E-mail e messaggi WhatsApp per mantenere i contatti con l’ex compagno: condannata

Nessun dubbio sui tratti propri della petulanza nella condotta della donna, vista l’insistente intromissione da parte sua nella sfera privata dell’ex compagno a nulla rilevando, precisano i Giudici, che ciò fosse conseguenza della sofferenza per l’interruzione della relazione sentimentale.

Colpevole di molestie la donna che scrive messaggi a raffica all’ex compagno, spiegandogli di essere disperata – tanto da minacciare atti autolesionistici – per la rottura della loro relazione e di avere bisogno di un contatto con lui. Ricostruita, grazie ai racconti fatti dall’uomo e al materiale probatorio relativo a messaggi ed e-mail, la vicenda, i giudici del Tribunale ritengono Tizia colpevole di molestie ai danni di Caio, suo ex compagno. Nello specifico, è emersa la raffica di messaggi – di posta elettronica e tramite WhatsApp – che Tizia ha inviato all’uomo per manifestargli la propria disperazione per la fine della loro relazione e per esprimere la necessità – quasi fisica – di avere un contatto continuo con lui. A fronte di tali appelli, Caio ha sempre replicato in modo civile ma deciso, invitando l’ex compagna a prendere atto della rottura tra di loro. Per il legale che difende Tizia, però, non si può parlare di molestie, «non potendo rinvenirsi la genesi della condotta» tenuta dalla sua cliente «in biasimevoli motivi quanto, piuttosto, nei suoi gravi problemi psicologici e nella sua incapacità di rielaborare emotivamente il dolore derivante dalla fine della relazione» con Caio. Sempre ragionando in questa ottica poi, il legale sostiene che il comportamento della sua cliente «non è riconducibile a mera petulanza, dal momento che la persona offesa», cioè Caio, «aveva comunque risposto alle e-mail inviategli, ed anzi la reciprocità delle comunicazioni esclude l’illiceità della condotta della donna». In ultima battuta poi, il legale si gioca la carta della non punibilità, presentando come non particolarmente grave il comportamento della sua cliente. Per i Giudici di Cassazione, però, acclarato il quadro probatorio e ricostruita nei dettagli la vicenda, è palese la responsabilità penale di Tizia. Innanzitutto, viene sottolineato che sì «il reato di molestia non è necessariamente abituale, potendo essere realizzato anche con una sola azione di disturbo o di molestia, purché ispirata da biasimevole motivo o avente il carattere della petulanza» ma, viene aggiunto, «tale reato è generalmente caratterizzato dalla reiterazione dei comportamenti, sicché, in tale evenienza, deve ritenersi esclusa l’applicazione della causa di non punibilità» prevista dall’articolo 131-bis del Codice Penale. E nella vicenda in commento è evidente come «la condotta posta in essere dalla donna sia stata caratterizzata dalla reiterazione di condotte giudicate moleste invio di messaggi e di e-mail, oltre appostamenti » e quindi «incompatibili con la causa di esclusione della punibilità». Evidente poi come la donna abbia agito «per biasimevoli motivi e per petulanza», aggiungono i Magistrati. Su questo fronte viene sottolineato che «le condotte moleste» ai danni di Caio «erano consistite anche nel ripetuto invio di e-mail, che evidenziavano, con atteggiamenti autolesionistici e imploranti, la disperazione della donna per l’abbandono da parte del compagno e il bisogno continuo di intrattenere un contatto con lui». Nessun dubbio, quindi, sui «tratti propri della petulanza» nella condotta della donna, vista «l’insistente intromissione da parte sua nella sfera privata dell’ex compagno», a nulla rilevando, aggiungono i Giudici, che «ciò fosse conseguenza della sofferenza della donna per l’interruzione della relazione sentimentale». Per chiudere il cerchio, infine, i Giudici aggiungono che, a differenza di quanto sostenuto dalla difesa, «non risulta in alcun modo che le molestie fossero reciproche», poiché Caio «nel rispondere alle e-mail e ai messaggi dell’ex compagna, la esortava ad interrompere le molestie, sia pure con toni duri e freddi, che non possono certo qualificarsi come condotte moleste».  

