A fronte dell’impossibilità sopravvenuta per il preliminare di compravendita quali scenari si aprono?

La risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta dell’esecuzione dà luogo ai soli obblighi restitutori derivanti dallo scioglimento del vincolo contrattuale, ma non consente di condannare il debitore al pagamento del doppio della caparra.

Un immobile, già ristrutturato, era oggetto di un contratto preliminare di acquisto contestualmente al quale era stata versata caparra confirmatoria . Alla scadenza pattuita l'immobile non veniva però consegnato e il preliminare veniva integrato con l'acquisto di un'ulteriore porzione dello stesso compendio e il versamento di una successiva caparra confirmatoria. Successivamente gli acquirenti scoprivano che non era mai stata rilasciata la concessione edilizia e che l'immobile non era frazionato né frazionabile. Chiedevano dunque la restituzione della del doppio della caparra versata . I venditori attribuivano invece l'inadempimento alle controparti per illegittima interruzione delle trattative e chiedevano lo scioglimento del contratto. La vicenda approdava in Tribunale dove veniva accertata l'impossibilità di esecuzione dei contratti preliminari, con conseguente risoluzione, e i venditori venivano condannati alla restituzione del doppio della caparra . La decisione veniva confermata anche in sede di appello, seguiva dunque l'impugnazione da parte dei soccombenti dinanzi alla Cassazione. Tra i motivi di ricorso proposti, ha trovato accoglimento la doglianza relativa alla violazione/falsa dell' art. 1385, comma 2, c.c. per avere i giudici di merito dichiarato la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della sua esecuzione e condannato i ricorrenti al pagamento del doppio della caparra, nonostante essi non avessero esercitato alcun diritto di recesso, né avessero chiesto l'accertamento della risoluzione per recesso. I giudici di merito, sempre secondo i ricorrenti, avevano violato le norme in tema di caparra confirmatoria , in quanto non avrebbero potuto accogliere la condanna di pagamento della caparra in caso di declaratoria di risoluzione per impossibilità sopravvenuta o di mancata dimostrazione del maggior danno, pena lo snaturamento della funzione di prevenzione e di limitazione del contenzioso giudiziale propria della caparra stessa, stante l'incompatibilità strutturale e funzionale esistente tra azione di risoluzione e risarcimento integrale, da una parte, e azione di recesso e ritenzione della caparra, dall'altra . La Suprema Corte ha condiviso tale motivo di ricorso alla luce del principio secondo cui la pronuncia di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta dell'esecuzione, in quanto fondata su un fatto estraneo alla sfera di imputabilità dei contraenti, dà luogo ai soli obblighi restitutori derivanti dallo scioglimento del vincolo contrattuale, essendo le prestazioni rese divenute indebite, ma non consente di condannare il debitore al pagamento del doppio della caparra , atteso che questa costituisce una forma risarcitoria limitata nel quantum ” e correlata al diritto di recesso, che, in quanto strumento di risoluzione negoziale per giusta causa, presuppone l'inadempimento della controparte . La decisione viene in conclusione rinviata alla Corte territoriale che dovrà decidere alla luce del principio summenzionato.

Presidente Di Virgilio – Relatore Pirari Fatti di causa 1. Come si legge nella sentenza impugnata, con atto di citazione notificato il 18 dicembre 2001, C.S. ed Z.E., premesso che avevano stipulato con N.M.N. e T.G. un contratto preliminare per l'acquisto di un fabbricato in Omissis e delle aree scoperte di pertinenza, che, a termini dell'accordo, l'immobile, già ristrutturato, avrebbe dovuto essere consegnato il 30 giugno 2001 al prezzo di lire 300 milioni, che, alla firma del preliminare, avevano versato la caparra confirmatoria di lire 100.000.000, che, decorso invano il termine pattuito, avevano integrato, in data 12 luglio 2001, il contratto preliminare, prevedendo l'acquisto di un'ulteriore porzione di immobile dello stesso compendio per ulteriori lire 300 milioni e il versamento di una caparra confirmatoria di lire 50 milioni e procrastinando