E’ possibile chiedere l’uso del cognome dell’ex coniuge nel procedimento di divorzio?

Al quesito risponde la Cassazione con ordinanza n. 24111 resa dalla Prima Sezione civile in data 8 agosto 2023. La domanda di autorizzazione alla conservazione del cognome maritale, in quanto diversa ed autonoma rispetto alla domanda di scioglimento del matrimonio e connotata da un diverso interesse ad agire può essere decisa separatamente dalla domanda sullo status .

La vicenda trova la sua genesi all'interno di un ordinario giudizio di divorzi o tra le parti, nel quale la moglie chiedeva, oltre allo scioglimento del matrimonio, anche l'autorizzazione a continuare ad usare il cognome del marito . Il giudice pronunciava sentenza non definitiva di scioglimento del matrimonio, rimettendo la causa in istruttoria per le restanti domande. Avverso tale pronuncia proponeva appello la moglie, lamentando la nullità dell'atto in quanto - a suo parere - la pronuncia sullo status non poteva essere scissa dall'autorizzazione a portare il cognome del marito . La Corte d'appello rigettava il gravame, condividendo la decisione del giudice di prime cure. La ricorrente propone dunque ricorso in Cassazione, insistendo nell'accoglimento della propria domanda. Per risolvere la questione, il Collegio propone una trama argomentativa che ripercorre l'impianto originario del Codice Civile, nel quale la moglie assumeva il cognome del marito , così perdendo il tratto della propria identità familiare ed acquistandone un altro. Solo con la riforma del diritto di famiglia del 1975 e con l'introduzione dell' art. 143 bis c.c. , la moglie conserva il proprio cognome e vi aggiunge quello del marito, infatti secondo i magistrati il cognome aggiunto diviene così segno distintivo non già della persona nella sua interezza, ma della relazione matrimoniale . Con il divorzio, non essendovi più una relazione matrimoniale da manifestare all'esterno, consegue la perdita del diritto all'utilizzazione del cognome del marito, a meno che persista un interesse meritevole di tutela Cass. civ., n. 654/2022 . Sulla base di tali premesse, la domanda di divorzio e la domanda di conservazione del cognome sono due domande diverse , fondate su diversi presupposti e dirette ad ottenere beni della vita diversi . E' dunque condivisibile il ragionamento logico - giuridico adottato dai giudici di merito, in quanto, trattandosi di domande diverse, le relative decisioni sono scindibili, e nulla osta a che la questione della conservazione del cognome venga decisa, come correttamente hanno ritenuto entrambi i giudici di merito, dopo la sentenza sullo status . Alla luce delle evidenze rappresentate, la Corte rigetta il ricorso.

Presidente Di Marzio Relatore Russo Rilevato che Nel giudizio di divorzio tra le parti G. ha chiesto l'autorizzazione a continuare ad usare il cognome del marito il Tribunale si è pronunciato con sentenza non definitiva di scioglimento del matrimonio, rimettendo la causa in istruttoria per le restanti domande. G. ha appellato la sentenza resa sullo status, deducendone la nullità, in quanto non poteva scindersi dalla decisione sull'autorizzazione a portare il cognome di marito. La Corte d'appello ha ritenuto infondato il gravame, rilevando che la possibilità di separata prosecuzione del processo, testualmente prevista solo per l'ipotesi in cui debba essere accertata la spettanza o la quantificazione dell'assegno di divorzio, è stata ritenuta applicabile, per giurisprudenza costante, anche ai casi in cui restino ancora da definire ulteriori aspetti diversi dal contributo economico, quali l'assegnazione della casa familiare, e tra essi può includersi anche la questione relativa all'utilizzo del cognome del marito da parte della moglie, tanto più che la pronuncia di divorzio costituisce l'antecedente logico e giuridico della possibilità di protrarre l'utilizzo del cognome del marito, facoltà che presuppone il riconoscimento dello status di coniuge divorziato. Avverso la predetta sentenza ha proposto per ricorso per cassazione G. , affidandosi un motivo. Si è costituito con controricorso C. , successivamente depositando memoria. La causa è stata trattata all'udienza camerale non partecipata del 7 giugno 2023. Ragioni della decisione 1. Con il primo e unico motivo del ricorso si lamenta la nullità della sentenza, ai sensi dell' art. 360 c.p.c. , n. 4 in relazione alla L. 1 dicembre 1970, n. 898, artt. 