio di appello, aveva chiesto che fosse disposta una perizia collegiale al fine di accertare se le fiale di Midazolam, delle quali l'imputata era in possesso, potessero provocare la morte del fratello, avuto riguardo alle condizioni di salute in cui questi versava. La richiesta prendeva le mosse dalla ritenuta natura confessoria della telefonata del 21 gennaio 2016 e dalla deposizione di B.I. che aveva riferito di alcune manovre mediche sospette eseguite dalla C. sul fratello. Segnatamente, la teste B. attribuiva a C.M. di aver aumentato, nel corso della giornata del omissis , in due diversi momenti, la velocità della somministrazione del Midazolam attraverso la flebo e, in stretta sequenza temporale, di avere praticato un'iniezione per via endovenosa nel braccio destro del fratello che la sentenza di primo grado ha ritenuto contenesse, anche sulla scorta delle dichiarazioni rese sul punto dalla stessa imputata C., un bolo di quindici mg di Midazolam. Ciò premesso, ritiene il Procuratore generale ricorrente che - in disparte dell'illogica svalutazione del narrato di B.I ., reputata nella sentenza impugnata troppo giovane e inesperta per poter ricostruire quanto accadde quel pomeriggio - attesa l'esistenza di un obiettivo contrasto sulle cause della morte tra i consulenti medici del Pubblico ministero e quelli della difesa, non potendosi escludere che l'imputata avesse erroneamente ritenuto la propria responsabilità per la morte del fratello in ipotesi invece verificatasi esclusivamente a causa della patologia di cui era affetto , sia stata una grave lacuna l'avere omesso di disporre la richiesta perizia collegiale da affidarsi a un anestesista-rianimatore, a un oncologo e a un farmacologo , al fine di verificare se il bolo di quindici mg. di Midazolam, iniettato in vena dalla C. al fratello, fosse effettivamente idoneo a provocare la morte di quest'ultimo in tempi brevi, in relazione alle gravi condizioni mediche nelle quali l'uomo versava perizia la cui necessità - ad avviso del Procuratore generale ricorrente - dovrebbe, dunque, essere rivalutata nell'ipotesi di annullamento con rinvio della sentenza impugnata. 3.5. Con il quinto motivo lamenta la violazione dell' art. 491 c.p. , contestato in concorso a C.M. e a F.G., al capo c della imputazione. Il Procuratore generale ricorrente avversa la tesi del giudice di appello secondo cui - incontestato che il testamento redatto il 18 settembre 2015 fu materialmente scritto da C.M ., con il concorso morale di F.G ., sotto dettatura di C.M. - la condotta non integrerebbe il reato di cui all' art. 491 c.p. perché quel che l'imputata scrisse il 18 settembre non aveva la sacralità di un testamento avrebbe potuto diventarlo qualora l'avv. C. avesse consegnato il manoscritto a un notaio, dichiarandogli che conteneva le sue ultime volontà . Si evidenzia che il testamento olografo è solo quello integralmente formato dal testatore e per la sua formazione non sono richieste altre formalità, sicché se il testamento - come nel caso di specie, perché confessato da C.M. è stato scritto da mano diversa, è irrilevante, ai fini della configurabilità del reato, l'autenticità della firma apposta in sottoscrizione, così come non è necessaria la pubblicazione del falso testamento per la configurabilità del reato. Del pari irrilevante è che il testamento olografo presenti profili di nullità ovvero annullabilità ai sensi della disciplina civilistica, dovendosi considerare come testamento olografo, ai fini penalistici, qualsiasi manifestazione di volontà estrinsecatasi nella forma di cui all' art. 602 c.c. con la quale taluno disponga, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o parte di esse Sez. 5, n. 27520 del 04/05/2004, Braini, Rv. 228706 . Quanto alla responsabilità nel reato di entrambe le imputate, il ricorso valorizza le dichiarazioni da ciascuna rese in sede d'interrogatorio, riportate nella sentenza di primo grado C.M. aveva ammesso di avere redatto il testamento del 18 settembre di proprio pugno, facendolo poi sottoscrivere al fratello ed aveva affermato che, prima della redazione dello stesso, F.G. le aveva chiesto se avesse una calligrafia simile a quella del fratello. F. aveva affermato di avere precisato a C.M. che, ove non avesse redatto il testamento di suo pugno, lo stesso sarebbe stato nullo. 3.6. L'ultimo motivo attinge l' art. 626 c.p. , comma 1, n. 2 , che il ricorrente assume violato. La sentenza di appello ha riconosciuto l'ipotesi di furto lieve osservando che la condotta fu posta in essere da C.M. per far fronte al pericolo estremo e concreto di peggioramento cui il fratello, gravemente malato, era esposto agì per preservarlo da feroci dolori, che, proprio perché medico, era in grado di prevedere e temere . Obietta sul punto il Procuratore generale che è incontestato siccome riveniente dalle stesse dichiarazioni dell'imputata C. che il furto fu perpetrato presso l'Ospedale di […], in occasione di un esame Tac programmato per C.M., avvenuto un mese prima del giorno del decesso. Dunque, la situazione fattuale non sarebbe suscettibile di integrare la fattispecie di cui all' art. 626 c.p. , comma 1, n. 2, posto che la giurisprudenza di legittimità subordina la possibilità di far degradare l'imputazione di furto comune a quella di furto lieve solo ove sussista non già un generico stato di bisogno del soggetto agente, bensì di una situazione di bisogno grave e indilazionabile, cui non possa provvedersi se non sottraendo la cosa. Situazione quest'ultima non ricorrente, ad avviso del Procuratore generale, nel caso di specie, avendo l'imputata stessa ammesso di avere agito in vista di un mero bisogno futuro ed eventuale. 4. Ricorre per cassazione, per il tramite del difensore di fiducia, altresì C.M. ed affida le proprie censure a due motivi. 4.1. Con il primo deduce violazione dell' art. 491 c.p. con riferimento al capo f . Il percorso motivazionale della Corte di assise di appello sarebbe errato sotto più profili. In primo luogo l'affermazione di responsabilità di C.M. sarebbe stata collegata dal Giudice di secondo grado a una finalità quella di dare esecuzione alle ultime volontà del fratello, cui si sostituì decidendo la sorte del suo patrimonio , del tutto diversa da quella contestata, ovverosia la finalità di arrecare un danno alla madre, C.G. La lesione del diritto della madre sarebbe, ad avviso della ricorrente, elemento centrale per la concretizzazione dell'elemento psicologico, ma osserva la ricorrente - C.G. non si è mai opposta a tale ripartizione, nè ha mai adito il giudice civile. Nè il dolo potrebbe essere ritenuto in riferimento alla situazione di vantaggio per il beneficio attribuito nel testamento a C.S. e a T.S., poiché l'inclusione dei loro nominativi era già stata predisposta dal de cuius nei fogli di appunti manoscritti il giorno 23 settembre 2015. Rileva, inoltre, la ricorrente come secondo autorevole giurisprudenza di legittimità non è possibile contestare il reato di falsità e poi approdare alla condanna per il diverso reato di uso di atto falso, poiché tra le due figure vi è alternatività sostanziale. Sicché a fronte della contestazione di una condotta di alterazione del testamento quale quella di cui al capo f , errate sarebbero le determinazioni cui la sentenza impugnata giunge, in quanto concernenti l'uso fatto di tale atto falso, attraverso la pubblicazione presso il notaio M. Infine, l'atto oggetto d'imputazione non avrebbe le caratteristiche per essere definito testamento olografo, bensì si tratterebbe di una mera scrittura privata, come tale rientrante nell'alveo del diverso reato di cui all' art. 485 c.p. , non più previsto dalla legge come reato, a seguito del D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 . 4.2. Con il secondo motivo lamenta vizio di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in relazione al reato di cui al capo f , per cui è condanna, e quello di cui al capo c , per il quale vi è stata assoluzione. Tra le due pronunce vi sarebbe un'insuperabile contraddizione, trattandosi del medesimo fatto e identica essendo la volontà che la spinse a porre in essere dapprima la redazione di proprio pugno dell'atto del 18 settembre, quindi la sua correzione il 23 settembre. 5. La difesa di C. ha depositato memoria con la quale ha eccepito l'inammissibilità del ricorso del Procuratore generale, con peculiare riferimento ai motivi da 1 a 4 e, comunque, ne ha evidenziato la complessiva infondatezza. Rileva che il ricorso non individuerebbe alcuna ipotesi specifica di contraddittorietà, illogicità o sostanziale mancanza della motivazione in ordine all'assenza di responsabilità di C.M ., ma si limiterebbe a rappresentare una ricostruzione alternativa dei fatti, fondata su una parziale e soggettiva rilettura delle prove poste a fondamento della decisione assolutoria, soprattutto di quella che definisce la prova d'accusa fondamentale , ossia la telefonata intercettata tra C.M. e C.S. in data 21 gennaio 2016. A fronte del rigore dell'insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il ricorso per essere ammissibile non deve proporre una migliore ricostruzione dei fatti attraverso una rivalutazione delle risultanze probatorie, ma deve riguardare un vizio del percorso logico argomentativo dei giudici di merito manifesto e avente ad oggetto passaggi essenziali della decisione - il ricorso della Procura generale non dedurrebbe alcun vizio che incrina, in modo severo, la tenuta della motivazione, evidenziando una frattura logica non solo manifesta , ma anche decisiva , in quanto essenziale per la tenuta del ragionamento giustificativo così nella memoria . Si lamenta che la Procura generale avrebbe operato uno stravolgimento del contenuto della motivazione dei giudici di secondo grado, omettendo di menzionarne passaggi