I beni di rilevanza archeologica non possono essere usucapiti

L’intrinseco interesse storico, artistico o archeologico di beni appartenenti allo Stato o ad altri enti pubblici rende gli stessi qualificabili come beni culturali. Attraverso l'apposizione del vincolo archeologico, infatti, non si costituisce su di essi una nuova qualità ma semplicemente si certifica una prerogativa che il bene già possiede per le sue caratteristiche.

La Corte d'appello di Roma respingeva il gravame avverso la sentenza di prime cure che aveva già respinto la domanda volta ad ottenere l'accertamento dell'acquisto per usucapione della proprietà di un'area antistante l'abitazione dell'originaria attrice, la quale era stata condannata al rilascio dell'area a favore di Roma Capitale. L'area contesa era infatti qualificata come terreno demaniale sottoposta a vincolo archeologico , con conseguente impossibilità di usucapione da parte del privato. La pronuncia è stata impugnata dell'erede dalla soccombente in Cassazione. Il ricorso lamenta, in particolare, che la Corte territoriale avrebbe erroneamente attribuito la qualità di bene demaniale all'area in questione, posto che tale qualità non può essere ricollegata all'imposizione del vincolo archeologico di cui alla l. n. 1089/1939 . La doglianza è infondata. La giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire che non può trovare accoglimento la domanda di usucapione di un bene appartenente al demanio pubblico in ragione della sua intrinseca rilevanza archeologica , affermando la irrilevanza, quanto al possesso, della data del provvedimento di apposizione del vincolo Cass. civ., sez. II, n. 25690/2018 . In particolare, l'immobile di proprietà di un Comune che, sebbene non iscritto nell'elenco di cui all'art. 4, comma 1, l. n. 1098/1939, sia riconosciuto di interesse storico, archeologico o artistico, è soggetto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 822 e 824 c.c. , al regime del demanio pubblico con la conseguenza che non può essere sottratto alla rispettiva destinazione, né essere oggetto di usucapione. I beni muniti di interesse storico, artistico o archeologico appartenenti allo Stato o ad altri enti pubblici, quindi, devono considerarsi tout court culturali attraverso l'apposizione del vincolo archeologico, dunque, non si costituisce su di essi una nuova qualità ma semplicemente si certifica una prerogativa che il bene già possiede per le sue caratteristiche . Correttamente, dunque, la Corte d'appello ha escluso l'assoggettabilità del bene in questione all'usucapione per la sua rilevanza archeologica, nonostante l'apposizione del vincolo sia avvenuta solo qualche anno fa. Il ricorso viene in conclusione rigettato.

