Confermata in via definitiva la responsabilità penale dell’uomo finito sotto processo per le condotte persecutorie tenute per oltre un anno nei confronti dell’allora fidanzata. Irrilevante, chiariscono i Giudici, che in quell’arco temporale vi siano stati due mesi, quelli del lockdown imposto dallo Stato in piena pandemia, in cui l’uomo e la ragazza non abbiano potuto avere alcun contatto.
L’isolamento forzato imposto dallo Stato in piena pandemia e il conseguente stop alle attività persecutorie messo in atto dallo stalker non bastano per mettere in discussione la condanna dell’uomo finito sotto processo per avere perseguitato la compagna. Scenario della vicenda è la provincia sarda. Protagonista negativo è un uomo, che finisce sotto processo per la gelosia ossessiva e aggressiva manifestata da agosto 2019 ad ottobre 2020 nei confronti della fidanzata. Il quadro probatorio, tracciato grazie ai racconti della ragazza, spinge i giudici di merito a ritenere sacrosanta, sia in primo che in secondo grado, la condanna dell’uomo, ritenuto colpevole del reato di stalking per avere da subito manifestato verso la fidanzata una gelosia morbosa. Nello specifico, si è appurato che l’uomo «controllava continuamente la giovane per verificare che fosse in casa, seguendola quando usciva e prendendole di forza il telefono cellulare per controllare conversazioni e messaggi». Col ricorso in Cassazione, però, il legale che difende l’uomo sostiene sia illogico parlare di stalking, soprattutto perché «l’uomo e la persona offesa non si sono frequentati durante il lockdown della primavera 2020, causato dalla pandemia da Covid-19» e lo stesso giudice di primo grado «ha riconosciuto che tra agosto ed ottobre 2019 non è accaduto nulla di grave tra i due fidanzati». Chiaro l’obiettivo della difesa fare riferimento alla obbligata assenza di contatti tra i due fidanzati durante l’isolamento imposto dallo Stato e mettere così in discussione l’abitualità delle condotte persecutorie tenute dall’uomo. Ma il ragionamento portato avanti dal legale viene respinto in modo netto dai giudici della Cassazione, i quali chiariscono che «è irrilevante la mancata frequentazione» tra i due fidanzati causata dai «due mesi di lockdown» imposti dallo Stato per fronteggiare la pandemia. Impossibile, quindi, mettere in dubbio l’abitualità delle condotte persecutorie tenute dall’uomo nei confronti della fidanzata. Per fare chiarezza, poi, i Magistrati sottolineano che «l’uomo, già da pochi mesi dall’inizio della relazione con la persona offesa, aveva manifestato una gelosia morbosa, controllando continuamente la giovane per verificare che fosse in casa, seguendola quando usciva e prendendole il telefono cellulare per controllare conversazioni e messaggi» e successivamente «egli, quando la ragazza aveva provato ad opporsi, aveva preso a picchiarla, offenderla ripetutamente, lanciarle contro oggetti e minacciarla». E tale situazione «aveva creato nella giovane un grave e perdurante stato di ansia e di paura, confermato dalle dichiarazioni dei suoi genitori e delle persone a lei più vicine». In particolare, i primi hanno riferito «non solo di aver visto lividi e segni di aggressioni sul corpo della figlia ma anche che lei spesso scoppiava a piangere, apparentemente senza motivo, ed assumeva un atteggiamento chiuso ed impaurito dopo le telefonate col fidanzato». Inoltre, i genitori hanno anche dichiarato che «la figlia – in totale stato di sudditanza psicologica – aveva cambiato atteggiamento nei loro confronti, chiudendosi sempre più in sé stessa, ed aveva evitato qualsiasi domanda che riguardasse la sua relazione, fino a mentire sui certificati medici trovati in casa e relativi ad accessi al Pronto Soccorso» a seguito delle percosse subite per mano del fidanzato. Analogamente, gli amici della ragazza hanno confermato a più riprese le violenze da lei subite e hanno anche riferito dell’«evidente stato di timore che ella nutriva nei confronti del fidanzato, tanto che, quando usciva con loro, aveva sempre il telefono in mano e controllava in continuazione, perché sapeva che se avesse tardato a rispondergli, lui le avrebbe fatto una scenata». Logico, quindi, parlare di stalking, sanciscono i Giudici di Cassazione, i quali sottolineano l’irrilevanza della «mancata frequentazione per due mesi circa, durante il lockdown» e dei «brevi periodi in cui il rapporto non aveva fatto registrare violenza, ingiurie o minacce». Ciò alla luce del principio secondo cui «nel reato di atti persecutori il temporaneo ed episodico riavvicinamento della vittima al suo persecutore non interrompe l’abitualità del reato, né inficia la continuità delle condotte, quando sussista l’oggettiva e complessiva idoneità delle stesse condotte a generare nella vittima un progressivo accumulo di disagio che degenera in uno stato di prostrazione psicologica».
