Raccoglie su Facebook i dati di donne single e li vende online come elenco: condanna inevitabile

Palese l’illecito trattamento di dati personali realizzato dall’imputato. Irrilevante, chiariscono i giudici, il fatto che i dati fossero stati resi pubblici sul social network direttamente dalle utenti.

È violazione della privacy estrapolare da Facebook i dati di numerose persone per realizzare un elenco da vendere. A confermarlo è la condanna emessa nei confronti di chi, sul noto social network, aveva recuperato i dati di oltre mille single , tutte residenti nella stessa città e li ha utilizzati per creare un e-book da vendere a uomini a caccia di avventure . Scenario della vicenda è la provincia lombarda. Protagonista è un uomo che utilizza Facebook per raccogliere i riferimenti di oltre mille single tutte appartenenti alla stessa città e poi impiegarli per creare un e-book vendibile ad uomini in caccia di donne disponibili per avventure di una notte. Le vendite dell’e-book costano parecchio all’uomo, poiché i clienti hanno cominciato a contattare alcune single per proporre loro appuntamenti a sfondo sessuale. Questi improvvisi e sgradevoli approcci hanno messo in allarme le vittime, che hanno presto scoperto l’elenco online. Partono quindi le segnalazioni alle forze dell’ordine che giungono all’individuazione del soggetto che ha raccolto i dati su Facebook e che così si ritrova sotto processo per violazione della privacy delle donne inserite nell’elenco incriminato. Per i giudici di merito non ci sono dubbi l’imputato è ritenuto colpevole, sia in primo che in secondo grado, di trattamento illecito di dati personali e di diffamazione . Per la difesa, però, la decisione presa dai giudici d’appello è eccessiva, soprattutto perché egli si è limitato ad utilizzare una funzionalità di Facebook per mettere insieme dati - in particolare, lo stato di single di varie donne - che le donne hanno autonomamente pubblicato sul social network, senza apporre alcuna restrizione . Secondo il legale, quindi, l’uomo ha usato quei dati per una finalità compatibile con quella per cui le donne presenti su Facebook avevano prestato il consenso , sin dall’inizio, sulla medesima piattaforma e gli stessi dati, peraltro, sarebbero stati accessibili a chiunque , anche non iscritto al social network, mediante una semplice ricerca di nome e cognome su qualunque motore di ricerca online . In altri termini, secondo il legale, l’aver prestato il consenso all’utilizzo dei dati su Facebook, con modalità aperte e senza restrizioni, li ha resi disponibili a chiunque avesse avuto a disposizione una connessione internet . A margine, poi, il legale contesta anche l’ipotesi relativa alla diffamazione attribuita al suo cliente. Egli sostiene, a tal proposito, che le persone offese non hanno subito un effettivo pregiudizio , anche perché la qualifica di single non contiene in sé alcuna accezione negativa, così come lo slogan - Al costo di un drink - con cui la pubblicazione dell’elenco era stata accompagnata . A fronte delle obiezioni difensive, i Giudici di Cassazione ribattono richiamando la condotta posta in essere dall’imputato, ossia la realizzazione e la messa in vendita , su un sito di e-book, di un elenco di 1.218 donne, tutte qualificatesi sul social network Facebook come single e come residenti nello stesso Comune. Tale elenco, contenente nome, cognome, Comune di residenza, immagine e status sentimentale , era stato creato attraverso una funzionalità della piattaforma online, che consentiva di effettuare una ricerca tra gli iscritti, utilizzando determinati filtri . Questo elenco, poi venduto, conteneva anche un link per ciascuna delle vittime raffigurate con fotografia e link con cui si rimandava direttamente al profilo Facebook di riferimento. Ci si trova di fronte a dati personali raccolti illecitamente , secondo i giudici, anche perché non regge la tesi secondo cui sarebbero state le stesse donne coinvolte a consentire preventivamente l’estrazione dei dati in esame, per il sol fatto di averli loro stesse inseriti sul social