Lui in strada a parcheggiare, il collega gli timbra il badge: legittimo il licenziamento

Impossibile ridimensionare la condotta tenuta dall’oramai ex dipendente di una società municipalizzata. Irrilevante il riferimento alla breve durata della presenza solo virtuale in ufficio. Palesemente grave, invece, secondo i Giudici, l’avere violato un preciso ordine di servizio dell’azienda.

Sacrosanto il licenziamento del dipendente della azienda municipalizzata che si è fatto timbrare il badge da un collega di lavoro per avere così il tempo di parcheggiare con calma la propria vettura prima di prendere servizio. Evidente, secondo i Giudici, la gravità della condotta tenuta dal lavoratore, e ciò a prescindere dalla durata della presenza virtuale in ufficio. Ricostruita la vicenda, che ha coinvolto in Puglia un dipendente di una municipalizzata, i giudici di merito ritengono legittimo il licenziamento deciso dall’azienda, a fronte della condotta tenuta in diverse occasioni dal lavoratore, risultato in ufficio, grazie al badge timbratogli da un collega, mentre era in strada impegnato a parcheggiare la propria auto. Nello specifico, i giudici d’Appello osservano che, «pur non essendo possibile accertare in che misura l’utilizzo improprio del badge avesse permesso al lavoratore di attestare falsamente la presenza in azienda», «la contestazione di addebito non ha avuto tanto ad oggetto l’assenza ingiustificata quanto piuttosto l’uso distorto del rilevatore delle presenze e del badge personale che, in base anche ad uno specifico ordine di servizio, doveva necessariamente essere eseguita personalmente dai lavoratori all’interno dell’azienda e non da parte di terze persone compiacenti, come puntualmente contestato al lavoratore» messo alla porta. In questa ottica, quindi, secondo i giudici d’Appello è «irrilevante la durata dell’assenza dal posto di lavoro», mentre «è proporzionata la sanzione irrogata dall’azienda, trattandosi di abuso di fiducia punito con il licenziamento». In Cassazione, però, l’avvocato che rappresenta il lavoratore prova a ridimensionare i fatti che hanno portato al licenziamento del suo cliente. Secondo il legale, difatti, «la condotta accertata in giudizio non costituisce una giusta causa di recesso, visto il suo effettivo disvalore», anche tenendo presente che «la medesima condotta è stata diversamente trattata con riguardo ad un altro dipendente, resosi responsabile proprio della timbratura in favore» del lavoratore messo alla porta. Per chiudere il cerchio difensivo, infine, il legale sottolinea che «il tempo non lavorato era esiguo e le finalità sottese» alla condotta oggetto del processo «erano irrilevanti, cioè non perdere tempo a parcheggiare», sicché i fatti «sono privi di rilievo e», secondo il legale, «non possono essere puniti con una sanzione disciplinare così grave». Queste obiezioni non convincono i Giudici di Cassazione, i quali confermano in via definitiva il licenziamento dell’oramai ex dipendente della municipalizzata pugliese. Condivisa in pieno la linea seguita in Appello, laddove si era sancito che «la violazione dell’ordine di servizio con cui era stato previsto che l’uso del badge da parte di altri colleghi sarebbe stato sanzionato con il licenziamento» è condotta «sufficiente ad integrare la giusta causa di licenziamento, ravvisandovi l’abuso di fiducia». In sostanza, «a prescindere dalla durata dell’assenza e dal possibile conseguente danno arrecato all’azienda, che ha remunerato il servizio per tutto il tempo ufficialmente lavorato, la condotta è illecita in quanto attraverso tale vietato uso del badge il lavoratore ha dissimulato la propria presenza in servizio in un determinato momento». Tranchant la chiusura dei Giudici di Cassazione, i quali sottolineano «il disvalore della condotta» tenuta dal lavoratore e chiariscono che «è oggettivamente grave la condotta del lavoratore che in maniera truffaldina consegni ad altri il tesserino attestante la sua presenza in azienda, facendolo timbrare per risultare presente quando ancora non ha raggiunto il luogo di lavoro». E in questa ottica va sottolineata «l’irrilevanza in sé della durata dell’assenza», precisano infine i magistrati.

