Condanna definitiva per un segretario comunale che in un piccolo paese del Veneto aveva segnalato con una missiva al sindaco e all’Ufficio del Personale il comportamento tenuto dal dipendente, additato, nello scritto, come “subdolo” e “furbetto”.
Dare del “furbetto” e del “subdolo” al dipendente comunale che si assenta all'improvviso, lasciando sguarnito l'ufficio, vale una condanna per diffamazione. Missiva. Scenario della vicenda è un piccolo paese in Veneto. A dare il ‘la' alla querelle giudiziaria è una missiva, inoltrata dal segretario comunale all'Ufficio del Personale del Comune, al primo cittadino e, addirittura, alla trasmissione ‘Report', missiva in cui si accusa un dipendente di «avere tenuto un comportamento sleale e astuto, assentandosi senza avvertire che l'ufficio sarebbe rimasto privo di personale e così cagionando un disservizio» alla struttura. A provocare la reazione del dipendente censurato nella missiva sono due termini “subdolo” e “furbetto”. Proprio alla luce di questi due epiteti, il lavoratore ritiene il segretario comunale colpevole di diffamazione ai suoi danni. E i giudici di merito gli danno ragione, condannando, sia in primo che in secondo grado, il segretario comunale e obbligandolo anche a pagare 1.000 euro di multa. Linguaggio. Col ricorso in Cassazione, però, il legale che rappresenta il segretario comunale fornisce una chiave di lettura diversa della missiva, sostenendo ci si trovi di fronte ad «una mera critica al comportamento tenuto dal dipendente del Comune, responsabile di aver causato un disservizio sul luogo di lavoro, assentandosi senza comunicare preventivamente che l'ufficio sarebbe rimasto completamente sguarnito di personale». Secondo il legale va esclusa la colpevolezza del suo cliente, poiché «le espressioni contenute nello scritto incriminato sono di uso corrente» e, comune, «erano giustificate dalla contestualità del fatto», alla luce della «situazione di disagio determinata dal comportamento tenuto dal dipendente comunale». Alle obiezioni difensive i giudici di Cassazione ribattono in modo netto, sottolineando «il carattere diffamatorio dei termini “subdolo” e “furbetti”» e ravvisando nelle locuzioni usate nello scritto incriminato «lo strumento attraverso cui il segretario comunale ha inferto un attacco personale alla dignità professionale del lavoratore, non correlato al lamentato comportamento e tendente ad attribuire al lavoratore comportamenti spregevoli e inutilmente umilianti». Impossibile, quindi, ipotizzare che il segretario comunale abbia esercitato legittimamente il diritto di critica. Su questo punto i magistrati chiariscono che «l'attribuzione al lavoratore di un comportamento subdolo, rafforzato dall'espressione “i furbetti devono smettere”, esula dai limiti della critica al comportamento del lavoratore nella specifica vicenda che dava origine ai fatti, risolvendosi, invece, in una gratuita aggressione» ai suoi danni, anche perché, concludono i giudici, «l'inoltro dello scritto incriminato è avvenuto in assenza di un accertamento preventivo concernente la veridicità delle affermazioni in merito al disservizio cagionato all'ufficio dal comportamento del dipendente». In conclusione, a inchiodare il segretario comunale è la palese «portata offensiva delle frasi contenute nello scritto» inoltrato, come detto, all'‘Ufficio del Personale' del Comune, al sindaco e alla trasmissione ‘Report'.
