Nessuna condanna per la coltivazione di cinque piante di canapa indiana

Confermata in Cassazione l’assoluzione pronunciata dal Gip del Tribunale. Riconosciuta la non punibilità. Decisivo il riferimento al numero irrisorio di piante, al quantitativo complessivo di dosi ricavabili, alle modalità strumentali della coltivazione, all’assenza di precedenti penali e di altri elementi da cui desumere la destinazione della sostanza allo spaccio o l’inserimento del coltivatore nel mercato degli stupefacenti.

Destinata all’esclusivo consumo personale, e quindi non punibile, la coltivazione di ben cinque piante di canapa indiana. A finire sotto processo è un uomo, di neanche 30 anni, beccato ad occuparsi della coltivazione di cinque piante di canapa indiana, di altezza variabile tra i 20 cm e i 40 cm . Consequenziale l’accusa di detenzione di sostanza stupefacente a fini di spaccio . Ma tale accusa è priva di fondamento, secondo il Gip del Tribunale. Il giudice assolve difatti l’uomo sotto processo, ritenendolo non punibile, vista la non gravità della condotta contestatagli. La posizione assunta dal Gip viene fortemente contestata dalla Procura, che presenta ricorso in Cassazione per sostenere che l’uomo sotto processo aveva avviato una attività professionale di coltivazione di canapa indiana , adottando ogni specifica modalità attuativa idonea per la buona riuscita dell'operazione, ponendo in essere peculiari accorgimenti ed impiegando tecniche di particolare pregio, sintomo di un approfondimento della materia e non certo di una sporadicità della condotta . Inoltre, dalla Procura ricordano, dopo aver evidenziato che dal prodotto finale erano ricavabili circa quattrocento dosi, che la fattispecie di lieve entità in materia di sostanze stupefacenti e la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto non sono strutturalmente coincidenti . Per i magistrati di Cassazione, però, l’obiezione proposta dalla Procura è assai fragile. In premessa, comunque, i Giudici ribadiscono che non integrano il reato di coltivazione di stupefacenti le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore . I Giudici aggiungono poi che devono considerarsi lecite la coltivazione domestica a fine di autoconsumo , nonché la coltivazione industriale che, all'esito del completo processo di sviluppo delle piante non produca sostanza stupefacente la detenzione di sostanza stupefacente esclusivamente destinata al consumo personale, anche se ottenuta attraverso una coltivazione domestica penalmente lecita . E, comunque, alla coltivazione illecita resta comunque applicabile la non punibilità qualora sussistano i presupposti per ritenerne la particolare tenuità, nonché qualora sussistano i presupposti per ritenere la minore gravità del fatto . Tornando, poi, alla vicenda oggetto del processo, i magistrati di Cassazione confermano la visione del Gip. In conclusione, alla luce delle modalità con cui è stato compiuto il fatto, correttamente è stata riconosciuta la particolare tenuità del fatto . A questo proposito, vengono sottolineati il numero irrisorio di piante, il quantitativo complessivo di dosi ricavabili, le modalità strumentali della coltivazione, l’assenza di precedenti penali e di altri elementi da cui desumere la destinazione della sostanza allo spaccio o l’inserimento del coltivatore nel mercato degli stupefacenti .

Presidente Andreazza – Relatore Andronio Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 5 maggio 2022, resa all'esito di giudizio abbreviato, il Gip del Tribunale di Ragusa ha assolto l'imputato dal reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 81 c.p. e 73, in quanto non punibile ex 131-bis c.p., per particolare tenuità del fatto, in relazione alla coltivazione di cinque piante di canapa indiana, di altezza variabile tra i 20 e i 40 cm. 2. Avverso la sentenza il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello ha proposto ricorso per cassazione, lamentando, con un unico motivo di ricorso, la violazione dell' art. 131-bis c.p. Secondo la prospettazione del ricorrente l'imputato aveva avviato una attività professionale di coltivazione di canapa indiana, adottando ogni specifica modalità attuativa idonea per la buona riuscita dell'operazione, ponendo in essere peculiari accorgimenti ed impiegando tecniche di particolare pregio, sintomo di un approfondimento della materia e non certo di una sporadicità della condotta. Inoltre, dopo aver evidenziato che dal prodotto finale erano ricavabili circa 400 dosi, il Procuratore della Repubblica ricorda che la fattispecie di lieve entità di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, comma 5 dell'art. 73 - al limite configurabile nel caso di specie - e la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto non sono strutturalmente coincidenti. 3. La difesa ha depositato memoria, con la quale chiede che il ricorso sia rigettato, aderendo alla ricostruzione della fattispecie operata nella sentenza impugnata. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. Deve essere richiamato il principio enunciato da questa Suprema Corte - e non preso in considerazione né dal provvedimento impugnato nè dagli atti di parte - per cui non integrano il reato di coltivazione di stupefacenti, per mancanza di tipicità, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore Sez. Un., n. 12348 del 19/12/2019, dep. 2020, Rv. 278624 . Le stesse Sezioni Unite sottolineano che vi è, una graduazione della risposta punitiva rispetto all'attività di coltivazione di piante stupefacenti, nelle sue diverse accezioni a devono considerarsi lecite la coltivazione domestica, a fine di autoconsumo - alle condizioni sopra elencate per mancanza di tipicità, nonché la coltivazione industriale che, all'esito del completo processo di sviluppo delle piante non produca sostanza stupefacente, per mancanza di offensività in concreto b la detenzione di sostanza stupefacente esclusivamente destinata al consumo personale, anche se ottenuta attraverso una coltivazione domestica penalmente lecita, rimane soggetta al regime sanzionatorio amministrativo del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75 c alla coltivazione penalmente illecita restano comunque applicabili l' art. 131-bis c.p. , qualora sussistano i presupposti per ritenerne la particolare tenuità, nonché, in via gradata, il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, qualora sussistano i presupposti per ritenere la minore gravità del fatto. Invero nel caso di specie, alla luce delle modalità con cui è stato compiuto il fatto, il giudice di primo grado - pur non richiamando la più recente giurisprudenza di legittimità sul punto - ha correttamente ritenuto la particolare tenuità del fatto, sulla base di considerazioni logiche e coerenti e, dunque, insindacabile in sede di legittimità. A ben vedere la condotta si colloca - per come descritta nell'imputazione e ritenuta in sentenza - al limite della stessa tipicità presa in considerazione della disposizione incriminatrice per il numero irrisorio di piante, per il quantitativo complessivo di dosi ricavabili, per le modalità rudimentali della coltivazione, per l'assenza di precedenti penali e di altri elementi da cui desumere la destinazione allo spaccio o l'inserimento del soggetto nel mercato degli stupefacenti. Gli elementi presi in considerazione dal giudice consentono, dunque, di ritenere a fortiori applicabile la causa di non punibilità di cui all' art. 131-bis c.p. , a fronte di una prospettazione del ricorrente che appare diretta ad ottenere una sostanziale rivalutazione del merito della vicenda, al di fuori dei limiti previsti dall' art. 606 c.p.p. . 2. Il ricorso, per tali motivi, deve essere dichiarato inammissibile. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso