Minacce rivolte alla madre del suo debitore: condannato anche se la donna non ha sporto querela

I giudici sottolineano che l’azione compiuta dall’uomo sotto processo era in realtà diretta, in maniera evidente, soprattutto nei confronti del debitore, cioè il figlio della donna, il quale, sebbene non presente al momento della pronuncia della frase minacciosa, ne era l’effettivo destinatario.

Colpevole il creditore insoddisfatto che rivolge palesi minacce alla madre del debitore. Irrilevante il fatto che l'anziana donna non abbia sporto querela . Ciò che conta, invece, è che le frasi siano state pronunciate al suo indirizzo per farle giungere al figlio. Ricostruito l'episodio oggetto del processo, i giudici di merito ritengono, sia in primo che in secondo grado, palese la colpevolezza dell'uomo finito sotto accusa per avere rivolto palesi minacce nei confronti della madre di un suo debitore. Sia in Tribunale che in Appello l'uomo viene condannato per il reato di minaccia grave , minaccia consistita nel dire all'anziana donna che le avrebbe bruciato la casa e che doveva aprire la porta se teneva al figlio. Il legale dell'uomo sotto processo prova a ridimensionare in Cassazione i fatti addebitati al suo cliente, e in questa ottica egli sostiene si debba parlare di minaccia semplice , punibile su querela della persona offesa, querela che in questo caso, aggiunge, è mancata completamente. Su quest'ultimo punto si soffermano i giudici di terzo grado, chiarendo che la minaccia era in realtà diretta, in maniera evidente, soprattutto nei confronti del debitore, cioè il figlio della donna, il quale, sebbene non presente al momento della pronuncia della frase minacciosa, ne era l'effettivo destinatario . Di fatto, aggiungono i giudici, è stata minacciata anche la donna ma tale dettaglio è da privo di valore, poiché il fatto che la minaccia non sia stata direttamente percepita dalla persona offesa non rileva, tenuto conto che ai fini della configurabilità del delitto di minaccia non è necessario che le espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa, potendo quest'ultima venirne a conoscenza anche attraverso altri soggetti, in un contesto dal quale possa desumersi la volontà dell'agente di produrre l' effetto intimidatorio . E nella vicenda oggetto del processo risulta del resto evidente che l'uomo sotto accusa abbia espresso le minacce nei confronti della donna affinché ella le riferisse al figlio . Indiscutibile, infine, la gravità della minaccia, soprattutto tenendo presente il male minacciato, ossia lo spauracchio di bruciare la casa della donna.

Presidente Zaza – Relatore Sessa Ritenuto in fatto 1.Con sentenza del 9.5.2022 la Corte di Appello di Ancona ha confermato la pronuncia emessa in primo grado nei confronti di C.M., che lo aveva dichiarato colpevole del reato di minaccia grave. 2.Ricorre per cassazione l'imputato, tramite il difensore di fiducia, deducendo quanto segue. Nel caso di specie la condotta dell'imputato, C.M., non integra il delitto di cui all' art. 612 c.p. , comma 2, in quanto la frase accertata in sentenza, quant'anche pronunciata, integra al più la fattispecie dell' art. 612 c.p. , comma 1, nei confronti della sola sig.ra P.N. la quale non ha sporto querela. Affinché le circostanze contestuali fossero tali per attribuire l'aggravante del comma 2, la Corte distrettuale avrebbe dovuto in sentenza descrivere compiutamente tali circostanze e spiegare come potessero aggravare il reato. Al contrario la Corte distrettuale ha ritenuto sufficiente la frase indicata nella sentenza di primo grado, attribuita all'imputato, del tutto difforme rispetto a quella contestata - minacce con cui veniva affermato che se teneva al proprio figlio doveva aprire la porta e soprattutto veniva minacciata che avrebbero bruciato la casa - senza ulteriormente indagare, laddove ciò sarebbe stato necessario per ritenere l'applicabilità del comma 2 nel caso di specie ove non si configurano aggravanti ex art. 339 c.p. , in ultimo anche per l'applicazione della congrua pena. Tale lacuna processuale deve condurre - come precisato in sede di conclusioni rassegnate con la memoria in atti - all'assoluzione perché il fatto non sussiste, in subordine alla declaratoria di improcedibilità per mancanza di querela da parte di P.N., in ulteriore subordine al rinvio ad altra corte di appello per supplemento di istruttoria sulle circostanze contestuali del fatto affinché possa stabilirsi se sussistano le circostanze per definire il reato aggravato, e di stabilire quindi l'equa pena. 3. Il ricorso è stato trattato, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176 , senza l'intervento delle parti che hanno così concluso per iscritto il Sostituto Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso il difensore dell'imputato ha insistito nell'accoglimento del ricorso, precisando ulteriormente le precedenti conclusioni. Considerato in diritto 1.Il ricorso è inammissibile. Il ricorso estrapola una parte della motivazione della sentenza di primo grado e sulla base di essa assume che la minaccia attribuita in sentenza è diversa da quella contestata, assumendo tra l'altro che essa era stata rivolta nei confronti della madre della persona offesa che non ha proposto querela laddove la Corte di appello ha spiegato come la minaccia fosse in realtà in maniera evidente diretta soprattutto nei confronti del figlio di P.N., R., debitore dell'imputato, che sebbene non presente al momento della pronuncia della frase minacciosa, ne era l'effettivo destinatario di fatto era minacciata anche la madre convivente proprietaria della casa che si era minacciato di incendiare, ma il Tribunale in sede di determinazione della pena non faceva alcun riferimento alla duplicità della valenza della minaccia, né alla duplicità delle persone offese, sicché il motivo è nel suo complesso generico. La Corte di Appello ha invero anche precisato che il fatto che la minaccia non sia stata direttamente percepita dalla persona offesa non rilevi, tenuto conto che, secondo l'orientamento di questa Corte, ai fini della configurabilità del delitto di minaccia non è necessario che le espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa, potendo quest'ultima venirne a conoscenza anche attraverso altri, in un contesto dal quale possa desumersi la volontà dell'agente di produrre l'effetto intimidatorio ed ha opportunamente aggiunto che risulta del resto evidente che l'imputato - unitamente al suo correo - abbia espresso le minacce nei confronti della madre di R. affinché la donna le riferisse al figlio. Quanto alla gravità della minaccia, è vero che ai fini della sua configurabilità rileva l'entità del turbamento psichico determinato dall'atto intimidatorio sul soggetto passivo, che va accertata avendo riguardo non soltanto al tenore delle espressioni verbali profferite ma anche al contesto nel quale esse si collocano Sez. 5, n. 8193 del 14/01/2019, Rv. 275889 - 01 , è altrettanto vero che sia il tenore che il contesto non possono ritenersi pretermessi nella valutazione dei giudici di merito che hanno fatto espresso riferimento non solo alla gravità del male minacciato - insita nella minaccia di bruciare la casa - ma anche alle circostanze di fatto che hanno accompagnato la sua realizzazione, avendo tra l'altro la Corte di Appello, in premessa, evidenziato come quella riportata non fosse, tra l'altro, stata l'unica profferita dall'imputato e dal suo complice e come essa non pote ricondursi a un mero sfogo di due creditori insoddisfatti. 2. Dalle ragioni sin qui esposte deriva la declaratoria di inammissibilità del ricorso, cui consegue, per legge, ex art. 616 c.p.p. , la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di procedimento, nonché, trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal medesimo atto impugnatorio, al versamento, in favore della Cassa delle Ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000,00 in relazione alla entità delle questioni trattate. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.