Omicidio Regeni, la Procura torna alla carica: sollevata questione di legittimità costituzionale del processo in absentia

L'ultimo atto della trafila del processo – fermo sulla linea di partenza da un paio d'anni - per la morte di Giulio Regeni porta la data del 9 febbraio scorso e coincide con il deposito delle motivazioni della sentenza n. 5675, resa dalla Prima Sezione sul tema dell'abnormità del provvedimento di sospensione emesso dal GUP romano per disporre nuove ricerche dei quattro imputati egiziani, che è stato fino ad oggi impossibile rintracciare.

Con questa decisione la Cassazione Cass. pen. sez. I, n. 5675 ha stabilito che la condizione della volontaria sottrazione al procedimento penale da parte degli imputati, che legittimerebbe la sua prosecuzione in absentia , deve essere sorretta dalla prova di comportamenti positivi ed espressivi della volontà di sottrarsi al processo. Nell'occhio del ciclone, quindi, è la disciplina dell' art. 420 -bis c.p.p , che contiene l'individuazione dei casi nei quali il processo può celebrarsi anche senza la presenza dell'imputato. Questa norma rientra fra l'altro nel numero – piuttosto nutrito, in realtà – di quelle su cui ha inciso la riforma Cartabia recentemente entrata in vigore, che ne ha interamente riscritto il testo introducendovi un nuovo comma 3 ad avviso del quale il giudice procede in assenza, oltre che nei casi già contemplati l'imputato non si presenta benché ritualmente citato, ovvero ha espressamente rinunciato a comparire , anche quando quest'ultimo è latitante o si è in altro modo volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento. Secondo la Suprema Corte, quindi, il quadro normativo vigente non concede alla conoscenza presuntiva del procedimento la forza sufficiente per dare l'ordine legittimo di salpare l'ancora processuale. Risultato tutto rimane fermo e si continua con l'avvilente sequela del tentativo di ricerca degli imputati, al quale fa da contraltare l'acclarato rifiuto egiziano di collaborare per trovare i quattro imputati. Ma la Procura, stanca di aspettare in eterno, morde il freno e tenta la strada della questione di legittimità costituzionale della disciplina contenuta nell' art. 420 -bis c.p.p . Diciotto pagine. Tante ne sono servite al Pubblico Ministero della Capitale per incitare il GUP a coinvolgere la Consulta nel tentativo di uscire dall'impasse. Una memoria” suddivisa in paragrafi ordinati secondo un filo logico ben preciso prima le norme di riferimento sovranazionali e comunitarie in tema di cooperazione giudiziaria internazionale poi le ricadute di questo complesso normativo sulle norme costituzionali italiane quindi, infine, le ragioni che inducono a ritenere rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell'art. 420 -bis c.p.p. nella versione post Cartabia” . Ed è proprio l'obbligo di cooperazione tra le giurisdizioni dei vari Paesi il punto di partenza da cui muove la Procura numerosissime fonti, pattizie o meno, lo prevedono e considerano obbligatorio. Si spazia dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani fino ad arrivare al trattato istitutivo della Corte Penale Internazionale, passando per la Dichiarazione sui principi fondamentali di giustizia in favore delle vittime della criminalità e delle vittime degli abusi di potere e la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura , guarda caso ratificata proprio dall'Egitto nel 1986. Senza necessità di scendere nei dettagli, possiamo dire che il filo conduttore di questa congerie di fonti giuridiche è abbastanza uniforme gli Stati, e in particolare le rispettive autorità giudiziarie, devono collaborare tra di loro per fare sì che i roboanti princìpi espressi nei vari trattati e convenzioni non rimangano lettera morta ma siano concretamente applicati. Proprio l'esatto opposto di ciò che sta succedendo con il processo per la morte del povero Giulio Regeni . Ma andiamo avanti tutte le norme contenute nei trattati internazionali che l'Italia ha sottoscritto o ratificato poggiano sulla base dei principi costituzionali indicati negli artt. 10, 11 e 117 Cost. , con la conseguenza – afferma la Procura – che le norme dei trattati internazionali penetrano nell'ordinamento attraverso l'ordine di esecuzione e che la Consulta può quindi esercitare un controllo di costituzionalità anche su di esse laddove una norma interna confliggesse per ipotesi con una norma pattizia prevarrebbe quest'ultima, la quale, a sua volta, dovrebbe recedere nel caso in cui fosse invece contraria alla nostra Costituzione. Una stoccata viene rivolta anche nei riguardi dei principi espressi dalla Corte EDU, citata quasi obbligatoriamente in casi come questo per mezzo della nota sentenza Sejdovic c. Italia . Essa stabilì il principio che si può procedere legittimamente soltanto nei confronti di chi abbia una conoscenza effettiva del processo , ma il problema non è tanto avviare un giudizio nei confronti di chi non sia realmente a conoscenza di esso, quanto piuttosto evitare la stasi di fronte ai finti inconsapevoli”, come li chiama efficacemente la Procura nella sua memoria a sostegno della questione di costituzionalità. A questo proposito un passaggio particolarmente interessante del ragionamento è quello che assegna rilevanza alla condotta di colui che si sottrae alla conoscenza del processo con l'aiuto di soggetti terzi, anche dotati di veste istituzionale. Per dirla in termini semplici la mancata collaborazione di un'autorità statale – per non parlare del suo palese ostruzionismo – può agevolare il finto inconsapevole” a rimanere tale, impedendo di fatto la celebrazione del processo. Secondo la Procura, quindi, occorrerebbe contemperare l'assolutismo dei principi riguardanti l'effettiva conoscenza del procedimento penale con altri interessi di elevatissimo rango costituzionale, primi tra tutti quello che prevede l'obbligatorietà dell'azione penale e il principio di uguaglianza, che impone di tener conto anche della vittima del reato e non soltanto dell'imputato. L'art. 420 -bis c.p.p., quindi, non è conforme ai principi costituzionali appena ricordati esso infatti non prevede l'ipotesi che si possa procedere in assenza quando la formale mancata conoscenza del procedimento dipenda dalla mancata assistenza giudiziaria da parte dello Stato di appartenenza dell'accusato stesso o in cui questi risiede . Del resto, chiosa la Procura, chi può escludere che la situazione creatasi non leda anche l'interesse degli imputati a farsi giudicare, difendendosi dalle gravissime accuse che li riguardano? Vedremo, adesso, cosa farà il GUP e se questa mossa potrà finalmente servire a uscire dallo stallo in cui ci troviamo.

Procura della Repubblica di Roma, memoria del PM