Presidente Zaza - Relatore Carusillo Ritenuto in fatto 1. Il difensore di A.P., avv. omissis , propone ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Verona che, in parziale riforma della decisione del Giudice di Pace di Verona, ha confermato la penale responsabilità dell'imputato, segretario comunale, in ordine al delitto di cui all'articolo 595 c.p. - perché, nel corpo di una missiva inoltrata anche all'Ufficio del personale del Comune di Lazise, al Sindaco e alla redazione della trasmissione Report Rai, accusava A.R., di aver tenuto un comportamento sleale e astuto assentandosi dal luogo di lavoro senza avvertire che lo stesso sarebbe rimasto privo di personale, così cagionando un disservizio all'ufficio - e ha ridotto a Euro 1.000,00 di multa la pena accessoria inflitta all' A 2. La difesa articola le proprie censure in due motivi. 2.1 Con il primo motivo, proposto ai sensi dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lett. b , per erronea applicazione di norme in relazione all'articolo 595 c.p., lamenta che il tribunale ha ravvisato l'elemento oggettivo del delitto in quella che altro non era che una mera critica al comportamento tenuto dalla parte offesa, responsabile di aver causato un disservizio sul luogo di lavoro, assentandosi senza comunicare preventivamente che l'ufficio sarebbe rimasto completamente sguarnito di personale. 2.2 Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lett. e , per vizio di motivazione, lamenta che il giudice di appello, con motivazione contraddittoria, ha valutato la situazione di disagio determinata dal comportamento della parte offesa solo ai fini della determinazione della pena e non anche ai fini dell'esclusione della colpevolezza dell'imputato, senza considerare che le espressioni contenute nello scritto incriminato, peraltro giustificate dalla contestualità del fatto, erano di uso corrente. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Premesso che la sentenza in verifica è stata emessa il 23 maggio 2022, deve darsi atto che ai sensi del D. Lgs numero 274 del 28 agosto 2000, articolo 606 c.p.p., comma 2-bis, e articolo 39-bis - entrambi introdotti dal D.Lgs. numero 11 del 6 febbraio 2018, -, avverso le sentenze di appello pronunciate per reati di competenza del giudice di pace, il ricorso per cassazione non può essere proposto per motivi diversi da quelli previsti dalle lett. a , b e c dell'articolo articolo 606 del codice di rito, rimanendo, quindi, inibita la prospettazione di meri vizi della motivazione Sez. 5, numero 22854 del 29/04/2019, De Bilio, Rv. 275557 . 3. Nel caso di specie, il primo motivo, con il quale si eccepisce l'erronea applicazione della legge penale, oltre a essere generico, si traduce nella prospettazione di ulteriori e indeducibili vizi di motivazione della sentenza impugnata, poiché, con la censura proposta, il ricorrente sollecita una rivalutazione dei fatti, senza confrontarsi con la sentenza impugnata. 4. In tema di diffamazione, la giurisprudenza di legittimità ha affermato il principio di diritto secondo cui se è vero che le espressioni potenzialmente diffamatorie devono essere valutate in relazione al contesto nel quale la condotta si colloca, è anche vero che, in alcun modo, l'uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona in quanto tale può scriminare il comportamento dell'agente Sez. 5, numero 15060 del 23/02/2011, Dessì, Rv. 250174 . Con la sentenza impugnata, i giudici di secondo grado hanno evidenziato il carattere diffamatorio dei termini subdolo e furbetti , ravvisando nelle locuzioni usate nello scritto incriminato lo strumento attraverso il quale il ricorrente ha inferto un attacco personale alla dignità professionale della vittima, non correlato al lamentato comportamento, tendente ad attribuire all'offeso comportamenti spregevoli e inutilmente umilianti, così correttamente escludendo la sussistenza della scriminante del diritto di critica per assenza del requisito della continenza espressiva. Nel caso di specie, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l'attribuzione all' A. di un comportamento subdolo , rafforzato dall'espressione i furbetti devono smettere , esula dai limiti della critica al comportamento della persona offesa nella specifica vicenda che dava origine ai fatti, risolvendosi in una gratuita aggressione della persona offesa, là dove si consideri, peraltro, che l'inoltro dello scritto incriminato è avvenuto in assenza di un accertamento preventivo concernente la veridicità delle affermazioni in merito al disservizio cagionato all'ufficio dal comportamento dell' A 5. Quanto al secondo motivo, che espressamente prospetta un indeducibile vizio di motivazione, il giudice di appello ha sottolineato che l'asserito disservizio, anche là dove accertato, non sarebbe stato idoneo a scriminare la condotta contestata, proprio in ragione della portata offensiva delle frasi contenute nello scritto. Sicché, esercitando correttamente il potere discrezionale, il giudice di appello ha valutato il comportamento della parte offesa ai soli fini della determinazione della pena inflitta all'imputato e non anche quale scriminante della condotta. 6. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.