cruciali e, tra questi, anzitutto, quelli relativi alle evidenze scientifiche sulla cui base si è ritenuto che, il giorno del decesso, le gravissime condizioni di C.M. non lasciavano alternative alla morte , giungendo così alla conclusione che quel giorno quella vita gravemente compromessa dalla malattia incurabile ebbe termine naturale e che la Dott.ssa C. si prese per l'ultima volta cura del fratello che avrebbe voluto salvare, accompagnandolo nel sonno verso la morte inesorabile Corte d'Assise d'Appello di Genova, sentenza 5 maggio-28 luglio 2022, p. 49 . La difesa, a sostegno di tale argomento, elenca dettagliatamente, alle lettere da a. a q., i condivisi argomenti del giudice di secondo grado che ritiene non realmente avversati dal ricorso del Procuratore generale. Segnatamente, nel cennato ricorso, non si sarebbe tenuto in adeguata considerazione che a. non è stata contestata l'aggravante della premeditazione e che, pertanto, non si può retrodatare l'intenzione di uccidere, sicché l'unica motivazione alla base dell'iniezione di Midazolam praticata da C.M. era quella di lenire le sofferenze del fratello nella fase più critica e dolorosa del trapasso b. invero, il giudice di appello ha evidenziato che la Corte di primo grado non sa in verità collocare nell'arco temporale di quel giorno, il momento in cui l'imputata avrebbe deciso l'omicidio , ossia di effettuare l'iniezione del farmaco asserita mente fatale ma in realtà, come si vedrà ininfluente c. è rimasta priva di riscontro la circostanza affermata dal giudice di primo grado che C.M. tale estrema decisione avrebbe preso per dirottare su di sé parte del patrimonio circostanza peraltro esclusa dallo stesso Procuratore generale ricorrente, che ha espressamente affermato a p. 2 del proprio ricorso di concordare con la ricostruzione della sentenza impugnata in ordine all'esclusione di un movente economico dell'omicidio d. quanto allo stato di salute di C.M.V., venti giorni prima del decesso era stato colto da una grave crisi respiratoria, ricoverato di urgenza all'ospedale di Sarzana e sottoposto ad esami strumentali emogasanalisi e radiografia al torace che ne descrivevano condizioni di salute fortemente compromesse il valore parziale di ossigeno evidenziato dall'emogasanalisi era di poco superiore alla soglia di insufficienza respiratoria e il distress respiratorio era talmente importante da non consentire al paziente di mantenere la posizione eretta per il breve tempo necessario all'esecuzione della radiografia toracica e. il giorno seguente C.M. venne trasferito in ambulanza con ossigeno presso il Reparto di Oncologia dell'Ospedale di […], ove giunse in pessime condizioni cliniche, contrassegnate da scarso controllo del dolore e grave calo ponderale, tanto che in cartella clinica venne descritto come paziente terminale , cui fu definitivamente diagnosticata la linfagite carcinomatosa polmonare con versamento pleurico bilaterale, diagnosi confermata dalla AngioTAC eseguita il successivo 8 settembre 2015, riscontrata dalla ecografia del torace f. il degente venne dimesso il successivo 11 settembre 2015, con prescrizione di ossigenoterapia e affidato alle cure del medico palliativista, il Dott. B. che questi visitò almeno in tre diverse occasioni il malato il 15, il 17 e il 25 settembre, alle ore 17-17.30 e che, in occasione del secondo accesso, riscontrò un generale peggioramento g. la mattina del omissis , giorno del decesso, C.M.V. venne nuovamente sottoposto ad emogasanalisi, finalizzata a verificare l'ossigenazione in vista della fornitura diretta di ossigeno, all'esito del quale esame i parametri rilevanti ai fini della valutazione della situazione funzionale del sistema respiratorio risultarono marcatamente inferiori a quelli di soglia, cosicché la condizione respiratoria del malato risultava gravemente peggiorata, con presenza di sofferenze quali dispnea e fame d'aria, con rischio di asfissia per carenza di ossigeno h. nello stesso giorno del decesso, fin dal mattino, C.M. chiese aiuto al palliativista Dott. B., cui comunicò l'aggravamento della situazione clinica del fratello e la conseguente decisione di sedarlo scelta annunciata con un messaggio delle ore 12.53 ho iniziato il protocollo di sedazione come abbiamo stabilito , chiedendo anche a B. riscontro e conferma circa le dosi da utilizzare i. l'imputata disse al palliativista che non aveva bisogno di altre fiale di Midazolam, particolare che - come affermato nella sentenza impugnata dimostra che la C. non aveva utilizzato tutte le fiale che aveva a disposizione , e che dunque è errata la tesi secondo cui l'infermiere G., quel giorno, avrebbe fornito a C.M. altro quantitativo di Midazolam j. ancora una volta come si legge nella sentenza di appello, non si comprende perché la C. avrebbe praticato l'iniezione mortale in un momento in cui erano presenti altre persone, anziché approfittare dei momenti in cui era rimasta sola con il fratello k. il dosaggio somministrato era - secondo le evidenze scientifiche talmente modesto da non poter cagionare il decesso l. in particolare, il consulente di parte prof. R. ha riferito delle quantità ingenti con cui il Midazolam è iniettato ai condannati alla pena di morte, unitamente ad altri farmaci, per ottenere la certezza del decesso m. il primario Dott. M. ha affermato che questo stesso farmaco viene utilizzato su malati terminali ricoverati in terapia intensiva con dosaggio molto più alto rispetto a quello utilizzato dalla Dott.ssa C. sul fratello e che la dose in concreto somministrata non avrebbe potuto uccidere neanche un gatto n. i valori all'esito dell'emogasanalisi - oggetto della consulenza tecnica della difesa, acquisita dalla Corte d'Assise d'Appello di Genova - erano talmente alterati da compromettere la sopravvivenza o. la ricostruzione frutto del racconto della B. - com'è stato evidenziato nella sentenza di secondo grado - non è affatto provata, anzi si deve dubitare di quanto affermato dalla testimone sentenza, cit., p. 48 , che la stessa Corte, del resto, ritiene teste incoerente e inaffidabile sentenza cit., p. 36, e così pure a p. 44 p. la pretesa autodenuncia dell'imputata nella famigerata telefonata intercettata con C.S. non trova alcun riscontro, perché le gravissime condizioni di C.M. non lasciavano alternative alla morte così nella sentenza di appello q. in definitiva, secondo i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Genova la Corte di assise ha svalutato il contributo prezioso proveniente dai consulenti di parte della difesa per propendere per la soluzione alternativa coltivata dal Pubblico Ministero priva di supporto scientifico oltre che di prove sentenza di appello, p. 50 . Evidenzia, inoltre, la difesa come il ricorso - nella parte in cui lamenta l'inadempimento dell'obbligo di motivazione rafforzata in punto di omessa considerazione della descrizione delle condizioni cliniche di C.M. la mattina del omissis , dell'aspettativa di vita dello stesso, infine della non condivisione con i medici curanti della scelta di sedare il fratello - si baserebbe su valutazioni prive di riscontri scientifici e, come tali opinabili e arbitrarie, già oggetto di confutazione da parte della Corte di Assise di Appello che, invece, ha fondato le proprie determinazioni sui dati obbiettivi e decisivi, provenienti dai presidi sanitari e da perspicue evidenze scientifiche, quali i dati offerti dall'emogasanalisi del 25 settembre, confrontati con i dati emersi da analogo esame precedentemente effettuato dati tutti trascurati e disattesi nel ricorso. Si eccepisce, poi, la tardività della richiesta di perizia nel giudizio di appello, siccome formulata all'udienza di discussione, sollecitando i poteri ufficiosi della Corte di secondo grado, reputando comunque la richiesta non più sollecitabile in sede di legittimità. Il Procuratore ricorrente, secondo la tesi difensiva, non avrebbe dedotto alcun vizio logico manifesto e decisivo della motivazione del Giudice di appello che, difatti, ha assolto C.M. a seguito di un rigoroso percorso argomentativo, ritenendo che la causa del decesso - secondo una ricostruzione eziologica doverosamente condotta alla luce delle evidenze scientifiche offerte dalle consulenze tecniche della difesa - dovesse imputarsi al naturale decorso della gravissima patologia tumorale che affliggeva C.M.V. e che, in quella dinamica causale, non ebbe alcun rilievo l'avvenuta somministrazione del bolo di Midazolam, motivata solo dal fine di lenire le sofferenze fisiche del fratello nel momento di massima intensità rappresentato dal trapasso. Infine, sono avversate le censure della Procura Generale laddove evocano il vizio di violazione di legge, ai sensi dell' art. 606 c.p.p. , lett. b , - in ordine all'ipotesi di falso testamentario e a quella di furto. Quanto al furto delle tre fiale di Midazolam presso l'Ospedale di […] capo a , spontaneamente confessato dalla stessa imputata, si tratta di un reato avente ad oggetto beni del valore economico di poche decine di Euro, motivato non già da finalità di profitto bensì - quanto meno nella prospettiva che allora appariva impellente all'autrice - dal grave e urgente bisogno di provvedere alla necessità, imprevedibile nel suo esatto inverarsi, di alleviare le sofferenze del fratello. Corretta è, pertanto, la qualificazione prospettata in sentenza ai sensi dell' art. 626 c.p. , comma 2, n. 2 e immune da vizi la pronuncia di non doversi procedere per difetto di querela. Lo stesso può dirsi quanto all'ipotesi di falsificazione testamentaria, asseritamente commessa in data 18 settembre 2015 capo C ndr per mera svista indicato in memoria come capo D , che riguarda invece il reato di circonvenzione di incapace , posto che la Corte ha motivatamente ritenuto l'insussistenza del fatto escludendo che C.M.V. - fortemente provato dalla incurabile malattia , ma pur sempre in possesso anche negli ultimi giorni della capacità di intendere e di volere Corte d'Assise d'Appello di Genova, sentenza 5 maggio-28 luglio 2022, p. 42 , abbia apposto la propria sottoscrizione senza rendersi conto di quanto stava accadendo e perché scaltramente indotto dalla sorella e dall'amica-collega assumendo a riprova di ciò il fatto che - uno o due giorni dopo - lo stesso C. avvertì la sorella che quell'atto non aveva alcuna dignità e non avrebbe potuto produrre alcun effetto e, così, concludendo correttamente che un tale atto - di per sé - non aveva la sacralità del testamento , avendo potuto ottenere tale crisma solo ove l'avv. C. avesse poi consegnato il manoscritto ad un notaio, dichiarandogli che conteneva le proprie volontà. 