Minorenne affetta da leucemia non si sottopone alla chemioterapia: genitori condannati

Costituisce colposa violazione degli obblighi di garanzia del genitore l'aver fornito alla figlia minorenne una falsa rappresentazione della entità e della natura della patologia oncologica dalla quale quest'ultima era affetta e nel non avere proposto alla stessa il corretto percorso terapeutico.

Così ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12124, depositata il 23 marzo 2023. La medicina alternativa. Dodici pagine di tristezza. Tante sono quelle che compongono la sentenza che oggi vi proponiamo e che, tra le considerazioni tecnico-giuridiche, contengono la storia di una ragazza poco più che adolescente stroncata dalla leucemia. Aveva diciassette anni quando è morta, non sappiamo quanto sia durato il suo calvario ma è nota soltanto una cosa dalla leucemia oggi il più delle volte si guarisce completamente. Basta soltanto seguire scrupolosamente le terapie mediche, affrontare il sacrificio degli effetti collaterali e in cambio si torna a vita nuova. Nel caso che ci occupa non è andata così, e di mezzo ci sono finiti i genitori. Condannati in doppia conforme per omicidio colposo omissivo improprio non avevano adempiuto ai loro obblighi di garanzia informando la figlia della natura della malattia di cui era portatrice e non l'hanno correttamente indirizzata verso le cure mediche necessarie. Uno stuolo di sanitari aveva loro rappresentato le conseguenze mortali cui si sarebbe con certezza andati incontro nel caso in cui non si fosse somministrata la chemioterapia, eppure, secondo la prospettazione accusatoria, i genitori della ragazza avrebbero fatto di tutto per boicottare questa indicazione terapeutica, e per orientare la propria figlia verso percorsi di medicina alternativa del tutto privi di qualsiasi fondamento scientifico. Avverso la pronuncia di condanna i due imputati proponevano ricorso per Cassazione, sostenendo la tesi del vizio di motivazione. L'autodeterminazione del minore ha rilievo, ma a quali condizioni? La teoria che viene proposta nel ricorso è sintetizzabile così si sostiene che l'obbligo giuridico di informare il paziente grava non sui genitori, privi di competenza medico-scientifica, ma soltanto sui sanitari al solo fine di ottenere il consenso informato del paziente. Ancora nel nostro ordinamento si sarebbe assistito ad una progressiva evoluzione del rapporto genitori-figli in forza del quale la volontà del minorenne avrebbe oggi maggiore rilievo rispetto al passato. Il figlio minore avrebbe nell'attuale panorama normativo un vero e proprio diritto a condividere le decisioni che lo riguardano, e ciò in forza di un certo orientamento giurisprudenziale che avrebbe secondo i ricorrenti il beneplacito anche della Corte Costituzionale, la quale con una decisione del 2004 ha affermato il diritto del minorenne a un pieno sviluppo della propria personalità. Le conseguenze di queste premesse sono ovvie la giovane poi deceduta avrebbe opposto il proprio rifiuto alla chemioterapia, quindi i genitori sarebbero esenti da qualsiasi responsabilità penale. Per smentire le censure la Cassazione, dopo averci ricordato che il giudice di legittimità non ha il potere di sindacare il significato delle prove assunte, ma soltanto di testare la tenuta logica della motivazione, entra nel merito della vicenda e, dopo averla dolorosamente ripercorsa, perviene alla conclusione che nel caso di specie il rifiuto della minorenne non era stato preceduto da una corretta informazione offertale dai genitori, anzi. La cieca fiducia soltanto quella che un figlio può riporre in chi l'ha messo al mondo nelle stravaganti teorie sull'origine del male e sul suo positivo decorso anche in assenza di una vera e propria terapia, propugnate da chi avrebbe, in forza della posizione di garanzia rivestita, sostenere l'esatto contrario, era all'origine del rifiuto delle cure convenzionali. Ben diverso sarebbe stato lo scenario e, azzardiamo noi, anche l'esito del giudizio penale nel caso in cui i genitori avessero fatto di tutto per convincere la loro figlia a sottoporsi alle cure, e non vi fossero riusciti per l'ostinato rifiuto delle stesse da parte della paziente. L'importanza del riconoscimento scientifico delle scelte terapeutiche. In questo periodo post-pandemico ne abbiamo sentite di tutti i colori vaccini che fanno venire i tumori, o che servono a ottenere il controllo della mente da parte di non meglio precisate entità e via di questo passo. Le cronache ogni tanto ci hanno descritto le mega truffe di ciarlatani e santoni che curano terribili patologie con l'imposizione delle mani o con rimedi che sanno più di stregoneria che di medicina. Non neghiamo che le teorie scientifiche abbiano il loro grado di fallibilità, che la ricerca sia in continuo divenire e che ciò che appare inefficace oggi possa grazie agli studi risultare decisivo domani. Ma una cosa è certa quando si deve misurare il rispetto delle norme cautelari nell'ambito dei delitti colposi il mondo del diritto notoriamente restìo alle evoluzioni improvvise ci rassicura con suo rigoroso tradizionalismo la coppia probabilità statistica-credibilità logica, predicata dalla celebre sentenza Franzese, costituisce tutt'oggi il perno del giudizio per saggiare la bontà di una scelta terapeutica.