Presidente Boni – Relatore Mele Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 14 aprile 2021, il Tribunale di Piacenza, all’esito di giudizio abbreviato, ha ritenuto C.M. colpevole della contravvenzione di cui all’articolo 660 c.p., così riqualificato il reato di cui all’articolo 612-bis c.p. originariamente contestato, condannandola alla sola pena dell’ammenda nella misura di Euro 250,00. 2. Avverso tale sentenza, l’imputata ha proposto impugnazione avanti alla Corte d’appello di Bologna, deducendo la nullità della sentenza per contraddittorietà della motivazione, dal momento che il Tribunale, pur avendo affermato di condividere le conclusioni del consulente della difesa, il quale aveva espresso dubbi sulla autenticità del contenuto di copie cartacee degli screen shot di WhatsApp e delle e-mail, ha poi fondato il giudizio di responsabilità soltanto su tali elementi. Si lamenta, inoltre, la totale assenza di motivazione in ordine alle ragioni per cui non è stata ritenuta applicabile la causa di esclusione della punibilità di cui all’articolo 131-bis c.p. Nel merito, la difesa contesta la sussistenza del reato di cui all’articolo 660 c.p., non potendo rinvenirsi la genesi della condotta dell’imputata in biasimevoli motivi quanto, piuttosto, nei gravi problemi psicologici della stessa e nella sua incapacità di rielaborare emotivamente il dolore derivante dalla fine della relazione. Il comportamento della C., inoltre, non sarebbe riconducibile a mera petulanza dal momento che la persona offesa aveva comunque risposto alle mail inviategli, ed anzi la reciprocità delle comunicazioni escluderebbe l’illiceità del comportamento dell’imputata. In subordine, la difesa ha chiesto l’applicazione dell’articolo 131-bis c.p., ricorrendone le condizioni. 3. La Corte d’appello di Bologna, con ordinanza in data 12 settembre 2022, rilevato che la C. era stata condannata alla sola pena dell’ammenda, ai sensi dell’articolo 568 c.p.p., comma 5 e articolo 593 c.p.p., dichiarava inappellabile la sentenza del Tribunale di Piacenza e disponeva la trasmissione degli atti a questa Corte. 4. Il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. 5. Con memoria ex articolo 611 c.p.p., comma 1, l’imputata ha reiterato le censure proposte con l’atto di appello. Considerato in diritto 1. Il ricorso è nel complesso infondato e deve essere rigettato. 2. Preliminarmente si osserva che correttamente la Corte d’appello di Bologna ha qualificato l’impugnazione avanti ad essa proposta avverso la sentenza di primo grado come ricorso, disponendone la trasmissione a questa Corte ai sensi dell’articolo 568 c.p.p., comma 5. Il Tribunale di Piacenza, previa riqualificazione del fatto contestato, aveva infatti condannato l’imputata alla sola pena dell’ammenda, sicché tale sentenza, ai sensi dell’articolo 593 c.p.p., comma 3, era inappellabile V. Sez. 2, numero 7042 del 12/01/2021, Rv. 280884, in motivazione . 3. Il vizio di motivazione è infondato, sotto entrambi i profili in cui è dedotto. 3.1. Deve rammentarsi che, secondo il costante insegnamento di questa Corte, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante , su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che attaccano la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento Sez. 2, numero 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747 Sez. 6, numero 13809 del 17/03/2015, O., Rv. 262965 . Costituisce principio consolidato quello per cui in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito Sez. 6 numero 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601 . La valutazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, invero, costituisce attività riservata esclusivamente al giudice di merito, potendo riguardare il giudizio di legittimità solo la verifica dell’iter argomentativo di tale giudice, accertando se quest’ultimo abbia o meno dato conto adeguatamente delle ragioni che lo hanno condotto ad emettere la decisione ex plurimis, Sez. 6, numero 1354 del 14/04/1998, Kurzeja, Rv. 210658 . 3.2. Nella specie, il Tribunale di Piacenza ha motivato in modo adeguato, non illogico nè contraddittorio, le ragioni della sua ricostruzione del fatto ed i motivi per cui ha dato rilievo al contenuto delle mail intercorse tra l’imputata e la persona offesa. Ha infatti rilevato che, benché - come affermato dal consulente di parte i dati provenienti dalle mail possano essere modificati tuttavia, essi risultavano perfettamente coerenti con quanto riferito dalla persona offesa. La conclusione su cui la sentenza impugnata ha fondato la propria valutazione, dunque, discende in ultima analisi dalle dichiarazioni della vittima, di cui la ricorrente non ha in alcun modo contestato l’attendibilità. 