la data di consegna del bene, che, nelle more, avevano messo in vendita la propria abitazione, promettendo di consegnarla entro il 15 novembre 2001, che, nel settembre 2001, avevano scoperto che non era stata mai rilasciata alcuna concessione edilizia e che l'immobile non era stato frazionato, né era frazionabile, che, pertanto, avevano inizialmente chiesto la restituzione della somma di lire 200 milioni fino ad allora versata e successivamente valutato, invece, l'acquisto dell'intero compendio, con versamento di un'ulteriore somma che avrebbe consentito di liberare il bene dall'ipoteca, che, appreso della demanialità di una parte dell'immobile, avevano chiesto di ridiscutere il prezzo, indicato dai T. in lire 900 milioni, e che, al loro rifiuto, questi ultimi avevano loro comunicato il recesso per inadempimento, convennero in giudizio i promittenti venditori, onde ottenere la risoluzione per inadempimento del preliminare, il versamento del doppio della caparra e il risarcimento del danno. Costituitisi in giudizio, i coniugi T. addebitarono ad essi l'inadempimento, domandando lo scioglimento dei contratti per manifestazione dello ius variandi delle parti e l'accertamento dell'illegittima interruzione delle trattative, con condanna al risarcimento dei danni. Emesso, in corso di causa, il sequestro conservativo dei beni dei convenuti, il Tribunale di Venezia, con sentenza n. 2582/2007 del 7 settembre 2007, dichiarò l'inammissibilità della domanda di accertamento della nullità dei contratti preliminari, accertò e dichiarò l'impossibilità di esecuzione degli stessi e condannò i convenuti, in solido, a pagare la somma di Euro 106.937,07, oltre interessi legali, decurtato l'importo già versato di Euro 48.000,00, oltre alle spese di lite. N.M.N. e T.G. impugnarono la predetta sentenza con atto notificato il 20 Marzo 2008, domandando la sospensione della provvisoria esecutività della stessa, la dichiarazione che nulla era dovuto agli appellati e la restituzione dell'importo pagato, oltre a interessi e rivalutazione e rifusione delle spese di entrambi i gradi del giudizio. Il giudizio d'appello, nel quale si costituirono i coniugi C. e Z., chiedendo il rigetto dell'istanza di sospensiva e la conferma della sentenza, salvo appello incidentale e rifusione delle spese di secondo grado, si concluse con la sentenza n. 276/2017, pubblicata il 2 Febbraio 2017, con la quale la Corte d'appello di Venezia rigettò gli appelli principale e incidentale, condannando gli appellanti, in solido tra loro, a pagare agli appellati le spese del giudizio di secondo grado. 2. Avverso questa sentenza, N.M.N. e T.G. hanno proposto ricorso per cassazione, affidandolo a sette motivi, illustrati anche con memoria. C.S. ed Z.E. sono rimasti intimati. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la mancanza/apparenza della motivazione sull'interpretazione-qualificazione della domanda, la violazione degli artt. 132, comma 2, n. 4 , c.p.c. , e 118 disp. att. c.p.c., e la nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione, in relazione all' art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 4, per avere la Corte d'appello confermato la sentenza di primo grado, che aveva considerato implicitamente proposta, nella domanda formulata dai coniugi Z.- C., quella di recesso del contraente non inadempiente alla stregua della sentenza di legittimità n. 2032/1994, senza dare conto dei motivi della decisione in rapporto alla censura proposta in sede di gravame, con la quale era stato, invece, evidenziato come i predetti coniugi non si fossero limitati a chiedere la condanna al pagamento del doppio della caparra, quale unica ed esaustiva sanzione risarcitoria di siffatta inadempienza , secondo il principio espresso dalla citata pronuncia della Corte di Cassazione, ma avessero altresì domandato cumulativamente anche il risarcimento del danno, oltreché la risoluzione del contratto per inadempimento. 