Presidente Montagni Relatore Di Salvo Ritenuto in fatto 1.B.L. e B.R. ricorrono per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, con la quale è stata confermata la pronuncia di condanna emessa in primo grado, in ordine al reato di cui all' art. 589 c.p. per avere cagionato, per colpa, la morte della loro figlia minorenne E. nata il omissis , fornendole, in violazione degli obblighi di garanzia quali genitori, una falsa rappresentazione della realtà con riferimento sia alla gravità e mortalità della patologia da cui era affetta leucemia linfoblastica acuta , diagnosticata il omissis , sia alla idoneità e adeguatezza dei rimedi da loro proposti, sostanzialmente riconducibili alla cosiddetta nuova medicina germanica di omissis , privi di validità scientificamente riconosciuta. In tal modo ingeneravano nella figlia il fallace convincimento che la chemioterapia indicata come essenziale da tutti i medici che avevano seguito la giovane paziente nonché dallo stesso Tribunale per i minori di Venezia, come da ordinanza in data 4 marzo 2016, fosse non solo non necessaria ma addirittura dannosa e che, al contrario, l'osservanza delle regole da loro indicate avrebbe sicuramente condotto alla piena guarigione. Il convincimento di E. , artatamente indotto con le modalità di cui sopra, veniva poi da essi utilizzato quale pretesto per giustificare ogni loro scelta e specificatamente il ritardo nell'esecuzione di accertamenti clinici il pervicace rifiuto della chemioterapia il trasferimento di E. in una struttura sanitaria svizzera e quindi in uno Stato in cui E. era considerata giuridicamente in grado di esprimere una valida volontà terapeutica, con l'apparente accettazione della chemioterapia indicata dai medici, terapia che invece essi boicottavano e rifiutavano fin dal primo giorno di ricovero la mancata comunicazione del successivo ritorno in Italia ai servizi sociali, cui la minore era stata affidata dal Tribunale per i minorenni, e al tutore il continuo controllo da essi esercitato sulla figlia, alla quale veniva di fatto impedito ogni incontro e colloquio da sola con soggetti in grado di ingenerare in lei un dubbio sulle scelte familiari le dimissioni della figlia dall'ospedale di omissis e il suo trasferimento in casa, dove, interrotta la terapia del dolore e rifiutato ogni supporto, le somministravano soltanto alte dosi di vitamina C. Colpa aggravata dalla previsione dell'evento, alla luce dei plurimi, reiterati e univoci avvertimenti di tutti i medici in ordine all'inevitabilità della morte della figlia, intervenuta il omissis , in mancanza di somministrazione della terapia chemioterapica proposta. 2. I ricorrenti deducono violazione di legge e vizio di motivazione, poiché l'obbligo giuridico di informare il paziente minorenne spetta esclusivamente ai sanitari, ai fini dell'ottenimento del consenso informato, necessario poiché la L. n. 833 del 1978 stabilisce che i trattamenti sanitari sono volontari e devono rispettare la dignità della persona nonché il diritto del paziente di scelta del medico e del luogo di cura. In questa prospettiva, nell'ambito del diritto minorile e di famiglia si è assistito al progressivo contenimento dei poteri decisionali degli adulti nei confronti dei minorenni, incrementando il riconoscimento del diritto del minore di condividere decisioni che lo riguardano. In questo contesto, una pronuncia del 7 ottobre 1998 del Tribunale per i minori di Venezia stabilì di tener conto della volontà di una bambina di soli nove anni affetta da leucemia linfoblastica acuta, che aveva rifiutato la chemioterapia in quanto troppo invasiva e debilitante, nonostante le possibilità di successo fossero pari al 70%. Ciò è del tutto conforme alla prospettiva delineata dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 262 del 22 luglio 2004 , la quale ha affermato che la Costituzione ha rovesciato le concezioni che assoggettavano i figli a un potere assoluto e incontrollato da parte dei genitori, affermando il diritto del minore a un pieno sviluppo della sua personalità. In quest'ottica, l' art. 147 c.c. stabilisce che i coniugi hanno l'obbligo di mantenere, istruire, educare ed assistere moralmente i figli