4, comma XII e 5, comma III, nonché all'art. 12 delle disp. gen La ricorrente deduce che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello, la decisione con cui il Tribunale di Siena ha ritenuto possibile scindere la pronuncia di divorzio da quella concernente l'uso del cognome, e, di conseguenza, anche la sentenza di appello, sono affette da nullità, poiché la questione del cognome non ha carattere accessorio, ma concorre a definire lo status personale del coniuge. Infatti, con la pronuncia di divorzio si verifica ipso iure la perdita del cognome, con conseguente annotazione sui registri dello stato civile. Per evitare tale situazione il citato art. 5 comma III dispone testualmente che con la sentenza che pronuncia il divorzio possa essere concessa l'autorizzazione in esame. La inscindibilità delle pronunce in questione, deriverebbe, secondo la ricorrente, dalla interpretazione letterale della norma, che impone la simultaneità delle statuizioni aventi per oggetto lo status coniugale e l'autorizzazione all'uso del cognome. Controparte contesta, in via preliminare, la ammissibilità del ricorso per sopravvenuta mancanza di interesse ad impugnare ai sensi dell' art. 100 c.p.c. , deducendo nelle more è proseguita l'istruttoria sulla domanda relativa all'uso del cognome del marito avanzata dalla controparte e che è stata pronunciata sentenza di rigetto sul punto. 2. Il motivo è infondato. Preliminarmente si osserva che, pur se il Tribunale di Siena ha respinto -secondo quanto deduce il controricorrente nella sua memoria la domanda di mantenimento del cognome, non può dirsi che sia venuto meno l'interesse della ricorrente al presente giudizio, il cui oggetto è la nullità della sentenza sullo status in quanto nella prospettazione della parte sarebbe inscindibile dalla decisione sul cognome. Il ricorso è tuttavia infondato nel merito. Deve qui osservarsi che il cognome è un tratto identitario della persona, conseguente al possesso di uno status familiare, e che di regola, ma non necessariamente, coincide con esso Corte Cost. 13/1994 . Status e cognome sono due distinte attribuzioni della persona, posto che il primo definisce la condizione giuridica di una persona all'interno di una struttura sociale, mentre il secondo è un tratto identitario e individua in primo luogo l'appartenenza alla famiglia di origine, collegando l'individuo alla formazione sociale che lo accoglie tramite lo status filiationis, radicandosi nell'identità familiare e, al contempo, riflette la funzione che riveste, anche in una proiezione futura, rispetto alla persona Corte Cost. 131/2022 . Nel tempo esso diviene infatti sempre di più un connotato della identità personale ed individuale, che costituisce un bene in sé, indipendentemente dalla condizione familiare e sociale. Nell'impianto originario del codice civile la moglie assumeva il cognome del marito, così perdendo il tratto della propria identità familiare ed acquistandone un altro. Con il riconoscimento della pari dignità giuridica dei coniugi, la riforma del diritto di famiglia del 1975 ha introdotto nel codice civile l'art. 143 bis , a mente del quale la moglie conserva il proprio cognome e vi aggiunge quello del marito. Il cognome aggiunto diviene così segno distintivo non già della persona nella sua interezza, ma della relazione matrimoniale. La relazione tra status coniugale e cognome maritale si configura pertanto come un rapporto tra significato e significante, manifestando all'esterno il vincolo coniugale, con particolare rilievo nella dimensione sociale della persona, mentre è di scarsa se non nulla importanza nella vita professionale. Lo status matrimoniale sussiste a prescindere dalla utilizzazione che la donna faccia del cognome del marito e si manifesta anche attraverso altri significanti il cognome maritale, in particolare, è un significante legato ad usi sociali che si radicano nel regime normativo antecedente alla riforma del diritto di famiglia del 1975. La perdita del diritto all'utilizzazione del cognome del marito è una conseguenza della perdita dello status, e cioè del divorzio, non essendovi più una relazione matrimoniale da manifestare all'esterno, salvo che in via eccezionale la donna venga autorizzata a portare il cognome del marito, solo ove persista un interesse meritevole di tutela Cass. n. 654 del 11/01/2022 . 