6. I difensori di F.G. hanno depositato memoria con la quale hanno avversato l'ammissibilità e la fondatezza del ricorso del Procuratore generale, nei riguardi della loro assistita, per ciò che concerne il reato di cui all' art. 491 c.p. , contestato al capo c . Le difese evidenziano come il ricorso sia affetto da insanabile vizio d'inammissibilità e/o infondatezza, poiché la prospettazione alternativa del ricorrente oblitererebbe passaggi cruciali della pronuncia di secondo grado. Osservano le difese come l'affermazione del Procuratore generale ricorrente secondo cui l'impostazione della sentenza di appello, in ordine al capo in esame, è giuridicamente erronea muove da un'affermazione per nulla riconducibile al ragionamento maturato dai Giudici del secondo grado, vale a dire che il testamento redatto il 18 settembre 2015 fu materialmente scritto dalla C. con il concorso della F. . Invero, proprio tale condotta di concorso sarebbe stata esclusa dalla sentenza impugnata con motivazione ineccepibile il testamento del 18 settembre non poteva considerarsi falso, in considerazione del fatto che C.M., al momento della dettatura del suo contenuto alla sorella, avvenuta di iniziativa del primo, era nel pieno delle facoltà cognitive. Osserva la difesa come l'attivazione premurosa della F., dopo essersi confrontata con C.M., si limitò all'avere, il 23.09.15 in occasione della stesura degli appunti scritti di pugno dal testatore , contattato il notaio M., amico del de cuius, fissando la data del omissis per la formalizzazione delle volontà successorie. Inconferente sarebbe, dunque, la pronuncia citata nel ricorso Cass. Sez. 5 n. 27520/2004, Braini , perché, diversamente opinando, si giungerebbe a dare rilievo ad un comportamento innocuo dell'imputata, consistito nell'avere esclusivamente presenziato alla dettatura delle volontà di C.M. La critica alla sentenza di appello ometterebbe il confronto con il significativo passaggio della sentenza che ha valorizzato, al fine di scagionare l'imputata, la circostanza secondo cui, l'avv. C., infatti era ancora in vita avrebbe potuto decidere tanto di dar corso a quelle volontà, quanto di ignorarle o modificarle v. pag. 43 sentenza di appello . Errato sarebbe, poi, il richiamo contenuto nel ricorso del Procuratore generale agli interrogatori delle imputate per ritenere provata la condotta d'induzione da parte di F ., ovverosia il suggerimento dalla stessa dato a C.M. di scrivere al posto del fratello si trascura, invero, l'inutilizzabilità delle dichiarazioni originariamente rese sul punto da C.M., ma non confermate nè in sede d'incidente probatorio, nè in dibattimento, ove la stessa si è avvalsa della facoltà di non rispondere in ordine all'ipotizzato concorso dell'imputata nella formazione e modifica del falso testamento olografo. Si tratta, aggiunge la difesa, di dichiarazioni alla cui utilizzabilità F. non ha acconsentito. Nè, osserva la difesa, sarebbe possibile fondare una condanna sulle dichiarazioni rese da F. contra se e richiamate nel ricorso, nella parte in cui l'imputata ammetteva di aver precisato che se M. non avesse redatto di suo pugno il testamento esso sarebbe stato nullo, del tutto ininfluenti ai fini di una condanna a titolo di concorso. Lamenta la difesa, che la fallacia dell'impugnazione dell'Accusa sarebbe resa evidente dall'avvenuta assoluzione della F. dal reato di circonvenzione d'incapace teleologicamente connesso a quelle sub c e da quello di falso contestato al capo f . Si censura, infine, che il Procuratore generale ricorrente avrebbe articolato i motivi d'impugnazione in modo da imporre alla Corte di cassazione, in violazione dell'insegnamento dalla stessa espresso, una rielaborazione l'impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, v. Cass. Pen. Sez. 2, Rv. 277518 senza rappresentare i fondamentali concetti a sostegno di una illegittima visione della decisione di secondo grado . 7. Il Sostituto Procuratore Generale, Dott.ssa Mignolo Olga, ha concluso per l'accoglimento del ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello e per il rigetto del ricorso di C.M. Considerato in diritto 1. Il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Genova, nient'affatto inammissibile, è fondato limitatamente alla posizione processuale di C.M., mentre va rigettato nella parte riguardante F.G., per le ragioni che si esporranno di seguito. Va, del pari, rigettato il ricorso di C.M., anche nella più ampia articolazione svolta nelle memorie. 2. Quanto al profilo dell'inammissibilità del ricorso della Pubblica accusa eccepito nella memoria difensiva tanto dalla difesa di C., quanto da quella di F. - va qui richiamato il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il ricorso per cassazione è inammissibile ove a-specifico, qualità che va apprezzata non solo come genericità ovvero indeterminatezza, ma altresì come mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato. Ebbene, nel caso che ci occupa, diversamente da quanto lamentato nelle memorie difensive, il ricorso del Procuratore generale non è limitato alla rappresentazione di una ricostruzione alternativa dei fatti e a una soggettiva rilettura delle prove poste a fondamento della decisione assolutoria, ma è caratterizzato da un'adeguata correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'atto di impugnazione ed ha offerto - così come impone l'osservanza del principio di autosufficienza in relazione alla prospettazione di vizi di motivazione e di travisamento dei fatti - la compiuta rappresentazione e dimostrazione delle evidenze pretermesse ovvero infedelmente rappresentate dal giudicante di per sé dotate di univoca, oggettiva e immediata valenza esplicativa, tali, cioè, da disarticolare - a prescindere da ogni soggettiva valutazione - il costrutto argomentativo della decisione impugnata, per l'intrinseca incompatibilità degli enunciati. Per tale via, il ricorso ha certamente consentito al Collegio l'effettivo apprezzamento dei vizi, di volta in volta, dedotti. 3. Quanto al secondo profilo, prendendo in esame le doglianze poste a fondamento del ricorso della parte pubblica, ritiene il Collegio che le stesse siano, nel loro complesso, fondate, con le precisazioni della quali si dirà nel prosieguo. 3.1 Un primo aspetto, che emerge evidente dall'analisi dell'impianto motivazionale della sentenza impugnata, consiste nella assertività della progressione illustrativa con cui si demolisce il percorso interpretativo seguito dal primo giudice. La Corte di assise di appello, dopo avere sunteggiato p. da 9 a 30 , secondo il loro snodarsi cronologico, le vicende che connotarono l'insorgenza della malattia e il decesso di C.M.V., ha posto in evidenza come le risultanze probatorie poste dal giudice di primo grado a fondamento dell'affermazione di responsabilità di C.M. per l'omicidio del fratello e di entrambe le imputate per i reati rispettivamente ascritti fossero costituite essenzialmente dalla conversazione telefonica del 21 gennaio 2016 tra la predetta imputata e C.S ., nonché dalle deposizioni delle testi B.I. convivente della vittima , D.G. avvocato e amica di C.M.V. , nonché del teste Rampini anch'egli amico del de cuius . Ciò posto, la motivazione del Giudice di secondo grado si è snodata attraverso lo svolgimento di una mera critica alla ricostruzione del primo Giudice, senza tuttavia che la stessa fosse accompagnata da un'analisi accurata delle risultanze di prova, sviluppandosi in un incedere argomentativo nel quale le testimonianze reputate fondamentali nel percorso logico-giuridico del primo Giudice sono state raramente e solo sinteticamente citate a sostegno della ricostruzione di volta in volta privilegiata in merito a ciascuna imputazione e apoditticamente reputate dimostrative dell'avversa conclusione raggiunta. In disparte ogni considerazione di cui si dirà appresso in merito alle specifiche carenze della sentenza impugnata, ciò che risulta evidente e rilevante, sotto un primo e determinante aspetto metodologico, è la mancata rispondenza dello sviluppo logico-argomentativo della sentenza impugnata all'obbligo di fornire una motivazione puntale e adeguata. Occorre, per quanto di specifico rilievo, prendere la mosse dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430 che ha statuito che Il giudice d'appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado non ha l'obbligo di rinnovare l'istruzione dibattimentale mediante l'esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, ma deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva . In motivazione p. 8 p. 4.1. si è ulteriormente specificato che Il giudice di appello, dunque, nel riformare la condanna pronunciata in primo grado con una sentenza di assoluzione, dovrà confrontarsi con le ragioni addotte a sostegno della decisione impugnata, giustificandone l'integrale riforma senza limitarsi a inserire nella struttura argomentativa della riformata pronuncia delle generiche notazioni critiche di dissenso, ma