ma nel rispetto delle loro inclinazioni naturali e aspirazioni. Il dovere-diritto di educare rientra nell'esercizio della libertà di pensiero e di insegnamento, in base al disposto della Cost., art. 21, essendo il contenuto dell'attività educativa pienamente libero, come si desume altresì dalla Cost., art. 33 Dunque la Costituzione non suggerisce che cosa si debba trasmettere ai figli o in quale modo lo si debba fare. Anche l'art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20/11/1989, resa esecutiva in Italia con L. 27 maggio 1991 n. 176 , stabilisce che debba essere garantito al fanciullo il diritto di esprimere liberamente la propria opinione su ogni questione che lo interessa e che gli Stati debbano rispettare il diritto del fanciullo alla libertà di pensiero. Anche la Convenzione Europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata a Strasburgo il 25 gennaio 1996 e ratificata con L. 20 marzo 2003, n. 46, stabilisce che ogni minore che sia considerato dal diritto interno come avente una capacità di discernimento, deve ricevere tutte le informazioni pertinenti, essere consultato, poter esprimere la propria opinione ed essere informato delle eventuali conseguenze delle sue opzioni e di qualunque decisione. Anche il decreto del Ministro della Sanità del 18 marzo 1998 stabilisce che la sperimentazione su minore sia comunque vincolata al valido consenso di chi esercita la potestà dei genitori e il minore, compatibilmente con la sua età, ha il diritto di essere personalmente informato sulla sperimentazione e di essere richiesto di firmare personalmente il proprio consenso, in aggiunta a quello del legale rappresentante. Il minore deve potersi rifiutare di partecipare alla sperimentazione. E il protocollo che viene applicato ai malati oncologici in età pediatrica è sperimentale. Nessuno, dunque, avrebbe potuto imporre ad E. alcun trattamento sanitario contro la sua volontà, atteso che i trattamenti sanitari sono incoercibili. L' art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea riconosce al minore la libertà di esprimere le proprie opinioni su questioni destinate a ripercuotersi sulla propria esistenza. La sentenza della Corte costituzionale 28 dicembre 2008 n. 438 , chiamata a esprimersi in merito alla legge regionale del Piemonte sull'uso dei farmaci psicotropi sui minori, dichiarandone l'illegittimità, ha ribadito che il diritto a esprimere il consenso informato in merito al trattamento sanitario costituisce espressione della libertà di autodeterminazione e dunque la relativa dichiarazione di volontà non è un atto dei genitori tout court. La L. n. 217 del 2019, art. 3, comma 1, che sancisce il diritto del minore all'autodeterminazione, postula che egli sia messo in condizione di esprimere la propria volontà e tale obbligo grava sul medico, che è il principale interlocutore del minore. Quindi non competeva ai genitori fornire alla paziente le spiegazioni circa la malattia da cui era affetta, il suo decorso e le cure che la comunità scientifica aveva suggerito, in quanto i genitori non erano portatori di alcuna competenza medico - scientifica e la minore poteva decidere di accettare che la malattia facesse il proprio corso piuttosto che subire le conseguenze legate alla terapia perdita dei capelli, crisi neurologiche e via dicendo . Dunque i genitori non avevano alcun obbligo giuridico di convincere la figlia a sottoporsi alla terapia, trattandosi di una scelta personalissima che spettava unicamente alla paziente, che aveva 17 anni e mezzo, frequentava regolarmente il terzo anno dell'Istituto agrario ed era dunque pienamente capace di discernere, come ha riferito anche il professor B., ordinario di medicina legale presso l'Università di [ ] e presidente del Comitato di etica per la pratica clinica. B.E. era stata correttamente e personalmente informata dal professor B.G., primario del reparto di oncoematologia pediatrica, il omissis , della malattia da cui era affetta e della necessità di intervenire con la terapia oncologica prescritta dal protocollo nonché dal Dott. B. , dell'ospedale di omissis , che aveva anche specificato che ove non fosse stata somministrata la terapia oncologica le probabilità di sopravvivenza sarebbero state pari a zero. Pertanto, la ragazza, all'epoca diciassettenne, ha consapevolmente scelto di rifiutare le terapie salvavita nonostante avesse ricevuto da tutti i sanitari una adeguata informazione, come risulta dalle dichiarazioni di tutti i medici sentiti nonché dalla missiva inviata dal tutore al padre della minore, da cui testualmente si evince che il Dott. B. aveva ricevuto conferma dalla ragazza della decisione di non iniziare la chemioterapia. L'atteggiamento attendista assunto dai genitori nei confronti delle cure