Presidente Esposito – Relatore Garri Rilevato che   1. D.P.N. impugnò il licenziamento per giusta causa intimatogli da Omissis s.p.a. il 23.5.2017 deducendone l'illegittimità e chiedendo in via principale di essere reintegrato nel posto di lavoro in precedenza occupato ed in via subordinata la condanna della società datrice al risarcimento del danno. 2. Il Tribunale di Taranto, sia in sede sommaria che all'esito dell'opposizione confermò la legittimità del licenziamento. 3. La Corte di appello di Lecce investita del reclamo da parte del lavoratore lo ha rigettato confermando l'accertata legittimità del recesso. 3.1. Il giudice del reclamo ha osservato che, pur non essendo possibile accertare in che misura l'utilizzo improprio del badge avesse permesso al lavoratore di attestare falsamente la sua presenza in azienda, tuttavia la contestazione di addebito non aveva tanto ad oggetto l'assenza ingiustificata quanto piuttosto l'uso distorto del rilevatore delle presenze e del badge personale che in base anche all'ordine di servizio del 2 novembre 2012 dell' Omissis doveva necessariamente essere eseguita personalmente dai lavoratori all'interno dell'azienda e non da parte di terzi compiacenti come puntualmente contestato al lavoratore restando così irrilevante la durata dell'assenza dal posto di lavoro. 3.2. Inoltre, ha ritenuto proporzionata la sanzione irrogata trattandosi di abuso di fiducia punito con il licenziamento dall'articolo 14 punto 5 allegato A dell'Accordo Nazionale 27.11.2000. 3.3. Da ultimo ha evidenziato che la scelta aziendale di applicare ad alcuni dipendenti per fatti analoghi la meno grave sanzione della retrocessione era giustificata dall'applicabilità nei loro confronti, e non anche nei riguardi del D.P., del regolamento di cui all'allegato A al R.D. numero 148 del 1931 articolo 55 . 4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso D.P.N. affidato ad un unico motivo. Omissis s.p.a.- Omissis ha resistito con tempestivo controricorso.   Considerato che   5. Con il ricorso D.P.N. ha denunciato in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, numero 3. la violazione e falsa applicazione degli articolo 2106 e 2119 c.c. e della L. numero 300 del 1970, articolo 7 in relazione alla L. numero 300 del 1970, articolo 18 comma 4, ovvero in relazione all'articolo 18 comma 5 della medesima legge così come modificati dalla L. numero 92 del 2012. 5.1. Deduce il ricorrente che erroneamente sia la Corte del reclamo che il giudice di primo grado avevano ritenuto che la violazione dell' ordine di servizio - con il quale era stato previsto che l'uso del badge da parte di altri colleghi, vietato, sarebbe stato sanzionato con il licenziamento - fosse sufficiente ad integrare la giusta causa di licenziamento ravvisandovi l'abuso di fiducia previsto dal CCNL del 2000. A prescindere dalla durata dell'assenza e dal possibile conseguente danno arrecato all'azienda, la quale aveva remunerato il servizio per tutto il tempo che risultava lavorato, la condotta era illecita in quanto attraverso tale uso del badge egli avrebbe dissimulato la propria presenza in servizio in un determinato momento dopo l'apparente entrata in servizio o prima dell'apparente uscita dalla sede . 5.2. Ad avviso del ricorrente, invece, la condotta accertata in giudizio non integrerebbe una giusta causa di recesso in considerazione del suo effettivo disvalore. Sottolinea che la medesima condotta era stata diversamente trattata con riguardo ad un altro dipendente resosi responsabile proprio della timbratura in suo favore. Inoltre, il tempo non lavorato era esiguo e le finalità sottese erano irrilevanti non perdere tempo a parcheggiare sicché il fatto sarebbe privo di rilievo al punto da risultare insussistente o quanto meno da non poter essere punito con una sanzione disciplinare così grave. 6. Il ricorso non può essere accolto. 6.1. Va qui ribadito che l'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'articolo 2119 c.c.  norma cd. elastica , compiuta dal giudice di merito - ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento - non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale cfr. Cass. 20/05/2019 numero 13534 . 6.2. Nel caso in esame il ricorrente non ha indicato i parametri integrativi del precetto normativo elastico che sarebbero stati violati dai giudici di merito, e si limita a contrapporre una ricostruzione e valutazione dei fatti diversa rispetto a quella posta a base della decisione impugnata. 6.3. Peraltro, l'operazione di sussunzione della condotta accertata nella fattispecie astratta e la valutazione di gravità effettuata dalla Corte del reclamo è stata motivatamente agganciata a standard di percezione del disvalore della condotta del tutto condivisi. E' oggettivamente grave la condotta di chi in maniera truffaldina consegni ad altri il tesserino attestante la sua presenza in azienda, facendolo timbrare per risultare presente quando ancora non aveva raggiunto il luogo di lavoro. Correttamente la Corte di merito ha sottolineato l'irrilevanza in sé della durata dell'assenza ed ha evidenziato che la ripetizione della condotta, tutt'altro che episodica, ne connota la gravità e giustifica la sanzione irrogata. 7. In conclusione il ricorso è inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato D.P.R., articolo 13 comma 1 bis, se dovuto.   P.Q.M.   La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 4.500,00 per compensi professionali, Euro200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge. Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato D.P.R., articolo 13 comma 1 bis, se dovuto.