network senza limitazioni di accesso e, dunque, rendendoli visibili a chiunque . I giudici annotano poi che il ricorrente non si era limitato a ricercare sulla piattaforma i riferimenti di donne single residenti nello stesso territorio comunale, ma, all’insaputa di queste, li aveva estrapolati, catalogati e - fotografie alla mano - ne aveva fatto un elenco , messo in vendita online . Evidente, dunque, l’indebito trattamento di dati personali , anche perché se è vero che tutte le persone offese avevano spontaneamente fornito proprio quei dati, in fase di iscrizione al social network o in un momento successivo, era altresì vero che ciò era avvenuto esclusivamente - ed esplicitamente - con riguardo alla funzione tipica della piattaforma, motivo della stessa iscrizione, quale la creazione di una comunità community di amici, conosciuti o da conoscere, con i quali discutere e condividere pensieri su qualunque argomento. Solo questa finalità, quindi, era stata espressamente accettata da tutte le persone offese, e solo per lo stesso scopo queste avevano fornito i propri dati personali. Nessuna delle donne coinvolte, per contro, aveva mai prestatoil consenso - da intendersi libero, specifico, informato ed inequivocabile - per un uso diverso degli stessi dati, men che meno da parte di un soggetto sconosciuto , il quale, dunque, non si era limitato ad una gestione degli stessi dati omologa a quella compiuta in automatico dal sistema, con mera e meccanica trasposizione in un file PDF’, come affermato dalla difesa, ma si era reso responsabile di un trattamento palesemente illecito di dati personali altrui . I magistrati precisano che non può avere rilievo il fatto che i relativi profili fossero pubblici e non schermati a terzi da limitazioni di accesso , come evidenziato ancora dall’uomo, in quanto i dati personali erano stati comunque inseriti dalle donne nell’unica ottica che le aveva indotte ad iscriversi al social network, senza poter essere utilizzati - arbitrariamente -- per finalità e scopi differenti . In conclusione, la pubblicazione di un dato personale sul proprio profilo social non può ritenersi equivalente ad un’indiscriminata autorizzazione a fare, di quello stesso dato, un qualunque uso, da parte di chicchessia, al di fuori di ogni consenso del soggetto , sanciscono i giudici. E nella vicenda oggetto del processo è emerso che il ricorrente sapeva di certo che le persone indicate nell'elenco non avevano mai prestato alcun consenso all’utilizzo dei propri dati personali per finalità commerciali , peraltro riferibili a lui solo e queste finalità erano risultate subito evidenti, ed ammesse dall’uomo, il quale aveva anche reclamizzato l’offerta , relativa all’e-book, con una frase - Al costo di un drink! Quanto tempo impiegheresti per cercarle tutte? - che esprimeva appieno il fine economico dell'iniziativa, realizzata prescindendo da qualunque consenso delle persone coinvolte. Impossibile, secondo i giudici, mettere in discussione la diffamazione realizzata ai danni delle parti offese inserite nell’elenco disponibile in vendita per uomini in caccia di avventure sessuali. I giudici riconoscono che il termine single, di per sé, non possiede alcuna valenza negativa , ma aggiungono che la sua accezione può assumere un significato particolare - non accettato dalle donne se contenuto in un elenco realizzato inserendovi solo donne accomunate dallo stesso status, realizzato a loro insaputa e venduto online - al costo di un drink - al solo fine di rendere nota a chiunque l ' assenza di legami sentimentali . E proprio un tale effetto era stato descritto da alcune delle persone offese che, a seguito della pubblicazione dell’ebook, si erano viste contattare da uomini sconosciuti, con l'esplicita finalità di incontrarsi a scopo sentimentale o sessuale, un effetto che, ad ogni evidenza, l’imputato aveva di certamente previsto, mettendo in vendita un elenco il cui unico scopo era quello di far conoscere a chiunque quante e quali donne residenti nel territorio comunale si fossero dichiarate single sulla piattaforma