2. Col secondo motivo, si lamenta la violazione/falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c. , in relazione all' art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3, per avere la Corte d'Appello confermato la sentenza di primo grado, secondo cui la domanda avanzata dai coniugi Z. C., alla stregua delle deduzioni proposte nella comparsa conclusionale, era quella di accertamento della risoluzione del contratto a seguito del recesso dei convenuti inadempienti ex art. 1385, comma 2, c.c. , senza tener conto della tardività della stessa e di quanto, invece, affermato nell'atto di citazione e negli ulteriori atti depositati in corso di giudizio, nei quali, come rilevato con il motivo di gravame, risultava che la domanda fosse tesa ad ottenere la risoluzione del contratto per inadempimento e il risarcimento integrale dei danni e non l'accertamento della risoluzione per effetto del diritto di recesso. Ad avviso del ricorrente, i giudici di merito, nell'affermare che nella richiesta di corresponsione del doppio della caparra confirmatoria fosse implicito il diritto di recesso, avevano violato le norme sull'interpretazione dei contratti, applicabili anche per l'interpretazione della domanda, in quanto non avevano considerato il contenuto sostanziale della pretesa la causa petendi era incentrata sul grave inadempimento dei promissari venditori , l'effettiva volontà della parte, il provvedimento richiesto ossia la risoluzione per inadempimento dei coniugi T., la condanna al pagamento del doppio della caparra e al risarcimento del danno subito per il doppio trasloco, il canone di locazione corrisposto, il patimento e la perdita di valore del denaro, come arguibile dalle pedisseque conclusioni precisate all'udienza del 28/2/2007, con rinvio alla memoria ex art. 183 c.p.c. e le finalità dello stesso era stata chiesta la risoluzione per inadempimento e l'integrale risarcimento del danno patito . I promissari acquirenti avevano, in sostanza, tentato di correggere la pretesa iniziale, proponendo, subordinatamente, l'azione di nullità e la richiesta di ripetizione dell'indebito, cercando di farla entrare forzatamente nell'alveo della risoluzione per recesso. 3. Col terzo motivo, si lamenta la violazione degli artt. 183,277,345 e 112 c.p.c. e la nullità della sentenza per extra petizione, in relazione all' art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 4, per avere i giudici d'appello confermato la sentenza di primo grado, che aveva accolto la domanda di condanna al pagamento del doppio della caparra, sul presupposto che fosse stata proposta una domanda di accertamento della risoluzione del contratto per effetto dell'esercizio del diritto di recesso, ritenuta implicita nella richiesta di pagamento della caparra, senza considerare la sua diversità rispetto a quella originaria di risoluzione per inadempimento avanzata dagli attori e la contestuale proposizione della domanda di risarcimento integrale dei danni. Ad avviso dei ricorrenti, i giudici di merito, affermando che non sussisteva il vizio di extrapetizione in quanto il giudice di primo grado aveva soltanto compiuto una diversa qualificazione della domanda, avevano violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato in quanto avevano sostituito d'ufficio altri effetti la condanna al pagamento del doppio della caparra rispetto a quelli connessi alla domanda effettivamente proposta risoluzione e risarcimento , sicché avevano esercitato il potere di qualificazione della domanda oltre i limiti determinati dalla domanda proposta e dai relativi elementi identificativi. Inoltre, non soltanto avevano pronunciato la condanna al pagamento del doppio della caparra, non considerando che era stata proposta, senza alcun ordine di priorità o alternatività, anche domanda di risarcimento integrale dei danni, ma non avevano tenuto conto della tardività della domanda di risoluzione per recesso, siccome contenuta solo nella comparsa conclusionale. 