Presidente Galterio – Relatore Mengoni Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 1/3/2022, la Corte di appello di Cagliari riduceva la pena inflitta ad D.O. dal Giudice per le indagini preliminari del locale Tribunale, con sentenza del 17/6/2021, in relazione ai reati di cui alla contestazione. 2. Propone ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi - mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione inosservanza e/o erronea applicazione dell'articolo 612-bis c.p. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna, quanto al reato in oggetto, senza esaminare i motivi aggiunti al gravame e, dunque, senza affrontare le censure mosse quanto all'abitualità della condotta di reato la difesa, in particolare, avrebbe sottolineato che l'imputato e la persona offesa non si erano frequentati durante il lockdown della primavera 2020, causato dalla pandemia da Covid-19, e lo stesso Giudice di primo grado avrebbe riconosciuto che tra agosto ed ottobre 2019 non accaduto nulla di grave tra i due. Emergerebbe evidente, dunque, il vizio di omessa motivazione, così come l'inosservanza dei canoni giurisprudenziali sviluppati sul delitto, con particolare riguardo all'abitualità delle condotte - inosservanza e/o erronea applicazione dell'articolo 168 c.p. La Corte di appello avrebbe revocato la sospensione condizionale della pena concessa al ricorrente con la pronuncia della Corte di appello di Milano del 28/11/2014, irrevocabile il 16/1/2015 ebbene, se è vero che l'imputato aveva commesso un delitto della stessa indole nel quinquennio dal passaggio in giudicato della precedente sentenza, sarebbe anche vero che - prima della condanna per cui è ricorso - lo stesso avrebbe subito altri provvedimenti definitivi sentenza Tribunale di Cagliari del 22/3/2016, irr. il 14/5/2016 decreto penale di condanna G.i.p. Tribunale di Cagliari del 5/4/2016, esecutivo il 14/12/2017 sentenza Tribunale di Cagliari dell'8/6/2017, irr. il 14/7/2017 , senza che l'originaria sospensione condizionale fosse revocata, neppure in sede esecutiva. Ne deriverebbe l'estinzione, nel quinquennio, del reato di cui all'originaria sentenza, con conseguente illegittimità della revoca del beneficio allora concesso. Considerato in diritto 3. Il ricorso risulta infondato. 4. Con riguardo alla prima doglianza, il Collegio ritiene che la motivazione della sentenza non debba essere censurata la questione preposta - l'abitualità delle condotte di atti persecutori - è stata infatti affrontata dal Giudice di appello, anche richiamando la conforme decisione di primo grado, e gli argomenti spesi risultano del tutto congrui, ispirati a logica ed aderenti alla giurisprudenza in materia. 4.1. Le sentenze di merito, in particolare, hanno innanzitutto sottolineato che il ricorrente - già da pochi mesi dall'inizio della relazione con la persona offesa aveva manifestato una gelosia morbosa, controllando continuamente la giovane per verificare che fosse in casa, seguendola quando usciva e prendendole il telefono cellulare contro la sua volontà, per controllare conversazioni e messaggi a partire dal 10/8/2019, poi, quando la ragazza aveva provato ad opporsi, l'imputato aveva preso a picchiarla, offenderla ripetutameni e, lanciarle contro oggetti e minacciarla. Questi fatti risultano pacifici, non solo perché riferiti dalla persona offesa con parole giudicate pienamente credibili e diffusamente riscontrate, ma anche perché il ricorso non li contesta affatto, non spendendo al riguardo alcuna considerazione. Di seguito, la Corte di appello ha evidenziato che questa complessiva situazione aveva creato nella giovane un grave e perdurante stato di ansia e di paura, confermato dalle dichiarazioni dei genitori e delle persone a lei più vicine. In particolare, i primi avevano riferito non solo di aver visto lividi e segni di aggressioni sul corpo di lei, ma anche che la figlia spesso scoppiava a piangere, apparentemente senzà motivo, ed assumeva un atteggiamento chiuso ed impaurito dopo le telefonate con il ricorrente ancora i genitori, poi, avevano dichiarato che la figlia - in totale stato di sudditanza psicologica - aveva cambiato atteggiamento nei loro confronti, chiudendosi sempre più in se stessa, ed aveva evitato qualsiasi domanda che riguardasse la sua relazione, fino a mentire sui certificati medici trovati in casa e relativi ad accessi al pronto soccorso. Analogamente, gli amici della ragazza, oltre a confermare a più riprese le violenze subite da questa, avevano riferito dell'evidente stato di timore che la stessa nutriva nei confronti del ricorrente, tanto che, quando usciva con loro, aveva sempre il telefono in mano e controllava in continuazione, perché sapeva che se avesse tardato a rispondergli lui le avrebbe fatto una scenata. 