riesaminando, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice e quello eventualmente acquisito in seguito, per offrire una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia adeguata ragione delle difformi conclusioni assunte . Nel medesimo solco risulta, poi, orientata anche la giurisprudenza di legittimità successiva, che ha ulteriormente precisato che Il giudice d'appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado sulla base del medesimo compendio probatorio, pur non essendo obbligato alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, è tenuto a offrire una motivazione puntuale e adeguata che dia razionale giustificazione della difforme decisione adottata, indicando in maniera approfondita e diffusa gli argomenti, specie se di carattere tecnico-scientifico, idonei a confutare le valutazioni del giudice di primo grado Sez. 4, n. 2474 del 15/10/2021, dep. 2022, Nappa, Rv. 282612 Sez. 4, n. 24439 del 16/06/2021, Vollero, Rv. 281404 . È, dunque, indubitabile, che siffatta motivazione richiesta al giudice di appello, in caso di riforma in senso assolutorio della sentenza di condanna di primo grado, consista nella compiuta indicazione delle ragioni per cui una determinata prova assuma una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado. 3.2. Tanto premesso, ciò che emerge con riferimento allo standard giustificativo in ipotesi di ribaltamento della pronuncia di primo grado, è la carenza da cui risulta affetta la motivazione della sentenza impugnata, alla luce delle descritte linee ermeneutiche tracciate da questa Corte. Nell'ordito motivazionale della sentenza impugnata - come si dirà meglio al paragrafo seguente - manca qualsiasi appagante considerazione ed estrinsecazione delle ragioni poste a fondamento delle opzioni operate dal Giudice di appello, sia con riferimento ad elementi di prova diversamente valutati, sia alla maggiore concludenza attribuita ad elementi di prova diversi da quelli posti a fondamento della sentenza di condanna. Il mancato rispetto del principio della necessaria ostensione di un percorso argomentativo dissenziente, dotato di adeguata e maggiore persuasività, costituisce, quindi, una ragione di annullamento della sentenza impugnata, in quanto - per le ragioni che s'illustreranno - il deficit motivazionale denunciato emerge come connotato da entità tale, rispetto all'obbligo di motivazione rafforzata , da rendere il percorso giustificativo sostanzialmente apparente, siccome irrimediabilmente fuorviato e non adeguatamente confutativo della statuizione riformata. 4. Ciò detto in termini generali, il Collegio ritiene certamente fondato il primo motivo di ricorso del Procuratore generale. 4.1. Va premesso che la sentenza di primo grado aveva attribuito fondamentale rilievo, per l'affermazione della responsabilità di C.M. per il delitto di omicidio, alla conversazione telefonica intercorsa il giorno 21 gennaio 2016 tra C.M. e la sua amica C.S. Si apprende dalla sentenza di primo grado che il dialogo è ascoltato dagli inquirenti in un momento in cui non vi era neppure il sospetto che il decesso di C.M. potesse essere conseguenza di un altrui condotta dolosa e l'indagine era incentrata esclusivamente sui reati di circonvenzione d'incapace e falso in testamento. La conversazione ha luogo quando C.M., all'estero per ragioni di lavoro, appena rincasata, chiama l'amica C. Le affermazioni dell'imputata risultano, ad avviso della Corte di assise, particolarmente chiare, scorrevoli e dal significato univoco e si evidenzia che si tratta, di una confessione spontanea, non indotta da alcuno e non mediata dalle parole di soggetti terzi . La Corte di assise descrive in primo luogo l'esordio della telefonata nella quale, dopo alcuni convenevoli, C.M. introduceva un argomento che le stava evidentemente a cuore, domandando all'interlocutrice se lei avesse capito cosa quel giorno fosse realmente successo e, cioè, che se lei non lo avesse sedato, M. non sarebbe morto Perché lui è morto perché lo l'ho sedato . Quindi il dialogo procedeva con l'imputata che - a fronte della convinzione manifestata dall'amica sul fatto che ella avesse solo anticipato di un giorno la morte del fratello - ribadiva che questi sarebbe avrebbe vissuto un mese sicuro, anche di più , che quel giorno aveva scherzato con lei, rimarcando che No, non sarebbe mai morto nè . nè quel giorno, nè il giorno dopo, nè dopo una settimana . Il giudice di primo grado ha, dunque, attribuito a tali affermazioni la natura di confessione stragiudiziale. 4.2. Di contro, la Corte di assise di appello ha negato tale natura e ha reputato trattarsi di parole defluite senza controllo e senza logica, emerse dalla profondità dei pensieri aggrovigliati con il dolore , soggiungendo che, in ogni caso, l'autodenuncia dell'imputata non trova alcun riscontro, poiché le gravissime condizioni di C.M. non lasciavano alternative alla morte. La Dott.ssa C. d'altronde si addossava anche la colpa per i moribondi pazienti deceduti in ospedale, come ha riferito il Dott. M., suo primario per anni. Tale senso di colpa è stato ricondotto dallo psicologo C. a una forma di autolesionismo da cui era affetta, che colmava con l'estrema generosità nei confronti del prossimo, infatti donò con magnanimità agli amici oggetti di gran valore appartenuti al fratello . Osserva il Collegio come tale affermazione si appalesi assertiva e manifestamente illogica nella misura in cui non si confronta con lo sviluppo coerente del discorso tra le due colloquianti, dettagliatamente indicato nella sentenza di primo grado e riprodotto nel ricorso, nonché con l'affermazione, più volte ribadita da C.M ., che il fratello era morto perché lei l'aveva sedato e con la pletora di precisazioni che costei ha svolto rispetto alle domande poste, di volta in volta, dall'interlocutrice. In particolare, dalla conversazione emerge che è la stessa C. a introdurre il tema , chiedendo se l'interlocutrice avesse compreso che quel giorno M. non sarebbe morto se lei non l'avesse sedato e, ottenuta risposta negativa, ribadisce, con un'affermazione assolutamente chiara, che lui è morto perché lo l'ho sedato . Quindi, all'ulteriore domanda di C. che la interrogava sulla tempistica del decorso della malattia, l'imputata risponde che sarebbe andato avanti un mese sicuro . anche più, non sarebbe mai morto nè quel giorno, nè il giorno dopo, nè dopo una settimana ricorda inoltre che una settimana prima del decesso aveva chiesto al fratello di avvisarla quando la vita non fosse stata più tollerabile e questi le aveva risposto No, ma lo ho ancora piacere a vedervi . L'imputata afferma inequivocabilmente che il fratello non era ancora giunto alla decisione di porre fine alle sofferenze derivanti dalla malattia e che tale decisione l'aveva presa lei volevo che fosse chiaro che ho deciso lo che sarebbe morto quel giorno . Appare, dunque, del tutto irragionevole ritenere che le chiare e consequenziali parole proferite dall'imputata, anche a fronte delle domande ovvero delle risposte dell'amica, siano defluite senza controllo e senza logica . Analoghe considerazioni in punto d'irragionevolezza valgono per le conclusioni della Corte di assise di appello secondo cui le parole di C.M. fossero dettate dal sentimento di senso di colpa della stessa natura di quello che la donna serbava in occasione della morte dei suoi pazienti. Tale approdo - che sembra ricalcare una delle diverse opzioni cui è giunto il consulente della difesa cui, però, la sentenza fa un mero laconico richiamo stride con le ribadite affermazioni dell'imputata di non avere rimorsi, di non sentirsi in colpa, ma di avvertire, oltre al dolore per la perdita, il peso della decisione, presa in solitudine, perché il fratello era troppo attaccato alla vita per dirmi di farlo . È, altresì, manifestamente illogico ritenere - come ha fatto il Giudice di secondo grado - che il senso di colpa avrebbe portato l'imputata ad attribuirsi la responsabilità di avere deciso la morte del fratello e che ne avesse parlato all'amica, per un meccanismo inconscio di autolesionismo, nella speranza di ricevere da questa una reprimenda o, come ha dichiarato la stessa C., affinché C.S. le tirasse sassate addosso . Ciò in quanto quest'ultima, lungi dal commentare negativamente la condotta dell'amica, ne giustificava pienamente la scelta hai fatto la cosa giusta , affermando che lei aveva fatto un regalo al fratello comprensione pienamente accolta dall'imputata che, ciò nonostante, ribadiva di non avere rimorsi e che voleva che fosse chiaro che è andata così . Il giudice di appello - come si vedrà meglio nel paragrafo successivo - ha, inoltre, del tutto trascurato di avversare le ampie e puntuali argomentazioni del giudice di primo grado che, nelle cinquanta pagine dedicate all'argomento, aveva analizzato le tre diverse interpretazioni peraltro tra loro alternative attribuite dal consulente della difesa e dalla stessa imputata alla conversazioni telefonica ossia quella del forte senso di colpa , quella dell' ubriachezza , infine quella del delirio dissociativo - confutandole e chiarendo il percorso logico con cui era pervenuta, invece, ad affermare la piena attendibilità e genuinità di quelle affermazioni e della loro sicura valenza confessoria. Conclusivamente sul punto, l'interpretazione e la valutazione della conversazione de qua data dal giudice di secondo grado è sorretta da motivazione manifestamente illogica e irragionevole sicché, sulla scorta della giurisprudenza di questa Corte richiamata anche dal Procuratore generale ricorrente Sez. U n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263716 Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 282337 , il sindacato in sede di legittimità è consentito e - ad avviso del Collegio - ha determinato l'indebita svalutazione di una prova di accusa. 