Beni sottratti dal negozio: il dipendente storico è colpevole di furto

Impossibile, secondo i Giudici, parlare di mera appropriazione indebita. Irrilevanti i compiti affidati dal titolare dell’esercizio commerciale al lavoratore, ossia potere di applicare sconti e di accettare pagamenti rateali dalla clientela e incarico di provvedere alla chiusura della cassa e alla consegna degli incassi.

Impossibile catalogare come mera appropriazione indebita, e non come furto, l’azione con cui il dipendente di una gioielleria si è impossessato di orologi e gioielli – oltre che di contanti – tenendoli per sé o vendendoli in modo illecito e, ovviamente, trattenendo il denaro ricavatone. Scenario della vicenda è una gioielleria che ha sede in Emilia-Romagna. Il titolare si rende conto, nel corso del tempo, del costante ammanco di denaro e della scomparsa di orologi e gioielli . Rapide e approfondite verifiche gli consentono di individuare il colpevole, cioè il dipendente che lavora da anni nel suo negozio e che proprio grazie alla lunga durata del rapporto di lavoro ha acquisito sempre maggiore peso specifico, come certificato dal potere, concessogli dal titolare, di applicare sconti e accettare pagamenti rateali dalla clientela e dall’essere lui deputato alla chiusura della cassa e alla consegna degli incassi , sempre su indicazione del titolare. Tutti questi dettagli, però, non consentono, secondo i giudici di merito, di catalogare le condotte del lavoratore come mera appropriazione indebita. Di conseguenza, sia in primo che in secondo grado, il dipendente della gioielleria viene ritenuto colpevole del reato di furto . Col ricorso in Cassazione, però, il legale che difende il lavoratore sottolinea che il suo cliente era un dipendente storico della gioielleria , aveva il potere di applicare sconti e di accettare pagamenti rateali dalla clientela ed era deputato alla chiusura della cassa e alla consegna degli incassi e sostiene che in considerazione di tali elementi, non può essere messo in dubbio che il lavoratore avesse il possesso dei beni sottratti, essendo titolare, su di essi, di un autonomo potere di disposizione . Chiaro l’obiettivo del legale vedere ridimensionata l’accusa, cioè da furto a mera appropriazione indebita. Per i Giudici di Cassazione, però, la tesi difensiva è fragile, poiché i compiti che erano stati assegnati dal titolare della gioielleria al dipendente non attribuiscono, di per sé, un autonomo potere dispositivo sui beni , in quanto quei compiti vengono normalmente attribuiti a un dipendente, che li svolge sotto le direttive del titolare dell’esercizio commerciale . Impossibile, quindi, parlare di appropriazione indebita. Sacrosanta, perciò, condannare il lavoratore per il reato di furto. Anche tenendo presente che ai fini della delimitazione dei confini tra il reato di furto e quello di appropriazione indebita possono rientrare nella nozione di possesso vari casi di detenzione, ma deve comunque trattarsi di detenzione in nomine proprio e non in nomine alieno, come in tutti i casi di persone che abbiano la disponibilità materiale della cosa ad altri appartenente in virtù del rapporto di dipendenza che le lega al titolare del diritto sulla cosa.