per la figlia è stato dettato dal rispetto delle determinazioni di quest'ultima, che non voleva sottoporsi alla chemioterapia. Nemmeno il tutore, pur avendone i poteri di legge, stante la volontà chiaramente espressa da E., sottoscrisse alcun consenso alla somministrazione della terapia salvavita. Non è emerso dalle risultanze probatorie alcun elemento che deponga per un plagio o una condotta manipolatoria da parte dei genitori nei confronti di E. Non può dunque affermarsi che i genitori abbiano trasmesso le loro convinzioni alla figlia, determinando in quest'ultima una falsa rappresentazione della realtà, con riferimento alla gravità della malattia e alla sua mortalità, o che abbiano impedito alla stessa di sottoporsi alla prescritta chemioterapia. Per quanto riguarda l'azione di convincimento della figlia a sottoporsi alle terapie oncologiche, non vi sono elementi che inducano a ritenere che i genitori non si siano prodigati nel reperire strutture ospedaliere che potessero prendersi cura della figlia. È quest'ultima che ha sempre opposto un secco rifiuto alla chemioterapia. La convinzione di E. di guarire dalla leucemia anche senza il ricorso alla chemioterapia non è frutto di indottrinamento da parte dei genitori ma di un libero itinerario di pensiero da parte della ragazza. D'altronde a quest'ultima non è stata prospettata la possibilità di sottoporsi all'immunoterapia CAR-T, terapia riconosciuta dalla comunità scientifica e praticata, anche per i pazienti in età pediatrica, in numerosi centri ospedalieri italiani Istituto nazionale tumori, ospedale San Raffaele di Milano, fondazione Monza e Brianza, Sant'Orsola di Bologna, Policlinico Gemelli e Policlinico Umberto I di Roma . Si tratta di una terapia i cui effetti collaterali non sono devastanti come quelli della chemioterapia e che consente nel 71% dei casi trattati una completa remissione della malattia. Qualora a E. fosse stata indicata la predetta terapia, la stessa avrebbe potuto sottoporvisi. 2.1. Del resto, il Tribunale dei minori di Venezia, con decreto del 26 febbraio 2016, ha sospeso la potestà genitoriale, inibendo agli stessi la valida espressione di qualsiasi potere decisionale per la figlia. Dunque, i genitori non avrebbero potuto in ogni caso prestare il consenso informato in quanto sospesi dalla responsabilità genitoriale - circostanza nota ai medici della struttura sanitaria di omissis -, spettando ogni potere al tutore. 2.2. Non è ravvisabile il nesso causale tra la condotta e l'evento poiché, anche se i genitori avessero assunto un atteggiamento di totale adesione a quanto suggerito dai sanitari, non vi è alcun elemento che possa indurre a ritenere provato che E. avrebbe aderito a sua volta alla somministrazione della terapia, così evitando il decesso. Al contrario, tutte le risultanze acquisite hanno evidenziato la ferma volontà della paziente non solo di non sottoporsi alla chemioterapia ma di rifiutare persino le cure palliative che vengono somministrate ai pazienti terminali al fine di alleviare la loro sofferenza, allorché la ragazza era ormai divenuta maggiorenne, come emerge anche dalle disposizioni che E. dette al prof. B. in occasione del suo ultimo ricovero, dal omissis al omissis , da cui si evince che ella non espresse alcun consenso nemmeno agli accertamenti non invasivi nonché alla terapia antalgica. La condotta dei genitori non è dunque penalmente censurabile. Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata. Considerato in diritto 1. Il primo motivo di ricorso è infondato. Costituisce infatti ius receptum, nella giurisprudenza della suprema Corte, il principio secondo il quale, anche alla luce della novella del 2006, il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene pur sempre alla coerenza strutturale della decisione, di cui saggia l'oggettiva tenuta , sotto il profilo logico-argomentativo, e quindi l'accettabilità razionale, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti Sez. 3, n. 37006 del 27/9/2006, Piras,Rv. 235508 Sez. 6, n. 23528 del 6/6/2006, Bonifazi, Rv. 234155 . Ne deriva che il giudice di legittimità, nel momento del controllo della motivazione, non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento, atteso che l'art. 606, comma 1, lett. e , c.p.p. non consente alla Corte di cassazione una diversa interpretazione delle prove. In altri termini, il giudice di legittimità, che è giudice della motivazione e dell'osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto della prova, non competendogli un controllo sul significato concreto di ciascun elemento probatorio. Questo controllo è riservato al giudice di merito, essendo consentito alla Corte regolatrice esclusivamente l'apprezzamento della logicità della motivazione ex plurimis, Sez. 3, n. 8570 del 14/1/2003, Rv. 223469 Sez. fer., n. 36227 del 3/9/2004, Rinaldi Sez. 5, n. 32688 del 5/7/2004, Scarcella Sez. 5, n. 22771 del 15/4/2004, Antonelli . 