5. È altresì fondato il secondo motivo di ricorso, anch'esso inerente alla menzionata conversazione, sotto il diverso profilo del mancato rispetto dell'obbligo della motivazione rafforzata . 5.1. Va qui posto in evidenza come la sentenza di primo grado avesse dedicato all'interpretazione della telefonata tra C.M. e C.S. un'articolata motivazione come detto, di più di cinquanta pagine , nel cui contesto erano state analizzate e respinte le tre diverse interpretazioni, alternative alla natura di genuina confessione, offerte dal consulente della difesa prof. F. tesi del forte senso di colpa , tesi dell' ubriachezza e tesi del delirio dissociativo . La Corte di assise aveva in primo luogo stigmatizzato il fatto che tali spiegazioni fossero state coltivate, dalla difesa e dall'imputata in sede di esame, contemporaneamente, nonostante tra di esse non sussistesse alcuna compatibilità logica e, anzi, ciascuna portasse a escludere necessariamente le altre due l'ipotesi del senso di colpa , secondo cui C.M. aveva rappresentato all'amica C. la non vera circostanza di essere la responsabile dell'omicidio del fratello, affinché quest'ultima alleggerisse il peso morale di non essere intervenuta tempestivamente nella vita del fratello una volta appresa la notizia della sua malattia, richiedeva infatti piena lucidità, nonché un elevatissimo livello di vigilanza e consapevolezza, incompatibili con il pur evocato stato di ubriachezza e con l'ulteriore ipotesi del delirio dissociativo. In secondo luogo la Corte di assise si era lungamente soffermata sui molteplici elementi che rendevano inverosimile ciascuna delle alternative letture dei contenuti di quella conversazione fornite dalla difesa. In particolare, la tesi del senso di colpa era ritenuta incompatibile con l'inequivoca affermazione dell'imputata di non avere rimorsi sul proprio agito. Quella dello stato di ebbrezza alcolica era esclusa sia dall'assenza nell'eloquio della C. di qualsivoglia sintomo di alterazione alcolica la Corte aveva difatti all'uopo disposto l'ascolto in aula della conversazione de qua , sia dalla circostanza che - come risulta dai tabulati delle conversazioni whatsapp - alle ore 16,48 del 21 gennaio 2016 l'imputata era ancora al lavoro, sicché se alle 17,38 stava sorseggiando una bevanda alcolica come si ascolta nella stessa conversazione , certamente ella non aveva avuto il tempo materiale di bere una quantità di alcolici al punto da essere ubriaca. L'ultima delle alternative prospettazioni, riveniente dalle dichiarazioni del consulente della difesa, prof. F. - secondo cui l'imputata era affetta da un disturbo di personalità di tipo borderline ad elevato funzionamento, si trovava in una condizione di lutto con intensi sentimenti depressivi, abusava di alcol e presentava altresì un disturbo post traumatico da stress e che, pertanto, in occasione di quella conversazione aveva reso la confessione di un omicidio volontario, spontanea, ma falsa perché indotta da un senso di colpa produttivo di uno stato di dissociazione e slittamento dal piano della realtà - si riteneva del tutto incompatibile sia con l'obiettiva coerenza delle affermazioni svolte da C ., sia sulla base di specifici elementi posti in risalto dal consulente del Pubblico ministero, prof. R ., chiamato a deporre a prova contraria su quanto affermato da F. p. 522 e s. della sentenza di primo grado . 5.2. Ciò premesso, osserva il Collegio come sia assolutamente condivisibile la doglianza del Procuratore generale secondo cui la sentenza di secondo grado non si è confrontata in alcun modo con tali risultanze di prova, limitandosi ad attribuire apodittica preferenza alla tesi del forte senso di colpa , senza fornire alcuna motivazione dell'opzione prescelta, ma limitandosi p. 50 della sentenza di appello a richiamare le conclusioni del Dott. C. psicologo di C.M ., intervenuto nel processo non in qualità di consulente, ma quale testimone che tale sentimento aveva ricondotto a una forma di autolesionismo di cui la paziente ndr. era affetta e ad affermare apoditticamente che non si comprende come la Corte di assise abbia potuto svalutare il contributo prezioso proveniente dai consulenti della difesa e propendere per la soluzione alternativa coltivata dal Pubblico ministero, priva di supporto scientifico oltre che di prove . Per tale via il giudice di appello ha certamente violato l'obbligo di motivazione rafforzata , discostandosi dai criteri indicati al paragrafo 3 della presente sentenza e, di più, ha reso una motivazione meramente apparente. 6. Analoghe considerazioni valgono per il terzo motivo di ricorso del Procuratore generale, anch'esso fondato. La sentenza impugnata - ancora una volta omettendo di rendere una motivazione esaustiva e adeguatamente confutativa delle difformi conclusioni assunte dalla Corte di assise - non ha fornito alcuna giustificazione in punto di valutazione degli ulteriori elementi che quest'ultima aveva posto a riscontro della confessione stragiudiziale dell'imputata, sotto il precipuo profilo della prova dell'assenza di necessità di sedazione palliativa nel momento in cui essa fu, invece, praticata per esclusiva decisione dell'imputata. 6.1. Secondo la sentenza di primo grado è la stessa imputata che, nel corso della telefonata confessoria del 21 gennaio 2016, nel descrivere le condizioni di salute del fratello il giorno della sua morte, non dubitava che questi non sarebbe morto quel giorno , ma che sarebbe andato avanti un mese o forse due , affermando che si era alzato con le sue gambe e che aveva scherzato con lei. Tale descrizione clinica, particolarmente qualificata tenuto conto della professione svolta dall'imputata, era stata ritenuta, dal Giudice di primo grado, confermata dalle dichiarazioni di B.I. e dell'infermiera T. che descrissero C.M. nella mattina del decesso come un uomo certamente sofferente, provato dalla malattia e, tuttavia, in grado di parlare, di andare in bagno sulle sue gambe, benché sorretto, di scherzare e, soprattutto, che non aveva necessità di fare continuo uso dell'ossigeno. Su tali elementi la sentenza di primo grado p. 551 e s. aveva fondato l'affermazione dell'assenza di evidenze di necessità di sedazione palliativa, rimarcando come non vi fosse alcun sintomo devastante e incoercibile, come C.M. non fosse in preda a una non gestibile crisi respiratoria che, anzi, aveva potuto fare a meno dell'ossigeno per effettuare l'emogasanalisi in aria ossia senza uso di ossigeno da almeno venti minuti e che neppure ne stava facendo uso al momento dell'arrivo dell'infermiera T ., come da costei riferito. Tali dichiarazioni testimoniali sono state del tutto ignorate nella sentenza di appello e, quanto a B.I., il Giudice di secondo grado l'ha ritenuta complessivamente inattendibile sulla scorta di affermazioni apodittiche tra queste, a p. 48 della sentenza di appello, descrivendola come persona troppo giovane e inesperta per poter ricostruire quanto accadde quel pomeriggio . 6.2. Del pari neglette le dichiarazioni di M.M. e C.S., medici oncologi che avevano in cura C.M., in punto di aspettativa di vita di questi, concordemente indicata, a far data dal 23 settembre 2015 giorno in cui fu visitato dal Dott. M. , da un minimo di un mese a un massimo di quattro o cinque mesi, a seconda dell'efficacia della nuova cura cui il paziente era stato sottoposto. Secondo la ricostruzione della sentenza di primo grado, in esito a quella visita, C.M. e il suo medico si accordarono per l'inizio di un nuovo un ciclo di chemioterapia con il nuovo farmaco Regorafenib , per il cui reperimento era delegata la collega C. che, di tanto, era informata quella sera stessa dal Dott. M. che avvertiva anche C.M. con un messaggio inviatole alle 21,38 Domani ti contatterà S. per prelievi e consegna farmaco probabilmente venerdì . Buona serata . Collimante sul punto - secondo la sentenza di primo grado - il narrato di B.I., che ha ricordato che, alla proposta di M., C.M. aveva fatto uscire dalla stanza C.S., rimanendo da solo con lei, la madre e la sorella e, sentito il loro parere favorevole, aveva deciso di sottoporsi a quell'ulteriore terapia, comunicando poi al medico tale decisione. Alla luce di tali risultanze, osserva il Collegio, come l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata - secondo la quale la confessione stragiudiziale dell'imputata non trovava alcun riscontro obiettivo nelle risultanze investigative poiché le gravissime condizioni di C.M. non lasciavano alternative alla morte - finisca per risultare, ancora una volta, meramente assertiva. 