Facebook I giudici sottolineano poi che il ricorrente aveva agito senza alcun coinvolgimento delle persone offese, mai interpellate , e dunque senza sapere se esse fossero interessate o meno ad incontri con sconosciuti anche perché essere single non significa essere a disposizione di chiunque . Da questo quadro emerge la prova evidente della consapevolezza della condotta illecita , e dunque del dolo di reato, consistito proprio nell'utilizzare il dato personale altrui a propri fini commerciali, in difetto di qualunque consenso ed al di fuori della stessa piattaforma Facebook. I giudici annotano poi che tutte le persone offese avevano accusato un malessere , sotto forma di umiliazione, di sconcerto e di frustrazione , una volta appreso di essere state inserite nell’e-book. Infine, i giudici ritengono evidente il delitto di diffamazione, soprattutto perché la creazione di un catalogo, contenente l'elencazione minuziosa e sistematica di donne, con l'esplicita intenzione di rendere nota l'appartenenza al territorio comunale e agevolarne così l'individuazione perché single, ma prima ancora perché donne, tutte reperibili al prezzo di un drink’, comporta una consapevole denigrazione del soggetto . Da ciò deriva l'inevitabile compromissione della dignità della donna , coinvolta in un sistema di catalogazione ed etichettatura , al fine di essere individuato e scelto da un pubblico di fruitori

Presidente Galterio - Relatore Mengoni Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 16/6/2022, la Corte di appello di Milano confermava la pronuncia emessa il 24/5/2022 dal Tribunale di Lecco, con la quale M.N.A. era stato giudicato colpevole dei delitti di trattamento illecito dei dati personali, diffamazione aggravata e sostituzione di persona. 2. Propone ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi - erronea applicazione dell' art. 167, comma 2, D.Lgs. n. 30 giugno 2003, n. 196 . La Corte di appello avrebbe confermato la condanna per il capo A senza considerare che il reato non sarebbe stato integrato il ricorrente, infatti, Si sarebbe limitato ad utilizzare una funzionalità del social network Facebook per mettere insieme dati in particolare, lo stato di single di varie donne che le utenti avrebbero autonomamente pubblicato sullo stesso sito, senza apporre alcuna restrizione. Il M. , dunque, avrebbe usato questi dati per una finalità compatibile con quella per cui le utenti Facebook avevano prestato il consenso, sin dall'inizio, sulla medesima piattaforma gli stessi dati, peraltro, sarebbero stati accessibili a chiunque, anche non iscritto allo stesso social network, mediante una semplice ricerca di nome e cognome su qualunque motore internet. In altri termini, l'aver prestato il consenso all'utilizzo di questi dati su Facebook, con modalità aperte e senza restrizioni, li avrebbe resi disponibili a chiunque avesse avuto a disposizione una connessione - la stessa censura è poi mossa con riguardo all'assenza di un nocumento motivi nn. 3-4 . La sentenza sarebbe errata anche laddove riterrebbe che le persone offese avrebbero subito un effettivo pregiudizio la qualifica di single, invece, non conterrebbe in sé alcuna accezione negativa, così come lo slogan con cui la pubblicazione dell'elenco era stata accompagnata. Quanto invece ad ogni eventuale, diversa ed altrui interpretazione, questa non potrebbe essere imputata al ricorrente - erronea applicazione dell'art. 167 citato, con riferimento alla qualificazione soggettiva dell'agente. Premesso che il reato di cui al capo A costituirebbe una fattispecie propria, riferibile al solo titolare del trattamento dei dati personali, lo stesso non potrebbe essere addebitato al ricorrente, che non avrebbe tale qualifica - erronea applicazione dell' art. 494 c.p. La sentenza avrebbe riconosciuto il reato di sostituzione di persona pur in difetto di un elemento costitutivo, quale l'induzione in errore i certificati di residenza richiesti a nome dell'Avv. Alessandro Barbaro, infatti, sarebbero stati comunque rilasciati, anche in assenza di questa indicazione - la contraddittorietà della motivazione, infine, viene contestata con riguardo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Le parti hanno depositato memorie. Considerato in diritto 3. Il ricorso - che reitera le stesse censure mosse con il gravame - risulta infondato. 