3. Quanto sopra premesso rende evidente che la domanda di divorzio e la domanda di conservazione del cognome sono due domande diverse, fondate su diversi presupposti e dirette ad ottenere beni della vita diversi. La pronuncia di divorzio viene resa quando -ricorrendone i presupposti di legge si accerti che la comunione materiale morale di vita tra i coniugi non può essere ricostituita, e ciò a prescindere dal fatto che si riconosca o meno un interesse meritevole di tutela da parte della donna a mantenere il cognome del marito. La parte che propone domanda di divorzio ha interesse ad ottenere lo stato libero, e quella che eventualmente resiste ha interesse a mantenere lo stato matrimoniale. Di contro, la domanda di mantenere il cognome prospetta il diverso interesse a conservare un tratto identificativo che, a prescindere dalla sua corrispondenza allo status, è divenuto un bene in sé. Le ragioni per cui si chiede la tutela di questo bene devono essere attentamente vagliate dalla autorità giudiziaria, posto che non possono coincidere con il mero desiderio di conservare come tratto identitario il riferimento a una relazione familiare ormai chiusa ma è indubitabile che l'autorizzazione eventualmente data a mantenere detto cognome non faccia venire meno lo stato di coniuge divorziato, rappresentando una di quelle ipotesi eccezionali in cui lo status non coincide con il cognome. La divergenza in questo caso è attenuata dal fatto che il principale tratto identificativo della persona è comunque dato dal cognome familiare che si acquista alla nascita ovvero con il conseguimento di uno status filiationis e si conserva per tutta la vita, e che nella fattispecie non si tratta di mutare o conservare il cognome primario, ma soltanto quello eventualmente aggiunto al proprio. Trattandosi di domande diverse, le relative decisioni sono scindibili, e nulla osta a che la questione della conservazione del cognome venga decisa, come correttamente hanno ritenuto entrambi i giudici di merito, dopo la sentenza sullo status, unitamente alle altre questioni pendenti tra le parti che richiedano un'ulteriore istruttoria, e per le quali il processo può proseguire dopo la sentenza non definitiva di divorzio Cass. 9416/2010 Cass. n. 20666/2017 . Vero è che il comma III dell' art. 5 della L. n. 898 del 1970 dispone che Il tribunale, con la sentenza con cui pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, può autorizzare la donna che ne faccia richiesta a conservare il cognome del marito ma la norma deve essere letta coordinandola con il disposto della L. n. 898 del 1970, comma XII dell'art. 4, ratione temporis applicabile a mente del quale nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell'assegno, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio . Per costante orientamento di questa Corte il comma XII dell'art. 4 cit. non costituisce una deroga, ma un'ipotesi di applicazione del principio generale di cui all' art. 277 c.p.c. , comma 2, e pertanto può estendersi ad ogni caso in cui restino ancora da definire non soltanto la spettanza o quantificazione dell'assegno di divorzio, ma anche tutte le altre questioni pendenti tra le parti che richiedano un'ulteriore istruttoria ciò in quanto la norma risponde alla esigenza di garantire sollecite definizioni in ordine allo status, e di contrastare eventuali condotte dilatorie. Rispetto alla disciplina generale prevista dall' art. 277 comma II c.p.c. la norma non restringe i poteri del giudicante, anzi li estende, poiché non richiede l'istanza di parte, presupponendo una valutazione generale ed astratta della rispondenza della pronuncia all'interesse delle parti, ed anche pubblico, della certezza dello status. La domanda di autorizzazione alla conservazione del cognome maritale, in quanto diversa ed autonoma rispetto alla domanda di scioglimento del matrimonio e connotata da un diverso interesse ad agire, ben può, quindi, essere decisa separatamente dalla domanda sullo status. Questi stessi principi sono stati richiamati e correttamente applicati dalla Corte d'appello di Firenze, rendendone conto nella motivazione della sentenza impugnata, che resiste, pertanto, alla censura della parte. Ne consegue il rigetto del ricorso. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, Euro 200,00 per spese non documentabili, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 , comma 1 quater, inserito dalla l. n. 228 del 2012, art. 1 , comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.