6.3. Neppure si rinviene nella motivazione del Giudice di appello alcun dialogo con le diffuse considerazioni svolte nella sentenza di primo grado in punto di mancata condivisione dell'imputata della scelta di procedere alla sedazione terminale con i numerosi medici curanti del fratello, nonostante i plurimi contatti che aveva avuto con costoro nella stessa mattina del decesso. Sul punto la sentenza di primo grado aveva ampiamente motivato, richiamando le deposizioni dei sanitari P., C., M., G. e B. In particolare dalla citata sentenza si apprende che - la Dott.ssa P. si sarebbe dovuta recare la mattina del 25 settembre presso l'abitazione del paziente per effettuare analisi ematiche prodromiche alla nuova cura, ciò che non avvenne per un impedimento della stessa P. In occasione della telefonata che quest'ultima fece all'imputata, quest'ultima le riferì che avrebbe iniziato la sedazione , ma la teste ha affermato che si trattava certamente della sedazione del dolore e non già quella terminale , poiché entrambe si aggiornarono all'indomani per valutare l'evoluzione delle condizioni del paziente - la Dott.ssa C. attendeva l'imputata in ospedale per consegnarle l'impegnativa del nuovo farmaco, già ordinato dal Dott. M., ma ricevette ore 11,42, come risulta dai tabulati telefonici una telefonata da C.M. con cui veniva informata che occorreva sospendere la procedura per la somministrazione del Regorafenib a causa di un improvviso e repentino peggioramento delle condizioni cliniche del fratello, al quale era già stata iniziata la somministrazione della sedazione terminale . La teste ha ricordato che avendo l'imputata parlato al plurale abbiamo iniziato la sedazione diede per scontato che lì presente accanto al malato, oltre alla sorella M., vi fosse anche il palliativista ufficiale Dott. B. - la Dott.ssa G., medico palliativista e amica della famiglia C., ha escluso che nel corso della conversazione che pure intrattenne con l'imputata nel giorno del decesso di M., M. avesse fatto riferimento all'intenzione di procedere alla sedazione terminale - il Dott. M., che ebbe con l'imputata diversi contatti telefonici il giorno della morte di C.M., ha affermato che gli stessi ebbero ad oggetto esclusivamente un dolore addominale segnalato sul paziente e che, nell'ultima conversazione, fu direttamente informato del decesso, senza che fosse mai fatto alcun riferimento alla sedazione terminale - al Dott. B., palliativista ufficiale, alle 12,53 del mattino, l'imputata inviò un sms con il quale lo avvertiva di avere iniziato il protocollo di sedazione a fronte di riferito generico aggravamento delle condizioni del fratello. Affermava altresì, quale medico palliativista ufficiale di C.M., di non avere mai parlato con questi ovvero nè con i suoi familiari della prospettiva di una sedazione terminale. Sulla scorta di tali dichiarazioni il Giudice di primo grado è giunto alla conclusione che C.M. aveva deciso - esattamente come confessato nella telefonata alla C. - di iniziare la sedazione terminale senza alcun confronto con alcuno dei medici curanti del fratello, e, soprattutto, senza rimetterne la decisione a colui che sarebbe stato preposto istituzionalmente a quel compito, cioè al palliativista ufficiale Dott. B., al quale si limitava a comunicare dell'addormentamento del malato solo dopo avervi lei stessa proceduto con decisione autonoma, in assenza di una visita preventiva che ne riscontrasse l'effettiva sussistenza dei presupposti. 6.4. Con le descritte argomentazioni di cui ai paragrafi 6.1, 6.2. e 6.3 la Corte di assise di appello non si è minimamente confrontata sicché, osserva il Collegio, l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale la confessione stragiudiziale dell'imputata non trovava alcun riscontro obiettivo nelle risultanze investigative poiché le gravissime condizioni di C.M. non lasciavano alternative alla morte è manifestamente illogica e meramente assertiva. 7. È fondato anche il quinto motivo di ricorso del Procuratore generale, riguardante il reato di falso contestato al capo c , limitatamente alla posizione processuale di C.M., mentre va rigettato per quella di F., per le ragioni di cui appresso. 7.1. Preliminarmente, rileva il Collegio che, considerato il periodo di sospensione del corso della prescrizione 64 giorni previsti dalla disciplina emergenziale per il contenimento della pandemia da Covid-19 dal D.L. 17 marzo 2020, n. 18, art. 83, comma 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 aprile 2020, n. 27 , la fattispecie estintiva del reato di cui all' art. 491 c.p. per prescrizione, pari a sette anni e sei mesi dalla data di commissione del fatto, avvenuto il 6 ottobre 2015, si sarebbe perfezionata alla data del 9 giugno 2023 e, dunque, successivamente alla deliberazione della presente sentenza. 7.2. Tanto premesso, ai fini del corretto scrutinio del riscorso del Procuratore generale che ha chiesto l'annullamento con rinvio della sentenza per entrambe le imputate , nonché di quello dell'imputata C. che ha avversato la condanna per la falsificazione contestata al capo f , infine delle considerazioni svolte nella memoria difensiva in favore di F. con le quali si è avversata la fondatezza del ricorso della Pubblica accusa inerente il capo c , è preliminarmente necessario accennare brevemente alle vicende relative alle plurime dichiarazioni di ultima volontà dell'avvocato C. 7.2.1. È circostanza incontestata che C.M., all'inizio dell'estate del 2015, avesse redatto un testamento che indicava, quali sue uniche eredi, la compagna B.I. e la madre, C.G. Il documento, secondo quanto emerge dalla sentenza di primo grado, era stato consegnato dall'uomo a F.G., affinché lo recapitasse al notaio per alcune modifiche. F.G., originariamente imputata per il reato di soppressione di quel testamento, contestato al capo b , era stata, tuttavia, assolta sin dal giudizio di primo grado. 7.2.2. Era poi stato redatto un successivo testamento, il 18 settembre 2015, oggetto della contestazione sub c , elevata nei riguardi di entrambe le imputate, ritenute responsabili dalla Corte di assise sulla scorta di una articolata motivazione che muoveva dalla premessa che C.M. fosse pienamente consapevole dell'esistenza di un precedente testamento redatto dal fratello che non contemplava nè lei, nè F.G. La falsificazione - secondo l'impostazione accusatoria, fatta propria dal Giudice di primo grado - era avvenuta attraverso la redazione, da parte di C.M., di proprio pugno, ma con il concorso morale di F.G., del testamento olografo del fratello, contenente, tra gli altri, lasciti in favore delle stesse imputate. Al testamento, il cui contenuto dunque non era ascrivibile a C.M., questi aveva tuttavia apposto la propria firma autografa. Per ciò che qui interessa, il Giudice di primo grado reputava provata la responsabilità di entrambe le imputate per il delitto di cui all' art. 491 c.p. contestato al capo c sulla scorta dei seguenti elementi 1 era, in primo luogo, valorizzata in senso accusatorio una e-mail che C.M. aveva inviato alla sorella il 9 luglio 2015 nella quale l'uomo la accusava di essere una persona interessata esclusivamente al soldo di famiglia e di far credere di interessarsi agli altri, attratta esclusivamente dal clinic show, di essere tutt'altro che umanitaria e di non essergli stata accanto nella malattia 2 le dichiarazioni di B. in merito a un precedente tentativo di stesura del testamento, non andato a buon fine per le condizioni di salute di C.M. Dichiarazioni reputate confermate dal messaggio del giorno 17 settembre di F. a C.M. ora M. sta bene , frase ritenuta indicativa della possibilità di procedere alla stesura del nuovo testamento, effettivamente avvenuta il giorno seguente 3 le insolite modalità di redazione del testamento del 18 settembre, così come riferite da B., secondo la quale quella mattina, nonostante i consueti dolori, fu somministrata a C.M. una dose inferiore di morfina e che, al momento della redazione del testamento nella stanza del testatore vi erano solo C.M. e F.G., mentre B. fu fatta allontanare 3 l'assenza in quella occasione di un notaio, figura quanto mai opportuna, in considerazione delle condizioni di lucidità mentale altalenanti del testatore 4 le dichiarazioni di C.M. che - pur tacendo in dibattimento sul ruolo assunto nelle falsificazioni da F.G. - aveva ammesso di aver convinto il fratello a redigere un nuovo testamento in quanto il precedente comportava una lesione della quota di legittima in danno della madre, che costei non avrebbe accettato, con conseguente probabile impugnazione e pregiudizio per gli interessi di B.I., alla cui tutela C. si dichiarava interessata per salvaguardare le ultime volontà del fratello. La stessa C. aveva, dunque, ammesso di avere scritto di proprio pugno il testamento del 18 settembre e di avervi, il giorno 29 settembre 2015 - come si vedrà appresso - operato delle correzioni, per adeguarlo alle modifiche che M. aveva appuntato in alcuni suoi fogli manoscritti il giorno 23 settembre. Ritenuta pacifica l'ascrivibilità della condotta materiale alla C. che aveva ammesso di aver redatto di proprio pugno il testamento, il coinvolgimento di F. era inferito, dal giudice di prima cura, da quanto riferito da B.I. che ne aveva ricordato la presenza il giorno 18 settembre nella stanza dove si trovavano M. e M. e dove era stato compilato il nuovo testamento e dalle già descritte modalità di stesura del testamento. Si segnalava, invece, l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da C.M. in punto di coinvolgimento di F., poiché non ribadite nè in sede d'incidente probatorio, nè in dibattimento. La Corte di assise, in disparte ogni considerazione sulle circostanze estremamente sospette in cui il testamento di cui si tratta fu formato fu fatta allontanare B.I. e non fu richiesta l'assistenza di un notaio , riteneva sussistente il reato di falso contestato anche nell'ipotesi in cui l'atto fosse stato davvero redatto sotto dettatura di C.M., sulla scorta del principio giurisprudenziale secondo cui Integra il delitto di falso materiale in testamento olografo artt. 476 e 491 c.p. la redazione di un documento apparentemente scritto di proprio pugno dal testatore - con l'aiuto materiale di altro soggetto che gli guidi la mano , in quanto, in tal caso, il documento non è formato, come prescritto dalla legge, esclusivamente dal de cuius e, quindi, non può essere considerato olografo Sez. 5, n. 51709 del 06/1072014, Benzi, Rv. 262118 . Concludeva, il giudice di primo grado, nel senso della sussistenza del reato de quo anche sotto il profilo dell'elemento soggettivo, ossia il dolo di vantaggio ovvero di danno a terzi convinta dell'esistenza di un precedente testamento con cui il fratello ha disposto quasi esclusivamente in favore della compagna, ledendo la quota di riserva della madre almeno 1/3 del patrimonio ai sensi dell' art. 538 c.c. , con il pretesto di impedire alla madre di impugnarlo, C.M. - complice F.G. - induce M. a redigere un nuovo testamento in cui si prevede il seguente assetto ereditario ad B.I. la somma di 1,2 milioni oltre alla casa, a C.M. 1 milione di Euro, a F.G. 400 mila Euro, a D.G. 200 mila Euro, all'Unicef 70 mila Euro, a T.S. 30 mila Euro alla madre solo 300 mila Euro che, com'è evidente, rappresentano una quota di gran lunga inferiore a quella di riserva in suo favore M. e la F. realizzano un vantaggio per sé stesse e per la B., arrecando un danno alla madre . 