4. Con riguardo, innanzitutto, al delitto di cui al capo A , oggetto dei primi tre motivi, la Corte ritiene che la sentenza di appello - così come quella di primo grado - sia sostenuta da una motivazione del tutto solida, congrua e non manifestamente illogica, così da meritare piena conferma la pronuncia di condanna. 4.1. I Giudici di merito hanno innanzitutto richiamato la condotta posta in essere dal ricorrente, del tutto pacifica, ossia la realizzazione e messa in vendita su un sito di ebook di un elenco di 1.218 donne, tutte qualificatesi sul social network Facebook come single e come residenti a [ ]. Questo elenco contenente nome, cognome, comune di residenza, immagine e status sentimentale - era stato creato attraverso una funzionalità della stessa piattaforma, che consentiva di effettuare una ricerca tra gli iscritti, utilizzando determinati filtri . Questo elenco, poi venduto in una trentina di copie, conteneva anche un link per ciascuna delle donne indicate, e raffigurate con fotografia, con il quale si rimandava direttamente al profilo Facebook di riferimento. 4.1. Muovendo da ciò, la Corte di appello ha innanzitutto evidenziato la natura certamente personale dei dati richiamati in linea, dunque, con il Regolamento UE 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, sulla protezione dei dati, secondo cui art. 4, n. 1 per dato personale si intende qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile interessato si considera identificabile la persona fisica che viene individuata direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all'ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale . 4.2. Di seguito, la Corte di merito ha negato fondamento alla tesi della difesa, qui ribadita, secondo cui sarebbero state le stesse donne coinvolte a consentire preventivamente l'estrazione dei dati in esame, per il sol fatto di averli loro stesse inseriti sul social network senza limitazioni di accesso e, dunque, rendendoli visibili a chiunque, compreso il ricorrente. 4.2.1. In particolare, e con argomento del tutto privo di vizi, la sentenza ha evidenziato che il ricorrente non si era limitato a ricercare sulla piattaforma i riferimenti di donne single residenti a [ ], ma, all'insaputa di queste, li aveva estrapolati, catalogati e - fotografie alla mano - ne aveva fatto un elenco, messo in vendita online. Risultava evidente, dunque, l'indebito trattamento dei dati personali se era vero, infatti, che tutte le persone offese avevano spontaneamente fornito proprio quei dati, in fase di iscrizione al social network o in un momento successivo, era altresì vero che ciò era avvenuto esclusivamente - ed esplicitamente - con riguardo alla funzione tipica della piattaforma, motivo della stessa iscrizione, quale la creazione di una comunità community di amici, conosciuti o da conoscere, con i quali discutere e condividere pensieri su qualunque argomento. Solo questa finalità, quindi, era stata espressamente accettata da tutte le persone offese, e solo per lo stesso scopo queste avevano fornito i propri dati personali. Nessuna delle donne coinvolte, per contro, aveva mai prestato il consenso - da intendersi libero, specifico, informato ed inequivocabile art. 4, n. 11, Regolamento citato - per un uso diverso degli stessi dati, men che meno da parte di un soggetto sconosciuto il quale, dunque, non si era limitato ad una gestione degli stessi omologa a quella compiuta in automatico dal sistema, con mera e meccanica trasposizione in un file PDF, come affermato nel ricorso, ma si era reso responsabile di un trattamento palesemente illecito di dati personali altrui. 