Condannato per truffa l’avvocato che si fa versare un compenso superiore a quello riconosciuto dal giudice

Confermata la condanna per truffa a carico di un avvocato per aver dichiarato al suo cliente un esito giudiziario diverso da quello reale, in relazione alle spese legali liquidate dal giudice, e per essersi fatto versare, di conseguenza, un compenso decisamente superiore a quello reale. Cade però la condanna per patrocinio infedele.

La Corte d'appello di Roma confermava la condanna di prime cure dell'imputato per il reato di truffa , tentata truffa e infedele patrocinio . Dalla ricostruzione della vicenda era emerso che l'imputato, in qualità di avvocato, aveva falsamente dichiarato alla persona offesa suo assistito che il giudice aveva liquidato un importo a titolo di risarcimento danni superiore a quello reale e che l'importo a titolo di onorario era di oltre 120mila euro anziché 20mila , somma che il cliente gli aveva di conseguenza versato. L'avvocato aveva inoltre tentato di farsi consegnare altre somme di denaro, da qui la condanna per tentata truffa. La difesa ha proposto ricorso in Cassazione dolendosi, per quanto qui d'interesse, per l'insussistenza del reato di infedele patrocinio in quanto l'avvocato non avrebbe violato i principi di lealtà , buona fede e correttezza che contraddistinguono la professione legale. La doglianza risulta fondata. Il Collegio conferma infatti la sentenza impugnata in relazione alle fattispecie della truffa e tentata truffa, ma accoglie il motivo di ricorso relativo all'insussistenza del patrocinio infedele, seppur per ragioni differenti da quelle sollevate dal ricorrente. La fattispecie in parola, come descritta dall' art. 380 c.p. , costituisce un reato di evento che consiste in un nocumento per gli interessi della parte, concettualmente distinto dalla condotta di violazione dei doveri professionali. Secondo la giurisprudenza, il concetto di nocumento non va inteso in senso civilistico quale danno patrimoniale, potendo consistere anche nel mancato conseguimento di beni giuridici o di benefici morali v. Cass. pen. Sez. VI n. 5764/2019 , dep. 2020 Cass. pen. Sez. V n. 22978/2917 . Deve inoltre essere precisato che il fatto descritto dall' art. 380 c.p. presuppone la pendenza di un procedimento, come si deduce dal dato letterale e dalla collocazione sistematica della fattispecie delitti contro l'amministrazione della giustizia . Tirando le somme, ai fini dell'integrazione del delitto di cui all' art. 380 c.p. occorre accertare la realizzazione di un danno discendente dalla gestione della causa nel cui ambito si è verificata la violazione dei doveri di diligenza . Applicando tali principi alla vicenda in esame, sebbene segnato da una spregiudicata violazione dei doveri di correttezza professionale nei confronti dell'assistito , il fatto contestato al ricorrente si colloca al di fuori del contesto processuale , non sussiste dunque un danno all'interesse pubblicistico. In conclusione, la Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all' art. 380 c.p. , con rinvio per un nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'Appello di Roma.

Presidente Villoni – Relatore Di Giovine Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Roma confermava la sentenza con cui il Tribunale di Velletri aveva condannato S.F. alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione nonché di Euro 800 di multa per i reati truffa art. 640 c.p. , tentata truffa art. 56 c.p. 640 c.p. e infedele patrocinio art. 380 c.p. . In particolare, quanto alla truffa capo a, n. 1 e al patrocinio infedele capo b , a S. è stato ascritto di aver dichiarato falsamente alla persona offesa B.T. , suo assistito, che il giudice aveva indicato in sentenza, oltre all'importo del risarcimento del danno, 120,000 Euro anziché 20,000 Euro a titolo di onorario, sicché l'imputato, giustificando presso il suo assistito l'eccessivo importo affermando che avrebbe a breve ricevuto ulteriori 500.000 Euro a titolo di risarcimento, lo induceva in errore facendosi consegnare 100.000 Euro, somma così ridotta rispetto all'originario importo, nelle seguenti modalità 20.000 Euro in contanti e otto assegni da 10.000 Euro. Quanto alla tentata truffa capo a, n. 2 , a S. è stato ascritto di aver cercato di farsi consegnare altre somme di denaro, formando due atti pubblici falsi, in particolare la comunicazione della sentenza alle parti da parte del Presidente di sezione della Corte di appello civile di Roma, sentenza in realtà mai pronunciata, e la ricevuta della comunicazione di cancelleria inoltrata all'indirizzo PEC del suo studio, comunicazione in realtà mai effettuata, dissuadendo il suo assistito dall'assumere personalmente informazioni presso la Corte di appello, ovvero riferiva al suo assistito che per ritirare la sentenza gli avrebbe dovuto consegnare i 20.000 Euro residui a titolo di onorario ed ulteriori 70.000 Euro per il secondo grado di giudizio, senza tuttavia riuscire nell'intento a causa del rifiuto opposto da B. , il quale nel frattempo era venuto a conoscenza della truffa. 