Presidente Lombardo – Relatore Rolfi Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 20 dicembre 2018 la Corte d'appello di Roma, nella regolare costituzione dell'appellata omissis , ha respinto il gravame proposto da P.A.M. avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 597-2014, la quale, a propria volta, aveva disatteso la domanda della medesima P.A.M. - volta ad ottenere l'accertamento dell'acquisto per usucapione della proprietà di un'area antistante un immobile di proprietà della stessa attrice, sita in omissis , - mentre, in accoglimento della domanda riconvenzionale del Comune convenuto, aveva condannato la stessa attrice al rilascio della suddetta area a favore di omissis . 2. La Corte territoriale, in primo luogo, ha confermato le conclusioni cui era giunto il giudice di prime cure, nella parte in cui quest'ultimo aveva ritenuto che l'area in questione fosse tuttora terreno demaniale, escludendo che la stessa fosse compresa tra gli immobili che una risalente sentenza pronunciata nel 1947 aveva già accertato essere di titolarità dei danti causa della stessa P.A.M. a seguito di sdemanializzazione. La Corte, infatti, ha ritenuto che la sentenza del 1947 fosse da riferirsi alla titolarità di un complesso scavato nel omissis c.d. omissis ma ha evidenziato che l'inadeguata individuazione dell'area oggetto della domanda di usucapione, da un lato, e la mancata produzione degli elaborati grafici realizzati alla fine degli anni ‘40 e concernenti le aree acquisite dai danti causa dell'attrice, dall'altra, non permettevano in alcun modo di stabilire se l'area oggetto dell'attuale contenzioso fosse stata anch'essa oggetto della sdemanializzazione e dell'accertamento contenuto nella decisione del 1947. Ulteriormente, la sentenza della Corte territoriale ha evidenziato che, nell'ambito del contenzioso che aveva dato origine alla sentenza del 1947, era stata successivamente conclusa una transazione con la quale i danti causa di P.A.M. avevano rinunciato ad ogni pretesa diversa dal riconoscimento della titolarità sulle grotte, da ciò desumendo conferma del fatto che la proprietà dell'area oggetto del presente contenzioso non era stata oggetto di un precedente accertamento. In secondo luogo, la Corte ha ritenuto che non fosse stata data prova del possesso ventennale necessario ai fini dell'acquisto per usucapione, osservando che nel 1990 era stato apposto sull'area in questione vincolo archeologico ex L. n. 1089 del 1939 e che non vi erano prove del possesso ininterrotto dell'attrice per il ventennio 1970-1990, risultando dalla prova testimoniale che il possesso risaliva al più al 1975. La Corte, infine, ha disatteso il motivo di gravame col quale si contestava la natura demaniale dei terreni, rilevando che l'area oggetto della domanda di usucapione risultava sia inventariata nell'inventario dei beni demaniali del Comune di omissis sia sottoposta con D.M. n. 15/11/1990 a vincolo archeologico ex L. n. 1089 del 1939 . 3. Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello di Roma ricorre ora D.P. nella veste di erede di P.A.M., deceduta in data 25 marzo 2019. Resiste con controricorso omissis . 4. La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma degli artt. 375, comma 2, e 380 bis. 1, c.p.c. . Il ricorrente ha depositato memoria. Considerato in diritto 1. Il ricorso è affidato a tre motivi. 1.1. Con il primo motivo il ricorso deduce, in relazione all' art. 360 c.p.c. , n. 5, l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti. Secondo il ricorrente, la Corte territoriale avrebbe recepito le conclusioni del consulente tecnico nominato nel giudizio di prime cure, omettendo di valutare le osservazioni formulate dal C.T.P. di P.A.M., il quale avrebbe proceduto all'esatta identificazione dell'area oggetto della domanda ex art. 1158 c.c. Da tali rilievi, si argomenta in ricorso, emergerebbe che l'area in questione sarebbe stata posseduta sin dalla fine del 1800 dai danti causa dell'originaria attrice, unitamente agli altri immobili la cui proprietà in capo a quest'ultima non era contestata. 1.2. Con il secondo motivo il ricorso deduce, in relazione all' art. 360 c.p.c. , n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1146 e 1158 c.c. , per avere la Corte territoriale escluso che P.A.M. potesse unire al proprio possesso quello del dante causa P.U., il cui possesso anteriore risulterebbe dagli atti del giudizio. 1.3. Con il terzo motivo il ricorso deduce, in relazione all' art. 360 c.p.c. , n. 3, la violazione e falsa applicazione dell' art. 822 c.c. . Il ricorrente deduce che erroneamente la Corte territoriale avrebbe attribuito la qualità di bene demaniale all'area in questione, ed argomenta che tale qualità non può essere ricollegata all'imposizione del vincolo archeologico ex L. n. 1089 del 1939 , non comportando quest'ultimo in alcun modo l'attribuzione della demanialità al bene sottoposto al vincolo. Argomenta ulteriormente il ricorso che l'affermazione del carattere demaniale dell'area non risulterebbe neppure nè da un atto di destinazione del Comune nè dalla destinazione dell'area a pubblico servizio. 2. Il primo motivo di ricorso è inammissibile. Poiché il giudizio di appello è stato instaurato nel 2014, trova applicazione il disposto di cui all' art. 348-ter c.p.c. , dal momento che la decisione della Corte d'Appello non risulta in alcun modo essersi distaccata dal ragionamento del giudice di primo grado, nè parte ricorrente ha indicato le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse Cass. Sez. L - Sentenza n. 20994 del 06/08/2019 Cass. Sez. 1 - Sentenza n. 26774 del 22/12/2016 Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5528 del 10/03/2014 . 3. Il secondo motivo di ricorso è, parimenti, inammissibile. Il motivo, infatti, non evidenzia alcun vizio riconducibile all'ipotesi di cui all' art. 360, n. 3 , c.p.c. , come evidenziato in modo netto dal fatto che le argomentazioni del ricorrente non mirano a dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l'interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità Cass. Sez. 1 - Ordinanza n. 16700 del 05/08/2020 Cass. Sez. 1 - Sentenza n. 24298 del 29/11/2016 ma di fatto orbitano integralmente intorno a meri profili fattuali ed alla valutazione che delle prove è stata operata dalla Corte territoriale. Va, allora, rammentato che non rientra nell'ambito applicativo dell'art. 360, comma 1, n. 3 , l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità Cass. Sez. 1 - Ordinanza n. 640 del 14/01/2019 Cass. Sez. 1 - Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019 , essendo possibile censurare tale valutazione in sede di legittimità, solo sotto l'aspetto del vizio di motivazione, nei limiti in cui una simile censura sia ancora ammissibile Cass. Sez. 1 - Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017 . 4. Il terzo motivo di ricorso è, invece, infondato. Questa Corte, infatti, ha già chiarito - peraltro in fattispecie marcatamente affine a quella che viene ora in rilievo - che non può trovare accoglimento la domanda di usucapione di un bene appartenente al demanio pubblico in ragione della sua intrinseca rilevanza archeologica, affermando la irrilevanza, quanto al possesso, della data del provvedimento di apposizione del vincolo Cass. Sez. 2 - Ordinanza n. 25690 del 15/10/2018 ma si veda in precedenza anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2995 del 10/02/2006 . In particolare, è stato chiarito che l'immobile di proprietà di un Comune che, sebbene non iscritto nell'elenco di cui alla L. n. 1098 del 1939, art. 4, comma 1, sia riconosciuto di interesse storico, archeologico o artistico, è soggetto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 822 e 824 c.c. , al regime del demanio pubblico con la conseguenza che non può essere sottratto alla rispettiva destinazione, nè essere oggetto di usucapione. I beni muniti di interesse storico, artistico o archeologico appartenenti allo Stato o ad altri enti pubblici, quindi, devono considerarsi tout court culturali attraverso l'apposizione del vincolo archeologico, dunque, non si costituisce su di essi una nuova qualità, ma semplicemente si certifica una prerogativa che il bene già possiede per le sue caratteristiche. Ne consegue che nel caso di specie la rilevanza archeologica del bene immobile oggetto di controversia, sebbene dichiarata, attraverso l'apposizione del vincolo specifico, solo nel 1990, era già insita nel bene stesso, con la conseguenza che correttamente la Corte d'Appello di Roma, in applicazione degli artt. 822 e 824 c.c. , ha dichiarato il bene in questione non assoggettabile ad usucapione, perché soggetto al regime del demanio pubblico. 5. Il ricorso deve quindi essere respinto, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione in favore del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate direttamente in dispositivo. 6. Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto , spettando all'amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento Cass. Sez. U, Sentenza n. 4315 del 20/02/2020 - Rv. 657198 - 05 . P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente a rifondere ai controricorrenti le spese del giudizio di Cassazione, che liquida in Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 1 3 comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1 , comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.