4. Col quarto motivo, si lamenta la violazione-falsa applicazione dell' art. 1385, comma 2, c.c. , in relazione all' art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3, per avere i giudici di merito confermato la sentenza di primo grado, che aveva dichiarato la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della sua esecuzione e condannato i ricorrenti al pagamento del doppio della caparra, nonostante essi non avessero esercitato alcun diritto di recesso, né avessero chiesto l'accertamento della risoluzione per recesso, sostenendo che i coniugi Z. C. non avessero dimostrato i maggiori danni patiti. In tal modo, i giudici di merito avevano violato le norme in tema di caparra confirmatoria, in quanto non avrebbero potuto accogliere la condanna di pagamento della caparra in caso di declaratoria di risoluzione per impossibilità sopravvenuta o di mancata dimostrazione del maggior danno, pena lo snaturamento della funzione di prevenzione e di limitazione del contenzioso giudiziale propria della caparra stessa, stante l'incompatibilità strutturale e funzionale esistente tra azione di risoluzione e risarcimento integrale, da una parte, e azione di recesso e ritenzione della caparra, dall'altra. 5. Col quinto motivo, si lamenta la violazione degli artt. 1346 e 1418, comma 2, c.c. , sulla decisione di accertamento dell'inadempimento dei coniugi T. N., in relazione all' art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3, per avere la Corte d'Appello confermato la sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva accertato l'inadempimento dei coniugi T. N., senza tener conto delle deduzioni svolte dai coniugi Z. C. in relazione alle irregolarità urbanistico-edilizie dell'immobile, che avrebbero dovuto incidere sulla validità del negozio, nullo per illiceità dell'oggetto. 6. Col sesto motivo, si lamenta la mera apparenza della motivazione della decisione di rigetto dell'eccezione di inadempimento proposta dai T. N. e la nullità della sentenza impugnata in parte qua, in relazione all' art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 4, per avere la Corte d'appello confermato la sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva rigettato l'eccezione di inadempimento proposta dai coniugi T. N. in quanto asseritamente proposta oltre i termini ex art. 183, comma 5, c.p.c. , e in quanto la prima caparra poteva presumersi pagata all'atto della sottoscrizione del contratto e la seconda non corrisposta in quanto correlata ai lavori rimasti ineseguiti, senza esprimere le ragioni che l'avevano indotta a confermare la decisione impugnata in relazione allo specifico motivo d'appello proposto. Con quest'ultimo, i ricorrenti avevano infatti evidenziato come l'eccezione fosse stata proposta con la memoria depositata ex art. 180, comma 2, c.p.c. , e dunque prima della memoria ex art. 183, comma 5, cod. proc. civ. , come la mera sottoscrizione del contratto non costituisse indizio sufficiente per far considerate pagata la caparra e come fosse errata la considerazione in merito alla legittimità dell'omesso pagamento di quella legata all'inizio dei lavori, senza che i giudici d'appello prendessero in alcun modo posizione sul punto. 7. Col settimo motivo, infine, si lamenta l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all' art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 5, per avere la Corte d'appello confermato la sentenza di primo grado, che aveva rigettato l'eccezione di inadempimento proposta dai coniugi T. N., senza considerare la formulazione della stessa e le considerazioni prospettate a suo fondamento, nonché lo specifico motivo d'appello avverso la decisione che l'aveva rigettata. Infatti, la Corte d'appello aveva rigettato l'eccezione, affermando che i coniugi Z. C. non erano stati mai convocati dagli appellanti per il rogito, sicché non poteva profilarsi alcun inadempimento all'obbligo di prestare il consenso alla stipulazione dal contratto definitivo, mentre l'inadempimento eccepito si riferiva alla sola obbligazione di pagamento delle somme previste dal contratto come caparra e acconto. 8. Il primo motivo è infondato. E' orientamento consolidato ritenere che gli estremi della dedotta doglianza di nullità processuale della sentenza per motivazione totalmente mancante o motivazione apparente siano integrati nell'ipotesi di assenza della motivazione, quando cioè non sia possibile individuare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione , non configurabile nel caso di una pur succinta esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione impugnata ad es., da ultimo, Cass. Sez. 3, 15/11/2019, n. 29721 ovvero nel caso di motivazione solo apparente, che non costituisce espressione di un autonomo processo