4.3. Al riguardo, peraltro, non poteva avere rilievo il fatto che i relativi profili fossero pubblici e non schermati a terzi da limitazioni di accesso, come evidenziato ancora dal M. , in quanto i dati personali erano stati comunque inseriti dalle interessate nell'unica ottica che le aveva indotte ad iscriversi al social network, senza poter essere utilizzati - arbitrariamente - per finalità e scopi differenti. In altri termini - hanno ben affermato i Giudici del merito - la pubblicazione di un dato personale sul proprio profilo social non può ritenersi equivalente ad un'indiscriminata autorizzazione a fare, di quello stesso dato, un qualunque uso, da parte di chicchessia, al di fuori di ogni consenso dell'interessato. 4.4. La Corte di appello, di seguito, ha ampiamente motivato anche con riguardo al profilo soggettivo del reato. In particolare, è stato evidenziato che l'imputato di certo sapeva che le persone indicate nell'elenco non avevano mai prestato alcun consenso all'utilizzo dei propri dati personali per finalità commerciali, peraltro riferibili al solo ricorrente queste finalità, peraltro, erano risultate subito evidenti, ed ammesse dallo stesso M. , il quale aveva anche reclamizzato l'offerta con una frase - Al costo di un drink Quanto tempo impiegheresti per cercarle tutte? - che esprimeva appieno il fine economico dell'iniziativa, realizzata - si ribadisce prescindendo da qualunque consenso delle interessate. 4.5. Infine con riguardo al delitto di cui al capo A , non può essere accolto neppure il quarto motivo, che, individuando il soggetto attivo del reato nel solo titolare del trattamento dei dati, esclude che il M. potesse essere qualificato tale. Affrontando questo motivo di censura, infatti, la Corte di appello ha correttamente evidenziato che il reato in esame, in realtà, non si configura come fattispecie propria, ma comune, potendo essere commesso da chiunque la norma, infatti, intende garantire una protezione che prescinda dalla qualifica dell'agente, sul presupposto che la tutela dei dati personali - oggi straordinariamente a rischio, con l'uso universale dei socia/ network - ha ormai raggiunto rango costituzionale nell'ambito dei diritti della personalità individuale. La sentenza, pertanto, deve essere confermata quanto al reato di cui al capo A , perché priva di vizi. 5. Con riferimento, poi, al pregiudizio patito dalle persone offese, e dunque anche in relazione al capo B , il ricorso tende ad escluderlo sul presupposto che la condizione di single, pubblicizzata nell'elenco con riguardo a tutte le donne, non conterrebbe alcuna connotazione negativa nè equivoca, specie quando come nella vicenda in esame - non accompagnata da alcuna dichiarazione di disponibilità ad eventuali incontri, da parte delle stesse. 5.1 Ebbene, questa tesi è stata superata dalla Corte d'appello ancora con una motivazione priva di vizi. La sentenza, in particolare, ha sottolineato che se è vero che il termine single , di per sé, non possiede alcuna valenza negativa, è anche vero che la sua accezione può assumere un significato particolare - non accettato dalle interessate - se contenuto in un elenco realizzato inserendovi solo donne accomunate dallo stesso status , realizzato a loro insaputa e venduto online - al costo di un drink - al solo fine di rendere nota a chiunque l'assenza di legami sentimentali. Proprio un tale effetto, peraltro, era stato descritto da alcune delle persone offese, che, a seguito della pubblicazione dell'ebook, si erano viste contattare da uomini sconosciuti, con l'esplicita finalità di incontrarsi a scopo sentimentale o sessuale un effetto che, ad ogni evidenza, il ricorrente aveva di certo previsto, mettendo in vendita un elenco il cui unico scopo era quello di far conoscere a chiunque quante e quali donne residenti a [ ] si fossero dichiarate single sulla piattaforma Facebook. Una condotta - si ribadisce - tenuta senza alcun coinvolgimento delle persone offese, mai interpellate, e dunque senza sapere se le stesse fossero interessate o meno ad incontri con sconosciuti perché - come indicato nella prima sentenza e riferito da una di loro - essere single non significa essere a disposizione di chiunque dal che, la prova evidente della consapevolezza della condotta illecita, e dunque del dolo di reato, consistito proprio nell'utilizzare il dato personale altrui a propri fini commerciali, in difetto di qualunque consenso ed al di fuori della stessa piattaforma Facebook. Ancora al riguardo, infine, la sentenza ha sottolineato che, significativamente, tutte le persone offese avevano accusato un malessere, sotto forma di umiliazione, di sconcerto e di frustrazione, una volta appreso di essere state inserite nella pubblicazione in oggetto. 