4.2. Con questi solidi argomenti, la Corte di appello ha quindi correttamente confermato la consumazione del delitto di atti persecutori, riscontrando tutti gli elementi costitutivi richiesti dall'articolo 612-bis c.p. compresa, dunque, l'abitualità delle condotte, protrattesi - su molteplici episodi - dall' omissis all' omissis . E senza che rilevino, sul punto, la mancata frequentazione per due mesi circa, durante il cd. lockdown, o qualche breve periodo in cui il rapporto non aveva fatto registrare episodi di violenza, ingiuria o minacce come costantemente affermato da questa Corte, infatti, nel reato cli atti persecutori il temporaneo ed episodico riavvicinamento della vittima al suo persecutore non interrompe l'abitualità del reato, nè inficia la continuità delle condotte, quando sussista l'oggettiva e complessiva idoneità delle stesse a generare nella vittima un progressivo accumulo di disagio che degenera in uno stato di prostrazione psicologica in una delle forme descritte dal citato articolo 612-bis c.p., come nel caso in esame tra le altre, Sez. 5, numero 17240 del 20/1/2020, I., Rv. 279111 Sez. 5, numero 46165 del 26/9/2019, M., Rv. 277321 . L'affermazione di responsabilità quanto al delitto di atti persecutori, dunque, non merita censura. 5. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato. 5.1. L'articolo 168, comma 1, numero 1 , c.p. stabilisce che, salva la disposizione dell'ultimo comma dell'articolo 164 sul numero di volte in cui il beneficio è concedibile , la sospensione condizione della pena è revocata di diritto qualora, nei termini stabiliti, il condannato commetta un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole per cui venga inflitta una pena detentiva, o non adempia agli obblighi impostigli ebbene, proprio la prima ipotesi si è pacificamente verificata nel caso in esame, con conseguente revoca - priva di ogni carattere discrezionale - della sospensione condizionale della pena inflitta con sentenza della Corte di appello di Milano del 28/11/2014, irrevocabile. In senso contrario, peraltro, non può essere accolta la tesi difensiva secondo cui, nelle more, il ricorrente avrebbe riportato altre tre condanne, tali - queste - da giustificare la revoca del beneficio, invece mai disposta, così da prodursi l'estinzione nel quinquennio del reato di cui alla sentenza della Corte d'appello di Milano in senso contrario, infatti, depone proprio la lettera della norma appena richiamata, che - senza alcun profilo discrezionale - impone la revoca della sospensione condizionale della pena, al verificarsi dei presupposti, anche qualora questi fossero stati invero riscontrabili anche in precedenza, rimanendo tuttavia senza esito sul beneficio in oggetto. 5.2. A tutto ciò si aggiunga, peraltro, che il reato di cui all'articolo 612-bis c.p. è contestato - in questo procedimento - come commesso a … e … località omissis , in data omissis fino al omissis gli atti persecutori, quindi, avevano avuto inizio prima che maturasse il quinquennio dal passaggio in giudicato della sentenza del 28/11/2014 della Corte di appello di Milano, avvenuto il 16/1/2015. A conferma ulteriore, dunque, dell'obbligo - per il Giudice - di revocare comunque la sospensione condizionale allora concessa. 6. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dispone, a norma del D.Lgs. numero 30 giugno 2003 numero 196, articolo 52, che - a tutela dei diritti o della dignità degli interessati - sia apposta a cura della cancelleria, sull'originale della sentenza, un'annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi degli interessati riportati sulla sentenza.