deliberativo, quale la sentenza di appello motivata per relationem alla sentenza di primo grado cfr. ad es. Cass. Sez. L, 25/10/2018, n. 27112 ovvero qualora la motivazione risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione ad es. Cass. Sez. 6 - 3, 25/09/2018, n. 22598 ipotesi ravvisata anche in caso di contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, che rendono incomprensibili le ragioni poste a base della decisione Cass. Sez. 6 - L, 25/06/2018, n. 16611 . Nella specie, la Corte d'Appello ha esplicitato la ratio decidendi, dando risposta, sia pure succintamente, alle questioni prospettate dagli appellanti, senza che rilevi il fatto che nell'argomentare si sia rifatta alla motivazione della statuizione impugnata, non profilandosi in tal caso alcuna nullità qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all'organo giudicante e risultino in modo chiaro, atteso che il giudice del gravame può aderire a quella motivazione senza necessità, ove la condivida, di ripeterne tutti gli argomenti o di rinvenirne altri Cass., Sez. 1, 26/05/2016, n. 10937 . Pertanto, essendo la motivazione palesemente idonea a manifestare la ratio decidendi e non potendo dunque qualificarsi come meramente apparente e insuscettibile di essere giudicata al di sotto del minimo costituzionale Cass., Sez. U, 7/4/2014, n. 8053 , la censura deve considerarsi infondata. 9. Il quinto motivo, prioritario da un punto di vista logico, è inammissibile. Come emerge dalla sentenza di primo grado, il giudice del Tribunale aveva dichiarato l' infondatezza della domanda di nullità in quanto nuova rispetto alla domanda di risoluzione e tardivamente proposta solo con la memoria ex art. 183 c.p.c. , statuizione questa che, dalla lettura della sentenza impugnata, non risulta essere stata impugnata. Alla stregua di quanto detto, deve allora trovare applicazione il principio secondo cui, in materia di ricorso per cassazione, il motivo con il quale il ricorrente lamenti che la sentenza di appello sia incorsa nel medesimo vizio dal quale sarebbe stata già affetta la sentenza di primo grado è inammissibile, allorché la deduzione di quel vizio non abbia costituito oggetto, in precedenza, di uno specifico motivo di gravame in tal senso, Cass., Sez. 2, 4/9/2020, n. 18486 , derivando, peraltro, dalla mancata impugnazione di un capo della sentenza completamente autonomo, in quanto fondato su distinti presupposti di fatto e di diritto, e privo di qualsivoglia consequenzialità con le altre statuizioni contenute nella medesima pronuncia, la formazione della cosa giudicata del predetto Cass., Sez. 2, 25/6/2020, n. 12649 . 10. E', invece, fondato il quarto motivo, con assorbimento delle restanti censure. Come si legge nella sentenza impugnata, il Tribunale di Venezia, una volta affermata l'inammissibilità della domanda di nullità dei contratti preliminari, aveva dichiarato l'impossibilità della loro esecuzione in quanto, come asserito nella relativa pronuncia, i promittenti venditori avevano alienato l'immobile a terzi e i promissari acquirenti acquistato nel frattempo altro immobile, senza che tale statuizione fosse stata investita da specifico motivo di gravame, essendosi gli appellanti limitati a chiedere che venisse dichiarato che nulla era dovuto agli appellati e che venisse disposta la restituzione dell'importo da essi pagato. Ciò significa che, essendo anche tale statuizione parimenti passata in giudicato, la condanna dei ricorrenti al pagamento del doppio della caparra non può che reputarsi giuridicamente scorretta e affetta da intrinseca contraddittorietà. Sul punto, occorre prendere le mosse dalla norma in tema di caparra confirmatoria, la quale è contenuta nell' art. 1385, comma 2, c.c. , a mente del quale se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l'altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra se inadempiente è invece la parte che l'ha ricevuta, l'altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra , e dal successivo comma 3 della predetta disposizione, il quale contempla il diverso caso in cui la parte non inadempiente preferisca domandare l'esecuzione o la risoluzione del contratto, rispetto al quale è stabilito che il risarcimento del danno sia regolato dalle norme generali. Come sostenuto da questa Corte, il diritto di recesso è una evidente forma di risoluzione stragiudiziale del contratto, che presuppone pur sempre l'inadempimento della controparte avente i medesimi caratteri dell'inadempimento che giustifica la risoluzione giudiziale esso costituisce null'altro che uno speciale strumento di risoluzione negoziale per giusta causa, alla quale lo accomunano tanto i presupposti l'inadempimento della controparte quanto le conseguenze la caducazione ex tunc degli effetti del contratto , sicché il recesso è legittimamente esercitato, in uno con la ritenzione della caparra, allorché sussista un inadempimento di non scarsa importanza ex art. 1455 c.c. e gravemente colpevole, ossia un inadempimento imputabile ex artt. 1218 e 1256 c.c. , venendo altrimenti meno il presupposto, sancito da quest'ultima norma, per l'insorgere dell'obbligo, in capo al debitore, del risarcimento del danno del quale la caparra costituisce liquidazione anticipata convenzionale e forfetaria Cass., Sez. Un., 14/1/2009, n. 553 . Ciò significa che, nell'indagine sull'inadempienza contrattuale da compiersi al fine di stabilire se ed a chi spetti il diritto di recesso, i criteri da adottarsi sono quegli stessi che si debbono seguire nel caso di controversia su reciproche istanze di risoluzione per inadempimento, nel senso che occorre in ogni caso una valutazione comparativa del comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto, in modo da stabilire quale di essi abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l'interesse dell'altro al mantenimento del negozio Cass., Sez. Un. 14/1/2009, n. 553 . Il recesso e la risoluzione costituiscono, dunque, secondo quanto già affermato da questa Corte, due strumenti alternativi di tutela, modellati dal secondo e comma 3 dell' art. 1385 c.c. , sicché, costituendo il recesso una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto presupponente l'inadempimento della controparte, le interazioni rilevanti da esaminare sul piano normativo non sono tanto quelle tra il recesso stesso e le varie forme di risoluzione, ma tra l'incamerare la caparra o il suo doppio , così ponendo fine alla vicenda negoziale, e l'instaurare un apposito giudizio per conseguire una più cospicua locupletazione, un più pingue risarcimento, una più congrua quantificazione di danni dei quali egli si riserva fondatamente di offrire la prova , sussistendo, perciò, la vera antinomia non tra risoluzione risarcimento recesso ritenzione della caparra, bensì tra azione di risarcimento ordinaria e domanda di ritenzione della caparra, stante l'assenza di autonoma rilevanza giuridica sostanziale delle problematiche afferenti ai rapporti tra le sole domande di risoluzione e di recesso Cass., Sez. Un., 14/1/2009, n. 553 . Alla stregua di ciò, si e', dunque, detto che una domanda principale di risoluzione contrattuale correlata ad una richiesta risarcitoria contenuta nei limiti della caparra non è altro che una domanda di accertamento dell'avvenuto recesso, così come una domanda di risoluzione avanzata senza il corredo di una ulteriore richiesta risarcitoria, rapportata o meno all'entità della caparra, avrà il solo scopo di caducare in via giudiziale il contratto senza ulteriori conseguenze economiche per la parte inadempiente si veda sul punto Cass., Sez. 3, 1/8/2022, n. 23820 , che ha escluso, in tal caso, il vizio di ultrapetizione allorché, a fronte della domanda di risoluzione del contratto e conseguente restituzione dell'acconto versato, si adotti la statuizione restitutoria in relazione alla diversa fattispecie del legittimo recesso della parte, trattandosi pur sempre di pronuncia consequenziale all'accertamento dell'avvenuto scioglimento del rapporto, fondato sulle circostanze di fatto originariamente dedotte, senza che sia stato introdotto un nuovo tema di indagine , senza che, nel corso del giudizio, sia lecito introdurre complementari domande risarcitorie collegate che risulterebbero del tutto nuove e pertanto inammissibili Cass., Sez. Un., 14/1/2009, n. 553 . Per contro, è la finalità di liquidazione immediata, forfetaria, stragiudiziale, posta nell'interesse di entrambe le parti - in ciò