2. Nel caso in disamina, il giudice a quo, richiamando anche la motivazione della sentenza di primo grado, ha evidenziato che dalle risultanze processuali è emerso che sin dagli inizi dell'iter diagnostico-terapeutico i genitori della ragazza avevano fatto opposizione alle cure e il padre, in particolare, aveva manifestato il convincimento che la leucemia fosse un processo di rigenerazione cellulare, dopo un trauma psicologico, giustificando i dolori con una fase necessaria per la rigenerazione delle cellule, all'esito della quale la ragazza non solo sarebbe guarita ma si sarebbe fortificata, a condizione che non avesse subito traumi psicologici e che non fosse stata somministrata chemioterapia ma solo una terapia di supporto. La chemio avrebbe invece distrutto la rigenerazione del corpo e non avrebbe permesso alla minore di guarire. Tali affermazioni coincidevano con quanto riferito da E. in un messaggio che diceva ad un'amica che stava facendo una rinascita . Il padre parlava di persone affette da neoplasia che erano guarite senza cura. Ai genitori di E. era stata chiaramente spiegata dei medici la natura della patologia ed era stato anche chiarito che le probabilità di guarigione erano almeno dell'80% con l'applicazione dei protocolli terapeutici che prevedevano la chemioterapia mentre non vi sarebbe stata alcuna possibilità di guarigione ove non fossero stati seguiti tali protocolli. Ma i genitori erano passati da un atteggiamento di aperto contrasto ad un ostruzionistico comportamento volto a procrastinare ogni decisione, dando priorità all'interesse di far stare tranquilla la ragazza limitando tutte le interferenze dei sanitari. Un medico si era recato personalmente a parlare con i genitori e gli stessi avevano scritto una lettera indirizzata al sanitario recante la dicitura documento da allegare alla dichiarazione di non accettazione della terapia . Si trattava di una lettera in cui venivano ripercorsi gli stessi argomenti utilizzati con i medici per rifiutare il consenso alla sottoposizione della ragazza al protocollo di cure che prevedeva la chemioterapia. Il Dott. O. aveva riferito che tra le motivazioni addotte dagli imputati per rifiutare le terapie c'era quella della sacralità della ragazza , che avrebbe potuto essere violata dalle cure chemioterapiche. I genitori, a fronte del peggioramento delle condizioni della figlia, avevano soltanto consentito all'inizio della terapia cortisonica ma alla scadenza del periodo relativo alla somministrazione del cortisone avevano negato il consenso alla chemioterapia. La dottoressa C. aveva riferito di aver provato a parlare sia con E. che con i genitori, proponendo la chemioterapia ma ottenendo risposte negative. E. aveva risposto che aveva visto un'amica morire e che la chemioterapia le avrebbe provocato più danni che vantaggi. Le stesse motivazioni erano condivise dei genitori. Ai medici i genitori della ragazza avevano riferito che la minore aveva avuto un trauma dovuto alla morte del fratello, che aveva alterato il suo equilibrio, e che il tumore era un'occasione per rigenerarsi. Il dottor B. aveva riferito che aveva chiaramente comunicato al B. che si sarebbe potuto aspettare per l'inizio della chemioterapia al massimo una settimana, ribadendo le percentuali di guarigione e l'assoluta impossibilità di guarire in assenza di chemioterapia. I genitori, pur non esprimendo un aperto rifiuto, avevano espresso dubbi e perplessità, parlando di persone guarite spontaneamente ma alla richiesta di vedere le cartelle cliniche avevano risposto che erano casi di cui erano venuti a conoscenza sul web. Al contrario, i genitori di E. parlavano di persone affette da leucemia morte per aver intrapreso le terapie. Il padre cominciava ogni frase dicendo che E. aveva deciso di non fare la chemioterapia. Ancora una volta i medici avevano spiegato alla ragazza che, a fronte delle prospettive di guarigione in caso di attivazione del protocollo chemioterapico, che, lungi dall'avere natura sperimentale, era ampiamente accettato in seno alla comunità scientifica internazionale, non vi era nessuna possibilità di guarigione qualora la terapia non fosse stata praticata. Ai medici la ragazza si era limitata a ribadire la convinzione che sarebbe stata la terapia a ucciderla, essendo convinta di poter guarire e di non averne bisogno. Le stesse opinioni venivano manifestate al Dott. B. dal B. Era stato anche riferito di un colloquio tra la madre della ragazza e l'infermiera caposala del reparto di pediatria, in cui l'imputata aveva chiesto di non parlare di terapia davanti a E. poiché