2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso S.F. che, per il tramite del suo difensore, avvocato Germano Paolini, deduce i seguenti motivi di ricorso. 1. Violazione del divieto di bis in idem in relazione alla condanna per tentata truffa capo a, n. 2 , essendo stato S.F. già condannato per i delitti di falso per gli stessi fatti, realizzati nel medesimo arco temporale e fra gli stessi soggetti, a seguito di un procedimento nel quale B. si costituiva parte civile chiedendo il risarcimento dei danni che il giudice disponeva dovesse avvenire in separata sede. 2. Errata applicazione della legge penale in relazione all'ipotesi di tentata truffa e vizio di motivazione. Secondo il ricorrente, gli atti posti in essere dall'imputato non erano idonei a realizzare il delitto, dal momento che B. avrebbe potuto in qualunque momento recarsi presso la cancelleria della Corte di appello civile di Roma e chiedere notizie del procedimento, oppure farsi accompagnare da un qualsiasi altro avvocato, essendo risaputo che l'Ufficio informazioni della Corte di appello civile rilascia informazioni sullo stato di un procedimento, anche senza un R.G., con unicamente il nome e cognome della parte . 3. Errata applicazione della legge penale in relazione all'infedele patrocinio. L'imputato non avrebbe mai violato i principi di lealtà, buona fede e correttezza che contraddistinguono la professione legale ed avrebbe, anzi, adempiuto al mandato professionale in maniera scrupolosa, avendo sempre comunicato al proprio cliente lo stato del procedimento civile di risarcimento del danno che lo riguardava. D'altronde, il giudizio di primo grado, durato circa due anni - quindi un tempo più che ragionevole - si è concluso con una sentenza che gli ha riconosciuto un danno di 700.000 Euro. La controparte ha impugnato la sentenza e, nonostante ne avesse chiesto e ottenuto la sospensione dell'esecutività per l'importo eccedente Euro100.000, a B. è stata comunque corrisposta una somma superiore a 220.000 Euro. 2.4. Violazione e falsa applicazione dell' art. 546 cod. proc, pen. e dell'art. 133 c.p. per omessa motivazione sulla commisurazione della pena, nonostante i giudici si siano ampiamente discostati dal minimo edittale. 2.5. Violazione e falsa applicazione dell' art. 546 cod. proc, pen. e degli artt. 62-bis e 69 c.p. . I giudici non avrebbero considerato l'attività lavorativa dell'imputato, il suo status personale e culturale e non avrebbero bilanciato l'aggravante di cui all' art. 61 n. 7 c.p. danno di particolare gravità con le attenuanti generiche non riconosciute. Considerato in diritto 1.1. I primi due motivi di ricorso sono inammissibili, in quanto reiterano doglianze cui il giudice dell'appello ha già fornito completa e coerente risposta e sfuggono, dunque, al sindacato di questa Corte. 2. In particolare, alla dedotta violazione dell' art. 649, comma 2, c.p. in ragione della precedente condanna dell'imputato per il delitto di falso, i giudici di secondo grado - assumendo implicitamente ma correttamente che il rilievo concerna la contestazione del capo a, n. 2 - ha già replicato escludendo la configurabilità del lamentato bis in idem, in quanto i delitti di falso, posti a tutela di diverso e pubblicistico bene giuridico, sono soltanto uno degli artifizi o raggiri realizzati dall'imputato in danno degli interessi patrimoniali della parte offesa nell'ambito di una più ampia e articolata vicenda storica che integra anche gli altri estremi della tentata truffa, finalizzata al conseguimento di un interesse patrimoniale con danno per il B. . 3. Manifestamente infondati appaiono altresì i rilievi dedotti nel secondo motivo di ricorso, relativi alla supposta inidoneità degli atti posti in essere dall'imputato per realizzare la tentata truffa di cui al capo a, n. 2 . Sul punto è appena il caso di ricordare che il requisito della idoneità nel tentativo art. 56 c.p. va valutato ex ante, sulla scorta delle conoscenze disponibili al momento della realizzazione degli atti da parte del soggetto agente. Ciò premesso, i giudici dell'appello hanno avuto cura di precisare che la probabilità che l'azione delittuosa fosse portata a compimento risulta, nel caso di specie, ìncrementata dal rapporto di parentela tra l'imputato e la parte civile cognato di S. - suscettibile di rafforzare la fiducia della persona offesa nel proprio difensore -, e desumibile dalle specifiche modalità comportamentali di S. , che dissuadeva l'assistito dal proposito di accedere personalmente presso la cancelleria, rappresentando falsamente come tale accesso potesse avvenire soltanto a mezzo di difensore. 