sostanziandosi la pretesa della sola caparra - a venire irrimediabilmente esclusa dalla pretesa giudiziale di un maggior danno da risarcire e provare , poiché la semplificazione stragiudiziale del procedimento di ristoro conseguente alla sola ritenzione della caparra tramonta, inevitabilmente e definitivamente, al cospetto delle barriere processuali sorte per effetto di una domanda dalla natura strettamente risarcitoria, e perciò solo del tutto alternativa Cass., Sez. Un., 14/1/2009, n. 553 . Ne consegue che il creditore che abbia optato per il risarcimento integrale del danno non può, alla luce dei principi generali, modificare l'originaria pretesa, costituendo lo stesso, alla luce del disposto di cui al comma 3 dell' art. 1385 c.c. , rimedio tutt'affatto alternativo rispetto alla richiesta della caparra confirmatoria e consentendosi, altrimenti, al creditore di riattivare il meccanismo legale di cui all' art. 1385, comma 2, c.c. ormai definitivamente caducato per via delle preclusioni processuali definitivamente prodottesi a seguito della proposizione della domanda di risoluzione sic et simpliciter, così come, una volta che si sia avvalso del rimedio del recesso, non può richiedere la risoluzione giudiziale, giacché con tale trasformazione si cercherebbe surrettiziamente di ampliare l'ambito risarcitorio in sede processuale, dopo aver incamerato la caparra, indirizzandolo verso una più pingue ma ormai intempestiva richiesta di risarcimento integrale Cass., Sez. Un., 14/1/2009, n. 553 . Il cosiddetto recesso del contraente non inadempiente e', infatti, pur sempre basato su di un inadempimento della controparte legittimante la risoluzione del contratto e tende, sia pure con particolari modalità, allo scioglimento del medesimo, mentre l'elemento caratterizzante l'esercizio della facoltà di recesso è dato dalla volontà, inequivocamente manifestata dall'adempiente, di contenere l'obbligazione risarcitoria dell'inadempiente nei limiti della perdita della caparra data o della restituzione, nel doppio, della caparra da lui ricevuta Cass., Sez. 2, 1/3/1994, n. 2032 , confermata da Cass., Sez. 2, 27/9/2017, n. 22657 , restando rilevante, tanto in caso di recesso, quanto in quello di risoluzione per inadempimento, l'accertamento dell'inadempimento che giustifica lo scioglimento del rapporto e la condanna al risarcimento del danno, da liquidarsi, nell'un caso, entro i limiti della caparra e, nell'altro caso, secondo la sua entità integrale. Dalla risoluzione del contratto per inadempimento anche stragiudiziale in seguito a recesso va, invece, tenuta distinta la risoluzione per impossibilità sopravvenuta ex artt. 1256 e 1463 c.c. , configurantesi allorché l'adempimento della prestazione da parte del debitore o l'utilizzazione della stessa ad opera della controparte diventi impossibile per fatto non imputabile al debitore, la quale comporta il venir meno della possibilità di conseguire la finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto Cass., Sez. 3, 29/3/2019, n. 8766 e incide, paralizzandola, sulla domanda di adempimento, determinando, nei contratti con prestazioni corrispettive, l'estinzione della relativa obbligazione e la risoluzione di diritto degli stessi ai sensi degli artt. 1463 e 1256, comma 1, c.c. Cass., Sez. 2, 28/1/1995, n. 1037 . Risoluzione per inadempimento anche nella forma stragiudiziale da recesso, come si è visto e risoluzione per impossibilità sopravvenuta hanno, infatti, presupposti e natura diversi, atteso che la prima, avente carattere sanzionatorio, tende ad una pronuncia costitutiva ed è fondata sul comportamento doloso o colpevole di una parte Cass., Sez. 3, 14/1/1992, n. 360 , mentre la seconda tende ad una pronuncia di accertamento e si fonda su un fatto estraneo alla sfera di imputabilità dei contraenti Cass., Sez. 2, 14/2/1996, n. 1104 Cass., Sez. 3, 14/1/1992, n. 360 cit. Cass., Sez. L, 17/4/1987, n. 3865 . Così, è stato ritenuto che in caso di domanda di risoluzione per inadempimento, che non sia stata modificata nel rispetto del regime delle preclusioni processuali, il giudice non può pronunciare la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta, pena la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato Cass. Sez. 3, Sentenza 2073/2018 , n. 6866 . E' la non imputabilità al debitore dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione a comportare l'estinzione dell'obbligazione, mentre l'imputabilità determina la conversione dell'obbligazione di adempimento in quella di risarcimento del danno e, se costituisce l'oggetto di un contratto a prestazioni corrispettive, dà luogo, altresì, all'azione di risoluzione per inadempimento Cass., Sez. 1, 22/12/1983, n. 7580 . Ciò significa che, una volta affermata, come nella specie, l'impossibilità sopravvenuta dell'esecuzione del contratto, il relativo accertamento non può che assumere valore decisivo e assorbente di tutte le domande, costitutive e di condanna, proposte, determinando il superamento delle questioni di inadempimento colpevole poste da entrambe le parti al fine di domandare la risoluzione del contratto per fatto e colpa della controparte e la conseguente condanna al risarcimento dei danni, mentre residuano i soli obblighi restitutori generati dal venir meno del vincolo contrattuale, essendo divenuta indebita la ritenzione delle prestazioni eseguite vedi Cass., Sez. 2, 5/10/2020, n. 21262 , con la conseguenza che, nel caso in cui vi sia stato versamento della caparra confirmatoria, la condanna non può che vertere sulla sola restituzione della stessa e non anche del suo doppio. E come già sostenuto da questa Corte, non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorché il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso rispetto alla prospettazione della parte i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto, sicché, proposta in primo grado una domanda di risoluzione per inadempimento di contratto preliminare e di conseguente condanna del promittente venditore alla restituzione del doppio della caparra ricevuta, non pronunzia ultra petita il giudice il quale ritenga che il contratto si sia risolto non già per inadempimento del convenuto, ma per impossibilità sopravvenuta di esecuzione derivante dalle scelte risolutorie di entrambe le parti ex art. 1453, comma 2, c.c. Cass., Sez. 2, 5/11/2009, n. 23490 , ancorché le due contrapposte manifestazioni di volontà non configurino un mutuo consenso negoziale risolutorio Cass., Sez. 3, 19/3/2018, n. 6675 , e condanni il promittente venditore alla restituzione della sola caparra la cui ritenzione è divenuta sine titulo e non del doppio di essa Cass., Sez. 2, 15/6/2020, n. 11466 Cass., Sez. 2, 5/11/2009, n. 23490 Cass., Sez. 3, 19/3/2018, n. 6675 . Alla stregua di tali principi, non può allora che ritenersi erroneo il ragionamento decisorio dei giudici d'appello, i quali, pur a fronte della pronuncia di risoluzione dei due contratti preliminari per impossibilità sopravvenuta della prestazione, ormai passata in giudicato, hanno nondimeno confermato la statuizione di condanna dei promittenti venditori al pagamento del doppio della caparra, la quale, avendo natura risarcitoria sia pure limitata nel quantum, postula, invece, l'accertamento dell'inadempimento della parte e, dunque, lo scioglimento del vincolo per motivi ad esso conseguenti. Deve perciò affermarsi il seguente principio di diritto La pronuncia di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta dell'esecuzione, in quanto fondata su un fatto estraneo alla sfera di imputabilità dei contraenti, dà luogo ai soli obblighi restitutori derivanti dallo scioglimento del vincolo contrattuale, essendo le prestazioni rese divenute indebite, ma non consente di condannare il debitore al pagamento del doppio della caparra, atteso che questa costituisce una forma risarcitoria limitata nel quantum e correlata al diritto di recesso, che, in quanto strumento di risoluzione negoziale per giusta causa, presuppone l'inadempimento della controparte . 11. In conclusione, dichiarata l'infondatezza del primo motivo, l'inammissibilità del quinto e la fondatezza del quarto, con assorbimento dei restanti, la sentenza deve essere cassata, con rinvio alla Corte d'Appello di Venezia, che, in diversa composizione, dovrà statuire anche sulle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'appello di Venezia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, il 13 luglio 2023.