7.2.3. Il testamento redatto il 18 settembre era stato poi modificato il 29 settembre 2016. La sentenza di primo grado ha ritenuto C.M. e F.G. responsabili per tale ulteriore condotta di falsificazione, contestata al capo f , e dunque provato che entrambe avessero - in data 29 settembre 2016, presso l'abitazione di omissis in uso alla prima - modificato il precedente testamento, attraverso la sostituzione ai nomi dei beneficiari D.G. e Unicef quello di C.S. che non contemplata nel testamento precedente, in tal modo, diveniva destinataria di un lascito complessivo pari a 270,00 Euro. Secondo la Corte di assise, detta ulteriore falsificazione si era resa necessaria in quanto, inaspettatamente, il 23 settembre C.M. aveva redatto due diversi scritti, in rapida successione, contenenti disposizioni in conflitto con il testamento falso del 18 settembre e i fogli sui quali aveva appuntato tali sue volontà successorie erano stati lasciati in bella vista , tanto che B. ne aveva persino fotocopiato uno. Quest'ultima, inoltre, aveva ricordato come C.M. non avesse alcuna memoria del contenuto del testamento del 18 settembre tanto da chiederlo a F. e intendesse redigerne uno nuovo, a tal fine prendendo appuntamento con un notaio per il 26 settembre. L'evidente distonia tra volontà indicate negli appunti e l'assetto ereditario dato dalle due donne, pochi giorni prima, nel testamento del 18 settembre secondo il Giudice di primo grado - rappresentava una minaccia per la sua validità, sicché vi era la necessità di conformare , per quanto possibile, i contenuti della scheda testamentaria del 18 settembre al nuovo assetto dato da C.M. negli appunti manoscritti. Segnatamente, con le modifiche del 29 settembre - C.S., non contemplata nel precedente testamento, ma indicata negli appunti di C.M. come beneficiaria dapprima della somma di 300 mila Euro, poi di 400 mila Euro, veniva indicata quale beneficiaria di un lascito complessivo di 270 mila Euro ciò avveniva attraverso sostituzione del nome di C. nelle disposizioni in favore di Unicef e D.G. che venivano meno - era mantenuto il lascito di 30 mila Euro in favore della […], nonostante C.M. avesse espressamente riferito alla compagna di non volerla indicare nel testamento - non era, invece, incrementata la quota di C.G., che invece C.M., nei menzionati appunti, aveva aumentato da 300 mila a 400 mila Euro - a fronte di una riduzione a 200 mila disposta da C.M. nei ridetti appunti, la quota di F.G. restava inalterata nella misura di 400 mila Euro. Riteneva, pertanto, la Corte di assise che l'adeguamento da parte delle imputate del testamento del 18 settembre agli appunti scritti da C.M. fosse stato parziale ed avesse riguardato solo le disposizioni di coloro i quali avrebbe potuto, in qualche modo, creare problemi o divenire testimoni scomodi , vanificando gli interessi economici di chi quelle falsificazioni aveva compiuto. Tale approdo logico si reputava confermato dalle dichiarazioni della stessa C. che aveva ammesso la falsificazione, pur se giustificandola con il diverso obiettivo di rispettare le volontà del fratello e di tutelare B.I., non coniugata con quest'ultimo. 7.2.4. Il testamento che si voleva far apparire come olografo, redatto il 18 settembre 2015, dotato delle necessarie correzioni apportate il 29 settembre 2015, fu infine pubblicato nell'ottobre dello stesso anno. Conclusivamente sul punto, secondo il giudice di prima cura, la condotta criminosa delle due imputate si era snodata attraverso una sequenza di atti e, segnatamente 1 entrambe si erano adoperate per convincere C.M. a redigere un nuovo testamento, riuscendovi solo al secondo tentativo, il 18 settembre 2015, che veniva scritto di pugno da C.M. e nel quale erano inseriti lasciti in loro favore 2 entrambe, il 29 settembre 15, dopo la morte di C.M., avevano modificato il precedente testamento per renderlo il più conforme possibile agli appunti redatti da C.M. il 23 settembre 3 il testamento, così come modificato, era portato presso un notaio per la pubblicazione. 7.3. Rispetto a tale ricostruzione, il giudice di appello - come anticipato ha assolto entrambe le imputate dalla falsificazione di cui al capo c per l'insussistenza del fatto e, segnatamente, perché quel che l'imputata scrisse il 18/9 non aveva la sacralità di un testamento e tale avrebbe potuto diventare solo ove C.M. avesse consegnato il manoscritto a un notaio, dichiarando che quel documento conteneva le sue ultime volontà . La Corte ha poi confermato l'affermazione di responsabilità per il falso di cui al capo f per C.M., valorizzando le dichiarazioni confessorie della condotta materiale e l'obiettiva difformità rispetto alle ultime volontà del fratello del contenuto del testamento che, alla fine, fece pubblicare. Ha, invece, assolto F.G. a causa dell'inutilizzabilità delle dichiarazioni di chiamata in correità di C.M. che si era avvalsa, sul punto, della facoltà di non rispondere nel corso del giudizio di primo grado. 7.4. Osserva il Collegio come il ragionamento motivazionale svolto dal Giudice di secondo grado si esponga a un evidente profilo di censura che - come segnalato dal Procuratore ricorrente - attiene alla qualificazione giuridica del fatto quale reato di falso. 7.4.1. In via di premessa, avuto riguardo all'epoca di consumazione del reato contestato al capo c anno 2015 , vanno svolte alcune brevi osservazioni in ordine all'incidenza sul caso in esame dell'intervenuta abrogazione dell' art. 485 c.p. , da parte del D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, art. 1, lett. a . Il D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, art. 2, comma 1, lett. d , ha sostituito la precedente formulazione dell' art. 491 c.p. , secondo cui Se alcuna delle falsità prevedute dagli articoli precedenti riguarda un testamento olografo, ovvero una cambiale o un altro titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore, in luogo della pena stabilita per la falsità in scrittura privata nell' art. 485 c.p. , si applicano le pene rispettivamente stabilite nella prima parte dell' art. 476 c.p. e nell' art. 482 c.p. . Nel caso di contraffazione o alterazione di alcuno degli atti suddetti, chi ne fa uso, senza essere concorso nella falsità, soggiace alla pena stabilita nell' art. 489 c.p. per l'uso di atto pubblico falso . Secondo la nuova formulazione dell' art. 491 c.p. , la cui rubrica è ora intitolata Falsità in testamento olografo, cambiale o titoli di credito , invece, Se alcuna delle falsità prevedute dagli articoli precedenti riguarda un testamento olografo, ovvero una cambiale o un altro titolo di credito trasmissibile per girata o al portatore e il fatto è commesso al fine di recare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, si applicano le pene rispettivamente stabilite nella prima parte dell' art. 476 c.p. e nell' art. 482 c.p. . Nel caso di contraffazione o alterazione degli atti di cui al comma 1, chi ne fa uso, senza essere concorso nella falsità, soggiace alla pena stabilita nell' art. 489 c.p. per l'uso di atto pubblico falso . Non costituendo più reato la falsità in scrittura privata, in conseguenza della citata abrogazione dell' art. 485 c.p. non a caso, non più richiamato nel disposto dell' art. 491 c.p. , comma 1 , l'interrogativo sul come vada interpretata tale previsione normativa di nuovo conio è stato risolto dalla giurisprudenza di legittimità con l'affermazione del principio - che qui si condivide e ribadisce - che in tema di falso in scrittura privata, a seguito dell'abrogazione dell' art. 485 c.p. e della nuova formulazione dell' art. 491 c.p. , da parte del D.Lgs. n. 7 del 2016 , la rilevanza penale dell'attività di falsificazione ovvero utilizzazione dell'atto falso , realizzata secondo le modalità previste dagli articoli che precedono il predetto art. 491 c.p. , è circoscritta alle scritture private indicate da quest'ultimo testamento olografo, cambiale e titoli di credito trasmissibili per girata o al portatore , sempre che il fine avuto di mira dall'agente sia quello di recare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno Sez. 5, n. 25948 del 06/04/2017, Bertelli, Rv. 270287, fattispecie in tema di testamento olografo Sez. 5, n. 26812 del 10/02/2016, Cimino, Rv. 267291 . L'effetto abrogativo dell' art. 485 c.p. va pertanto precisato nel senso che esso opera nei confronti di tutte le scritture private diverse da quelle contemplate nell' art. 491 c.p. , comma 1, nella sua nuova formulazione, nonché nei confronti di queste ultime in tutti i casi in cui l'attività di falsificazione non sia sorretta dal dolo specifico di recare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno. 7.4.2. Ciò premesso, rileva il Collegio che la Corte di assise di appello incorre nell'erronea applicazione della legge penale allorché afferma che la condotta contestata al capo c non sarebbe suscettibile di integrare il reato di falso perché il documento redatto dalle imputate non aveva la sacralità del testamento e, comunque, non avrebbe potuto dispiegare i suoi effetti. È, invero, principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui integra il delitto di falso materiale in testamento olografo artt. 476 e 491 c.p. la redazione di un documento - apparentemente scritto di proprio pugno dal testatore - con l'aiuto materiale di altro soggetto che, ad esempio, gli guidi la mano in quanto, in