4. La censura concernente l’omessa motivazione in ordine alla mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’articolo 131-bis c.p., è infondato trattandosi di istanza inammissibile, dal momento che detta causa di non punibilità non è applicabile ai reati con una condotta abituale o reiterata, a mente del comma 3 della disposizione richiamata. 4.1. Benché, secondo il costante orientamento di legittimità, il reato di molestia di cui all’articolo 660 c.p. non sia necessariamente abituale, potendo essere realizzato anche con una sola azione di disturbo o di molestia, purché ispirata da biasimevole motivo o avente il carattere della petulanza Sez. 1, numero 3758 del 07/11/2013 dep. 2014, Moresco, Rv. 258260 , tale reato è generalmente caratterizzato dalla reiterazione dei comportamenti, sicché, in tale evenienza, deve ritenersi esclusa l’applicazione della causa di non punibilità di cui all’articolo 131-bis c.p. La giurisprudenza di legittimità ha affermato che la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’articolo 131-bis c.p., non può essere applicata ai reati necessariamente abituali e a quelli eventualmente abituali che siano stati posti in essere mediante reiterazione della condotta tipica Sez. 7, numero 13379 del 12/01/2017, Boetti, Rv. 269406 . 4.2. Nel caso di specie, il giudice di merito ha evidenziato che la condotta posta in essere dalla ricorrente, era caratterizzata dalla reiterazione di condotte giudicate moleste invio di messaggi, di e-mail, appostamenti , sicché correttamente, seppure con motivazione implicita, ha ritenuto incompatibili le caratteristiche del reato con la causa di esclusione della punibilità in parola. Benché non sia stata stesa una specifica motivazione in risposta all’istanza difensiva di applicazione dell’articolo 131-bis c.p., dalla complessiva ricostruzione dei fatti e dalle caratteristiche della condotta, specificamente descritte nella sentenza impugnata, risulta evidente che non ne ricorrevano i presupposti. Il provvedimento impugnato risulta pertanto legittimo, atteso che, secondo questa Corte, l’assenza dei presupposti per l’applicabilità della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto può essere rilevata anche con motivazione implicita Sez. 5, numero 24780 del 08/03/2017, Tempera, Rv. 270033 v. altresì, Sez. 1, numero 1523 del 05/11/2018, dep. 2019, Morreale, Rv. 274794 Sez. 4, numero 5396 del 15/11/2022, dep. 2023, Rv. 284096 - 01 . 5. Infondato è altresì il motivo con cui si deduce l’insussistenza del reato di cui all’articolo 660 c.p. non avendo agito la C. nè per biasimevoli motivi, nè per petulanza. La ricorrente ignora che le condotte moleste, secondo quanto esposto nella sentenza impugnata, che ha valorizzato la deposizione della persona offesa, erano consistite anche nel ripetuto invio di e-mail, le quali evidenziavano la disperazione della donna per l’abbandono da parte del compagno e il bisogno continuo di intrattenere un contatto con lui, con atteggiamenti autolesionistici e imploranti . Correttamente in tale condotta il giudice di merito ha riconosciuto i tratti propri della petulanza per l’insistente intromissione da parte dell’imputata nella sfera privata del denunciante, a nulla rilevando che ciò fosse conseguenza della sofferenza per l’interruzione della relazione sentimentale. La sentenza al riguardo offre corretta applicazione dei principi interpretativi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo i quali l’atto, per essere molesto, deve non soltanto risultare sgradito a chi lo riceve, ma deve essere anche ispirato da biasimevole, ossia riprovevole, motivo oppure rivestire il carattere della petulanza, che consiste in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire sgradevolmente nella sfera privata di altri Sez. 1, Sez. 1, Sentenza numero 6064 del 06/12/2017, dep. 2018, Girone, Rv. 272397 Sez. 1, numero 6908 del 24/11/2011, Zigrino, Rv. 252063 Sez. 1, numero 29933 del 08/07/2010, Arena, Rv. 247960 . D’altra parte, a differenza di quanto sostenuto dalla difesa, non risulta in alcun modo che le molestie fossero reciproche, avendo il tribunale dato atto del fatto che la persona offesa, nel rispondere alle mail e ai messaggi dell’imputata, la esortava ad interrompere le molestie, sia pure con toni duri e freddi, le quali non possono certo qualificarsi come condotte moleste. 6. La carenza dei presupposti della causa di non punibilità di cui all’articolo 131-bis c.p. sopra evidenziata, ne preclude anche in questa sede il riconoscimento. 7. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.