la ragazza, già traumatizzata per la morte del fratello, aveva subito un ulteriore trauma per la morte di un'amica e, d'altronde, era abbastanza in gamba per decidere senza che nessuno la convincesse a un trattamento chemioterapico. La relazione indirizzata dal Dott. B. al tutore riferiva chiaramente che i genitori si trinceravano sempre dietro la volontà della ragazza ma dopo ogni colloquio le terapie proposte venivano valutate come non adeguate dagli imputati, i quali dicevano che, secondo le loro esperienze personali, esse avrebbero potuto portare unicamente al decesso della ragazza e non alla guarigione. Né sottolinea la Corte territoriale - esistevano terapie alternative, come confermato dalla circostanza che nessuno dei sanitari interpellati le aveva proposte, neppure quelli scelti dagli stessi imputati. La tesi difensiva relativa alla possibilità di effettuare l'immunoterapia - precisa il giudice a quo - non si confronta con le granitiche valutazioni di tutti i sanitari che avevano visitato e sottoposto ad accertamenti la ragazza, i quali avevano escluso prospettive terapeutiche diverse dalla chemioterapia, onde affermare che l'immunoterapia potesse essere un'alternativa ai protocolli offerti dai sanitari interpellati appare un'indicazione priva di concreto rilievo terapeutico relativamente al caso in disamina. Il omissis il Dott. B. aveva avuto un ultimo colloquio con il B. in cui gli aveva detto che la chemioterapia era assolutamente improcrastinabile e che in mancanza la ragazza sarebbe morta nel corso di pochi mesi o addirittura delle successive settimane ma il padre aveva ribadito di ritenere non necessaria la terapia proposta, per le ragioni già espresse. Anche E. aveva manifestato il dissenso al suo ricovero. Il omissis E. era stata ricoverata nuovamente presso l'ospedale di omissis in condizioni critiche ma i genitori avevano rifiutato qualunque farmaco, opponendosi perfino alla terapia antibiotica e antipiretica e lamentandosi addirittura della tachipirina e del nurofen. Il padre insisteva perché venissero somministrati alla ragazza per via endovenosa altissimi dosaggi di vitamina C, che, secondo la sua opinione, i medici non prescrivevano per pressioni della lobby delle case farmaceutiche . La dirigente del reparto pediatria riferiva di essere rimasta colpita dalla mancata consapevolezza di tutti i componenti della famiglia dello stadio terminale della malattia. La ragazza aveva dolori fortissimi ma, ad eccezione di una trasfusione, tutte le altre indagini diagnostiche e terapeutiche venivano rifiutate e veniva rifiutato anche l'accesso venoso, indispensabile per le trasfusioni. Il medico di base si era recato a casa della ragazza ma i genitori gli avevano ripetutamente negato la possibilità di visitare E., con la giustificazione che la visita l'avrebbe traumatizzata. Il medico aveva prescritto antidolorifici e flebo, che alla data del omissis aveva saputo non essere stati somministrati. La ragazza era molto sofferente e la mancata somministrazione delle flebo non aveva contrastato la ipotassemia, che aveva predisposto la paziente all'arresto cardiaco che avrebbe provocato la morte lo stesso giorno. L'impianto argomentativo a sostegno del decisum è dunque puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame tutte le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in questa sede. 3. Da tale ricostruzione emerge come siano stati i genitori ad opporsi, con un ventaglio di atteggiamenti che andava dall'aperto rifiuto ad una serie di comportamenti elusivi ed ostruzionistici, alle cure chemioterapiche e perfino antipiretiche ed antidolorifiche. Esula dunque dal caso in esame ogni rilevanza della tematica prospettata dai ricorrenti relativamente al diritto del minore all'autodeterminazione e al rifiuto delle cure. Tale problematica avrebbe potuto assumere rilievo a fronte di uno scenario fattuale caratterizzato da una fattiva opera di convincimento a praticare le cure ad opera dei genitori nei confronti della figlia, la quale di sua spontanea iniziativa, e nonostante l'atteggiamento favorevole alla chemioterapia da parte dei genitori, avesse rifiutato le cure, pur essendo stata informata delle conseguenze letali di tale rifiuto scelta che i genitori avessero, in ipotesi, ritenuto di dover rispettare. Ma non è questo il quadro fattuale enucleabile dalla trama motivazionale della sentenza impugnata, basata su una analitica disamina delle risultanze processuali sintetizzate al paragrafo precedente. Il contesto fattuale accuratamente ricostruito dai giudici di merito è invece caratterizzato da un atteggiamento assolutamente univoco e costante da parte dei genitori volto a rifiutare e/o a boicottare le cure. Dalle acquisizioni processuali accuratamente vagliate dalla Corte d'appello emerge dunque che il rifiuto delle cure non fu una libera scelta della figlia che i genitori ritennero di rispettare ma un'opzione consapevolmente adottata dai genitori in prima persona, nonostante i medici li avessero reiteratamente informati dell'elevato coefficiente salvifico delle cure chemioterapiche, dell'impossibilità, per la figlia, di guarire senza la chemioterapia e delle conseguenze letali del rifiuto di cure. 4. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato. La Corte territoriale ha infatti posto in rilievo le risultanze dalle quali si desume che, pur dopo la nomina del tutore da parte del Tribunale dei minorenni, con decreto del 15 marzo 2016, i genitori continuarono a gestire la situazione, ricoverando la ragazza presso vari istituti di cura e mantenendo il proprio atteggiamento di ostruzione e opposizione alle cure. E, in quest'ottica, il giudice a quo ha posto in rilievo come la sospensione della responsabilità genitoriale decisa dal Tribunale per i minorenni sia rimasta un mero atto formale, di fatto disatteso dagli imputati. I genitori proseguirono infatti a scegliere il luogo di cura di E. e i soggetti che si sarebbero dovuti occupare della ragazza, ben consapevoli che, in particolare, in Svizzera nessuno avrebbe potuto obbligare E. a intraprendere la chemioterapia sia perché in Svizzera i minorenni che hanno compiuto i omissis hanno capacità di autodeterminazione in relazione ai trattamenti sanitari sia perché la Svizzera è un territorio su cui ovviamente non può operare direttamente la giurisdizione italiana. Dunque, nonostante il provvedimento del Tribunale per i minorenni, non vi fu alcun sostanziale mutamento nella situazione di fatto e la gestione della paziente continuò a far capo ai genitori, onde la nomina del tutore si rivelò sostanzialmente ininfluente. Il Dott. B. riferì di aver deciso di informare regolarmente il tutore, prof. B., sul contenuto dei colloqui con il B. ma, secondo quanto si evince dalla motivazione della sentenza impugnata, non vi fu alcuna esautorazione dei genitori, che continuarono sempre a gestire la situazione della figlia. Correttamente, pertanto il giudice a quo conclude nel senso che anche successivamente al provvedimento di sospensione la posizione di garanzia dei genitori nei confronti della figlia minorenne non è venuta meno, onde l'aver impedito la somministrazione dell'unica terapia praticabile per salvare la figlia, per di più in un momento in cui la malattia aveva ripreso vigore, costituisce condotta colposa. Trattasi di motivazione del tutto esente da vizi logico giuridici. D'altronde, il vizio di manifesta illogicità che, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e , cod proc. pen., legittima il ricorso per cassazione implica che il ricorrente dimostri che l'iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e, per altro verso, che questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un'altra interpretazione o di un altro iter, in tesi egualmente corretti sul terreno della razionalità. Ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano a una diversa lettura o interpretazione, munite di eguale crisma di logicità Sez. U, 27-9-1995, Mannino, Rv. 202903 . La verifica che la Corte di cassazione è abilitata a compiere sulla completezza e correttezza della motivazione di una sentenza non può infatti essere confusa con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella fornita dal giudice di merito. Nè la Corte suprema può esprimere alcun giudizio sulla rilevanza e sull'attendibilità delle fonti di prova, giacché esso è attribuito al giudice di merito, con la conseguenza che le scelte da quest'ultimo compiute, se coerenti, sul piano logico, con una esauriente analisi delle risultanze probatorie acquisite, si sottraggono al sindacato di legittimità, una volta accertato che, come nel caso in disamina, il processo formativo del libero convincimento del giudice non abbia subito il condizionamento derivante da una riduttiva indagine conoscitiva o gli effetti altrettanto negativi di un'imprecisa ricostruzione del contenuto di una prova Sez. U, Rv. 203767 del 25-11-1995, Facchini . Dedurre infatti vizio di motivazione della sentenza significa dimostrare che essa è manifestamente carente di logica e non già opporre alla ponderata ed argomentata valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione Sez. U, 19-6-1996, Di Francesco, Rv 205621 . 