tal caso, il documento non è formato, come prescritto dalla legge, esclusivamente dal de cuius e, quindi, non è olografo Sez. 5, n. 51709 del 06/10/2014, Benzi, Rv. 262118 Sez. 5, n. 5087 del 28/06/2005, dep. 2006, Bompani, Rv. 233628 ciò vale ancor più nel caso - come quello che ci occupa - di redazione dell'atto in absentia manus testatoris. Nè è suscettibile di incidere sull'applicazione di tale principio di diritto il fatto che, nel caso di specie, la pubblicazione del testamento sia stata preceduta da una ulteriore immutatio che, difatti, lungi dall'elidere la prima condotta di falso, integra a sua volta l'ulteriore reato di falso, autonomo e distinto, contestato al capo f . S'impone pertanto l'annullamento della sentenza impugnata, demandando al giudice del rinvio una nuova valutazione delle condotte accertate, conforme al principio di diritto sopraindicato. Tale scrutinio va, tuttavia, limitato alla posizione processuale di C.M. e non anche a quella di F.G. Ciò in quanto, come correttamente evidenziato dalla Corte di assise d'appello - la cui motivazione sul punto appare immune da vizi logici o giuridici - e come, peraltro, si legge nello stesso ricorso del Procuratore generale ed è ribadito nella memoria della difesa di F., il coinvolgimento di quest'ultima si fonda su una chiamata in correità svolta da C.M. nella fase delle indagini, mai ribadita nè in sede d'incidente probatorio, nè in dibattimento, in occasione del quale si è avvalsa della facoltà di non rispondere su tale punto nè F. ha mai prestato il consenso all'utilizzabilità nei suoi riguardi delle dichiarazioni accusatorie di C. Neppure, come si è osservato, sarebbe possibile fondare una condanna sulla dichiarazione resa da quest'ultima contra se nella parte in cui l'imputata ammette di aver affermato che se M. non avesse redatto di suo pugno il testamento esso sarebbe stato nullo , poiché tale isolata affermazione è insufficiente al fine di provare una condanna a titolo di concorso con C.M. 8. Il ricorso di C.M., in relazione alla condanna per il capo f dell'imputazione, deduce censure infondate e, come tale, va rigettato. 8.1. Non coglie nel segno il primo motivo con il quale si lamenta che il Giudice di appello avrebbe individuato, quale fine perseguito dall'imputata, quello di dare esecuzione alle ultime volontà del fratello cui si sostituì decidendo della sorte del suo patrimonio e che tale condotta sarebbe estranea all'imputazione, contemplante la sola finalità di arrecare un danno a C.G. E, infatti - come emerge dalla piana lettura del capo d'imputazione - la condotta è stata contestata al fine di trarne vantaggio, di far conseguire a terzi un vantaggio e, comunque, al fine di arrecare a C.G. un danno , sicché non vi è alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e condanna, ove si consideri che la sentenza impugnata p. 45 , ponendosi nel solco dell'imputazione, ha affermato che C.M. agì non per procurare a sé un vantaggio, perché la successione senza testamento l'avrebbe comunque avvantaggiata, ma per beneficiare coloro B., F., C. e […] che a tale successione erano estranei, contestualmente arrecando un danno alla madre . Del pari priva di pregio l'osservazione sul rapporto di alternatività sostanziale ricorrente tra le condotte di falsificazione e di uso di atto falso, che giusta la tesi difensiva - impedirebbe che, a fronte di una contestazione di alterazione di testamento , possa giungersi a una condanna per uso di atto falso . Tale osservazione, invero, muove da un'impropria interpretazione della giurisprudenza di legittimità che ha chiarito che Sussiste la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nel caso in cui l'imputato, al quale sia originariamente contestato il delitto di uso di testamento olografo falso, venga condannato per il reato di falso in detto documento, in quanto il reato di uso di atto falso si pone in rapporto di alternatività con quello di falso in testamento olografo, escludendo che l'imputazione avente ad oggetto il primo reato comporti la contestazione in fatto del secondo Sez. 5 n. 12599 del 20/12/2016, dep. 2017, Bevilacqua, Rv. 269708 . Non sussiste, al contrario, alcun difetto di correlazione tra la sentenza e l'accusa nell'opposto caso in cui l'imputato, al quale sia stata originariamente contestata la falsificazione materiale del documento, venga invece condannato per uso di atto falso Sez. 5, n. 42649 del 14/10/2004, Barlotti, Rv. 230265 . Ciò in quanto - come si legge in parte motiva - la condotta di uso di atto falso costituisce progressione criminosa delle condotte di falsificazione ed è pertanto punibile autonomamente solo se commessa da chi non abbia partecipato alla falsificazione o, comunque, per la falsificazione non sia punibile. Sicché al contraffattore viene, invece, contestata solo la contraffazione, anche quando abbia fatto pure uso del documento contraffatto . Ciò che è avvenuto nel caso che ci occupa, ove la contestazione contiene, peraltro, tanto la condotta di falsificazione, quanto quella di uso. Infine, per le ragioni già indicate al paragrafo 7.4.2. della presente sentenza, deve ribadirsi la manifesta infondatezza della tesi difensiva secondo la quale l'atto oggetto d'imputazione non avrebbe le caratteristiche per essere definito testamento olografo, trattandosi di una mera scrittura privata, come tale rientrante nell'alveo del diverso reato di cui all' art. 485 c.p. , non più previsto dalla legge come reato. 8.2. Infondato è anche il secondo motivo di ricorso che - traendo argomento dall'asserita contraddittorietà tra l'affermazione di responsabilità per la condotta di correzione del testamento avvenuta il 29 settembre 2015 e l'opposta pronuncia assolutoria per il capo c - non ha più alcuna ragion d'essere, essendo stato accolto il ricorso della Pubblica accusa proprio su tale pronuncia nei riguardi di C.M. In ogni caso si è già chiarito, al citato paragrafo 7.4.2., che le due condotte di falso, quella del 18 settembre e quella del 29 settembre, sono tra loro autonome e distinte. Il giudizio di penale responsabilità di C.M. in ordine al reato contestato al capo f - basato su una doppia conforme decisione di condanna è, dunque, irrevocabile ai sensi dell' art. 624 c.p.p. , commi 1 e 2. 9. Il sesto motivo di ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello è del pari fondato. La condotta materiale contestato al capo a costituisce fatto incontestato, siccome basato sulla confessione dell'imputata. C.M. ha, infatti affermato di aver profittato di una visita per salutare i colleghi del reparto di rianimazione dell'Ospedale di […], per impossessarsi clandestinamente di tre fiale di Midazolam, individuando il movente di quella condotta, risalente ad uno degli ultimi giorni del mese di agosto del 2015, nella preoccupazione di dover fronteggiare tempestivamente l'eventuale sindrome mediastinica cui il fratello, a causa del progredire del suo male, fosse andato incontro e che richiedeva l'immediata sedazione del malato, in attesa dell'arrivo dell'addetto alle cure palliative o del ricovero d'urgenza. Il Giudice di appello ha ritenuto di qualificare il fatto nel reato di cui all' art. 626 c.p. , comma 1, n. 2, ovverosia la sottrazione di cose di tenue valore per provvedere ad un grave ed urgente bisogno e ne ha affermato l'improcedibilità per difetto di querela. L'assunto, tuttavia, ancora una volta trascura qualsiasi confronto con l'articolata motivazione del giudice di primo grado che, avversando la pedissequa argomentazione svolta dalle difese, aveva posto in risalto come non vi fossero - al momento in cui C.M. agì - evidenze di un bisogno improcrastinabile del paziente, a tal fine richiamando il dato obiettivo delle condizioni di salute di C.M. che, all'epoca del furto la fine del mese di agosto , non aveva avuto ancora alcuna crisi respiratoria, nè era stato ancora attivato nei suoi riguardi il servizio di cure palliative ciò che era avvenuto nella prima decade di settembre, allorquando gli era diagnosticata la linfangite carcinomatosa . Al riguardo, è appena il caso di richiamare il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui Il furto lieve per bisogno è configurabile nei casi in cui la cosa sottratta sia di tenue valore e sia effettivamente destinata a soddisfare un grave e urgente bisogno ne consegue che, per far degradare l'imputazione da furto comune a furto lieve, non è sufficiente la sussistenza di un generico stato di bisogno o di miseria del colpevole, occorrendo, invece, una situazione di grave ed indilazionabile bisogno alla quale non possa provvedersi se non sottraendo la cosa Sez. 5, n. 32937 del 19/05/2014, Stanciu, Rv. 261658 Sez. 2, n. 42375 del 05/10/2012, Michelucci, Rv. 254348 . 10. La pronuncia impugnata dev'essere dunque annullata, con rinvio per nuovo giudizio sui capi e punti sin qui individuati, alla Corte di assise di appello di Milano, ai sensi dell' art. 623 c.p.p. , comma 1, lett. c , e art. 175 disp. att. c.p.p. , non essendo la Corte di assise di appello di Genova articolata in più sezioni. Il Giudice del rinvio nella propria valutazione rimanendo assorbito, nel disposto annullamento, il quarto motivo di ricorso del Procuratore generale - si atterrà ai principi di diritto sopra richiamati. Al rigetto del ricorso di C.M. consegue la condanna della stessa alle spese processuali. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di C.M. limitatamente ai capi A , C ed E e rinvia per nuovo giudizio su tali capi alla Corte di assise di appello di Milano. Rigetta il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Genova nei confronti di F.G. Rigetta il ricorso di C.M., che condanna al pagamento delle spese processuali. Dichiara irrevocabile il giudizio di penale responsabilità di C.M. in ordine al delitto di cui al capo f .