5.3. Gli stessi elementi, peraltro, sono stati valorizzati in sentenza anche con riguardo al profilo soggettivo del delitto di diffamazione. La Corte di appello, in particolare, ha sottolineato che la creazione di un catalogo, contenente l'elencazione minuziosa e sistematica di donne, con l'esplicita intenzione di rendere nota l'appartenenza al territorio di [ ] e agevolarne così l'individuazione perché single, ma prima ancora perché donne, tutte reperibili al prezzo di un drink , comporta una consapevole denigrazione del soggetto . Da ciò, l'inevitabile compromissione della dignità della vittima, coinvolta in un sistema di catalogazione ed etichettatura, alfine di essere individuato e scelto da un pubblico di fruitori. 6. Il ricorso, di seguito, risulta infondato anche con riguardo al quinto motivo, relativo al delitto di sostituzione di persona non può essere accolta, infatti, la tesi - già proposta in sede di gravame - secondo la quale difetterebbe un elemento costitutivo della fattispecie, quale l'induzione in errore del soggetto passivo qui i dipendenti comunali che avevano rilasciato i certificati di residenza . 6.1. Pronunciandosi sulla stessa doglianza, infatti, la sentenza ha evidenziato che era stato lo stesso imputato, in sede di esame, a spiegare le ragioni della propria condotta, individuata nella necessità di proporsi come figura professionale, per conseguire più agevolmente le certificazioni richieste a vari enti. I pubblici ufficiali di volta in volta interessati, dunque, erano stati certamente indotti in errore, confidando sulla provenienza dell'istanza da parte di un soggetto qualificato l'Avv. Alessandro Barbaro , come tale abilitato ad operare in tal modo. La sentenza ha poi precisato che queste richieste non avevano incontrato particolari ostacoli, proprio perché apparentemente provenienti da soggetto in possesso di specifica qualifica professionale d'altronde, se il ricorrente avesse davvero pensato che il rilascio dei certificati di residenza non è soggetto ad alcun requisito soggettivo del richiedente, come si legge nel ricorso, non si comprenderebbe perché lo stesso avesse utilizzato un'altrui identità - quella di un legale - e non la propria. L'induzione in errore, dunque, è stata adeguatamente riscontrata, e le stesse parole usate dal Marongelii ne riscontrano l'effettiva consapevolezza, come affermato dalla Corte di appello con argomento non manifestamente illogico. 7. Infine, con riferimento alle circostanze attenuanti generiche, il diniego risulta motivato ancora in modo congruo e non censurabile. La sentenza impugnata, in particolare, ha sottolineato che il ricorrente non aveva manifestato alcuna forma di autocritica per le proprie condotte, ne intraprese quando iniziative di carattere riparatorio. Quanto poi al comportamento processuale, non può essere certo valorizzata in questa sede la sostanziale ammissione delle condotte di cui ai capi di imputazione, come si legge nel ricorso, sia perché argomento di puro merito, sia perché, comunque, la stessa ammissione aveva avuto ad oggetto la sola - e pacifica - materialità delle azioni realizzate, non anche la loro valenza penale, che invece il ricorrente aveva sempre contestato. 8. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali. Segue la condanna alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalle parti civili C.B. , +Altri , liquidate in complessivi 5.400,00 Euro, oltre accessori di legge. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, che liquida in complessivi 5.400,00 Euro, oltre accessori di legge.