Presidente Pezzullo – Relatore Cirillo Ritenuto in fatto 1. La sentenza impugnata è stata pronunziata il 26 aprile 2022 dalla Corte di appello di Bologna, che ha confermato la sentenza del Tribunale di Bologna che aveva condannato P.D. per il reato di furto aggravato così diversamente qualificando l'originaria imputazione di appropriazione indebita . Secondo l'ipotesi accusatoria, ritenuta fondata dai giudici di merito, l'imputato - nella qualità di commesso della gioielleria omissis s.r.l. - si sarebbe impossessato di orologi, denaro e gioielli, o asportandoli dal negozio presso il quale lavorava o vendendoli a terzi, senza versare in cassa il corrispettivo incamerato. 2. Avverso la sentenza della Corte di appello, l'imputato ha proposto ricorso per cassazione a mezzo del difensore di fiducia. 2.1. Con un primo motivo, deduce il vizio di erronea applicazione della legge penale, in relazione all' art. 521 c.p.p. Rappresenta che il giudice di primo grado aveva riqualificato in furto l'originaria imputazione di appropriazione indebita la diversa qualificazione giuridica del fatto non era stata mai prospettata all'imputato nel corso dell'intero procedimento. Tanto premesso, il ricorrente sostiene che la riqualificazione giuridica del fatto operata dal giudice di primo grado avrebbe determinato una lesione della garanzia del contraddittorio e una violazione dei principi affermati in materia dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Corte EDU. 2.2. Con un secondo motivo, deduce i vizi di motivazione di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 624 e 646 c.p.p. Contesta la qualificazione giuridica del fatto come furto, sostenendo che dovrebbe ritenersi integrato il diverso reato di appropriazione indebita. Al riguardo, evidenzia che l'imputato era un dipendente storico della gioielleria, aveva il potere di applicare sconti, di accettare pagamenti rateali dalla clientela ed era deputato alla chiusura della cassa e alla consegna degli incassi. In considerazione di tali elementi, a parere del ricorrente, non potrebbe essere messo in dubbio che l'imputato avesse il possesso dei beni sottratti, essendo titolare di un autonomo potere di disposizione degli stessi. 3. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte, ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso. 4. L'avv. Marco Zanotti, per la parte civile, ha depositato memoria scritta con la quale ha chiesto di rigettare il ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. 1.1. Il primo motivo è manifestamente infondato. Al riguardo, va ricordato che, in tema di correlazione tra accusa e sentenza, la diversa qualificazione del fatto effettuata dal giudice di merito non determina alcuna compressione o limitazione del diritto al contraddittorio - anche alla luce del principio affermato da Corte EDU 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia essendo consentito all'imputato di contestarla nei successivi gradi di giudizio cfr. Sez. 6, n. 422 del 19/11/2019, Calvanese, Rv. 278093 . Ebbene, nel caso in esame, la riqualificazione è stata operata in primo grado e, dunque, l'imputato ha avuto ben due gradi di giudizio per contestarla. E, infatti, l'ha concretamente contestata sia in appello che con il ricorso per cassazione. Senza contare che, come rilevato dalla Corte di appello, non era vero che la diversa qualificazione giuridica non era stata mai prospettata nel corso dell'intero procedimento, atteso che, nella querela presenta dalla persona offesa acquisita ai sensi dell' art. 512 c.p.p. , i fatti erano stati ricondotti proprio l'ipotesi delittuosa del furto. 1.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato. Al riguardo, va ricordato che ai fini della delimitazione dei confini tra il reato di furto e quello di appropriazione indebita, possono rientrare nella nozione di possesso vari casi di detenzione, ma deve comunque trattarsi di detenzione nomine proprio e non in nomine alieno , come in tutti i casi di persone che abbiano la disponibilità materiale della cosa ad altri appartenente in virtù del rapporto di dipendenza che le lega al titolare del diritto Sez. 2, n. 4853 del 20/12/1993, Balzaretti, Rv. 197781 Sez. 5, n. 31993 del 05/03/2018, Franceschino, Rv. 273639 Sez. 5, n. 37419 del 21/06/2021, Manoliu, Rv. 281873 . Quanto alle circostanze evidenziate dal ricorrente relative al fatto che l'imputato aveva il potere di applicare sconti, di accettare pagamenti rateali, di chiudere la cassa e di consegnare gli incassi , va rilevato che esse, di per sé, non attribuiscono un autonomo potere dispositivo sui beni, in quanto relative alle mansioni che normalmente vengono attribuite a un dipendente, che le svolge sotto le direttive del titolare dell'esercizio commerciale. 2. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione, consegue, ai sensi dell' art. 616 c.p.p. , la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle Ammende, che deve determinarsi in Euro 3.000,00. Il ricorrente, altresì, è tenuto alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente grado di giudizio dalla costituita parte civile, che vanno liquidate complessivamente in Euro 3.600,00, oltre accessori di legge. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 3.600,00, oltre accessori di legge.