4. La sentenza di secondo grado va dunque confermata quanto all'affermazione di responsabilità per i delitti di truffa art. 640 c.p. e di tentata truffa art. 56 c.p. art. 640 c.p. di cui ai capi a 1 e a 2 . 5. Merita invece di essere accolto il terzo motivo, relativo alla configurabilità del delitto di patrocinio infedele art. 380 c.p. , sebbene per ragioni non coincidenti con quelle rappresentate nel ricorso. Sul punto, va premesso che la fattispecie di cui all' art. 380 c.p. è descritta quale reato di evento, che consiste in un nocumento agli interessi della parte, concettualmente distinto dalla condotta di violazione dei doveri professionali Sez. 6, n, 5764 del 07/11/2019, dep. 2020, Spadafora, Rv. 278209 , ma che, secondo una giurisprudenza di questa Corte, non necessariamente va inteso in senso civilistico quale danno patrimoniale, potendo pure consistere nel mancato conseguimento di beni giuridici o di benefici, anche solo di ordine morale, che avrebbero potuto seguire al corretto e leale esercizio del patrocinio legale Sez. 5, n. 22978 del 03/02/2017, Strammiello, Rv. 270200, relativo ad un caso in cui la condotta del professionista aveva determinato un allungamento dei tempi del processo penale, conclusosi con esito negativo per la persona offesa patrocinata . Anche ad aderire a tale orientamento che tuttavia determina una potenziale sovrapposizione tra evento e condotta violazione dei doveri di diligenza , resta pur sempre il fatto che il tipo di cui all' art. 380 c.p. presuppone la pendenza di un procedimento. Tanto si desume dal testo legislativo, ove fa riferimento alla parte difesa, assistita o rappresentata dinanzi all'autorità giudiziaria , e, soprattutto, dalla collocazione sistematica della fattispecie posta tra i delitti contro l'amministrazione della giustizia , la quale ha indotto la dottrina ad individuare il bene tutelato nel pubblico interesse a garantire il corretto e leale funzionamento dell'attività giudiziaria da parte dei patrocinatori e la giurisprudenza di legittimità a caratterizzare in senso endoprocessuale l'area di operatività del reato Sez. 5, n. 22978 del 03/02/2017, Strammiello, cit. Sez. 6, n. 8617 del 30/01/2020, Bruno, Rv. 278710 . In altre parole, ai fini dell'integrazione del delitto di cui all' art. 380 c.p. , occorre accertare la realizzazione di un danno discendente dalla gestione della causa nel cui ambito si è verificata la violazione dei doveri di diligenza. Se è così, e tornando al caso di specie, sebbene segnato da una spregiudicata violazione dei doveri di correttezza professionale nei confronti dell'assistito, il fatto contestato a S. - aver dichiarato alla parte un esito giudiziario diverso da quello reale, quanto all'importo delle spese di difesa liquidato, ed essersi fatto corrispondere, di conseguenza, un compenso superiore a quello disposto dal giudice - si colloca al di fuori dell'ambito processuale senza, peraltro, che dalle sentenze di merito emergano elementi denotanti mala gestio professionale . Non arreca, pertanto, danno all'interesse pubblicistico, rispetto al quale l'interesse della parte può trovare tutela in via meramente accessoria, come pure dimostrato dal fatto che, a ritenere diversamente, ci troveremmo - questa volta sì - al cospetto di un bis idem rispetto al delitto di truffa, già ascritto all'imputato, che verrebbe, dunque, punito due volte per lo stesso fatto. 6. La sentenza impugnata va, quindi, annullata, limitatamente al delitto di patrocinio infedele contestato al capo b , con rinvio per nuovo giudizio sul punto, nell'ambito del quale il giudice, oltre a rideterminare la pena complessiva, provvederà a liquidare, a favore della parte civile, le spese relativamente ai reati non investiti dalla decisione di annullamento. 7. Il quarto e il quinto motivo di ricorso, sul trattamento sanzionatorio e la mancata concessione delle attenuanti generiche non possono essere valutati, poiché non previamente devoluti in appello ex art. 606, comma 3, ult. parte, c.p.p. . P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all 'art. 380 c.p ., con rinvio per nuovo giudizio su tale capo ad altra sezione della Corte di appello di Roma.