5. Anche il terzo motivo di ricorso è privo di fondamento. Occorre innanzitutto precisare che la tematica del giudizio controfattuale non è impostata dai ricorrenti in relazione al quesito se una pronta attivazione del protocollo terapeutico prescritto, con particolare riguardo alle cure chemioterapiche, avrebbe o meno potuto evitare o perlomeno procrastinare significativamente nel tempo il decesso della paziente, consentendo dunque quantomeno un prolungamento della vita di quest'ultima ed eventualmente un affievolimento delle sofferenze della ragazza. Tale quesito è totalmente estraneo ai motivi di ricorso e dunque esula dal perimetro della presente trattazione. Il tema del giudizio controfattuale viene invece posto in relazione a un quesito completamente diverso e cioè se, laddove i genitori avessero manifestato un atteggiamento favorevole alle cure, la ragazza avrebbe o meno accettato di sottoporsi ad esse. In questi termini il quesito, alla stregua di quanto risulta dalla motivazione della sentenza impugnata, è totalmente privo di fondamento. Il giudice a quo, facendo anche riferimento alla motivazione della sentenza di primo grado, ha infatti posto in rilievo, con motivazione assolutamente immune da vizi logico - giuridici, che la ragazza non aveva, in ragione dell'età, la percezione della reale possibilità di morire, essendo forte di un senso di immortalità e delle convinzioni dei propri genitori, i quali sempre si erano opposti alle cure che ideologicamente per primi essi rifiutavano, con la conseguente diffidenza dimostrata nei confronti dei medici con i quali non avevano mai stabilito un rapporto terapeutico, cercando di isolare la figlia con controlli costanti e con contestazione delle terapie, anche di quelle minimali, come un prelievo o una flebo idratante. Già il Tribunale aveva ritenuto che la ragazza fosse molto legata ai genitori, come attestato dalle persone vicine alla famiglia, come B.S. e B., e che per tale ragione teneva nei confronti dei medici le medesime condotte dei genitori, improntate a diffidenza, tanto che ogni volta che la minore veniva interpellata guardava i genitori. I sanitari avevano infatti constatato la perfetta sovrapponibilità delle argomentazioni formulate dalla ragazza rispetto a quelle addotte dal padre. Tale profonda influenza che i genitori avevano su di lei è stata attestata anche dall'avvocato Celon, nominata dal Tribunale quale curatrice speciale della minore nel procedimento sulla responsabilità genitoriale. Per queste ragioni già il Tribunale aveva ritenuto che E. fosse condizionata dalle decisioni dei genitori, di cui si fidava ciecamente. Come ritenuto dal Tribunale, dunque, il silenzio o il mancato approfondimento delle sue reali condizioni di salute dipendeva dal fatto che E. in realtà non credeva a quanto gli era stato rivelato dai medici ma aveva fiducia unicamente nei genitori, i quali le avevano detto che la chemioterapia non era necessaria, anzi era nociva. Già il primo giudice, pertanto, aveva attribuito il rifiuto delle terapie al comportamento di piena adesione alla volontà e alle idee dei genitori e soprattutto alle cure che costoro le proponevano mentre avrebbero avuto il preciso obbligo di preservare il diritto alla vita della figlia. E il giudice a quo sottolinea dunque che il venir meno del rapporto fiduciario tra E. e i medici trovò la vera causa nelle condotte dei genitori, che avevano fornito alla minore una falsa rappresentazione della realtà, con riferimento alla gravità della malattia, alla mortalità della stessa, alla sua evoluzione, nonché all'adeguatezza dei rimedi proposti, comportamenti che ingenerarono in E. il falso convincimento che la terapia chemioterapica fosse non necessaria ed anzi dannosa e così viziando la formazione della sua volontà in relazione al rifiuto della terapia stessa. Di qui l'affermazione secondo cui l'atteggiamento di E. era perfettamente conforme alle informazioni che i genitori le davano. Trattasi di una motivazione precisa, fondata su specifiche risultanze processuali e del tutto idonea a illustrare l'itinerario concettuale esperito dal giudice di merito, da cui discende in modo lineare la risoluzione del quesito controfattuale indicato dai ricorrenti, avendo il giudice a quo sottolineato come E. accettasse come un dato di fatto le cure che le proponevano i genitori senza sapere neanche cosa fossero e come la ragazza fosse succube delle convinzioni dei genitori, a cui si era assuefatta e che aveva fatto proprie. E infatti il giudice a quo ha posto in rilievo come laddove i genitori sceglievano le cure, anche se invasive, come le iniezioni sulla schiena, la ragazza non facesse opposizione e non si desse neppure la pena di capire di che cosa si trattasse, limitandosi a definire le stesse robe strane , con totale accettazione. 6. I ricorsi vanno dunque rigettati, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Poiché la vicenda ha coinvolto una minorenne, vanno oscurati i dati personali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 , in quanto imposto dalla legge.