Offese, minacce e violenze alla convivente: la capacità di reazione della donna non mette in dubbio il reato

Censurata la tesi, che in Appello ha portato all’assoluzione dell’uomo, secondo cui è necessario che la vittima sia succube, tra le mura domestiche, del proprio aguzzino per poter parlare di maltrattamenti in famiglia. I Giudici della Cassazione sottolineano che la capacità di resistenza mostrata dalla persona offesa non può rendere meno gravi i comportamenti tenuti dal soggetto responsabile delle condotte maltrattanti.

Per considerare una donna vittima di maltrattamenti tra le mura domestiche non è necessario che ella sia completamente succube del suo aguzzino. A finire sotto processo è un uomo, accusato, tra l’altro, di maltrattamenti commessi ai danni della compagna durante un periodo di convivenza more uxorio . Il quadro probatorio pare inequivocabile. Difatti, è risultata provata la reiterazione abituale di atti offensivi commessi dall’uomo ai danni dell’allora compagna esemplare il riferimento a una serie di offese e minacce che l’uomo rivolgeva nei confronti della convivente, anche alla presenza dei figli minori, giungendo poi, in più occasioni, ad istigare proprio i figli a rivolgersi alla madre con appellativi gravemente offensivi . Per i giudici del Tribunale non ci sono dubbi l’uomo è colpevole del reato di maltrattamenti in famiglia. Ma, a sorpresa, i giudici d’Appello ritengono l’uomo non meritevole di condanna e spiegano che la persona offesa non era , all’epoca, rimasta succube delle vessazioni subite per mano del compagno. In particolare, i giudici di secondo grado sottolineano che tra i due conviventi non si è creato quel rapporto ‘aguzzino-vittima’ necessario per il reato di maltrattamenti in famiglia . A contestare in Cassazione la decisione d’Appello sono la Procura e la donna, costituitasi parte civile. I Giudici di terzo grado ritengono sacrosante le critiche mosse alla pronuncia assolutoria emessa in Appello, pronuncia che viene fortemente censurata poiché ridimensiona, alla luce delle reazioni della donna, i comportamenti tenuti dall’uomo. Dato obiettivo non in discussione è l’esistenza, tra l’uomo sotto processo e l’allora sua compagna, di una relazione interpersonale improntata a continue condotte offensive e denigratorie, che si sostanziavano nell’ abituale aggressività verbale dell’uomo ai danni della convivente , come certificato dalla valenza offensiva e umiliante delle ingiurie dirette per otto mesi dall’uomo alla donna . I Giudici di Cassazione fissano un punto fermo da cui partire per valutare la pronuncia assolutoria emessa in Appello l’uomo si è reso responsabile di condotte offensive e umilianti , commesse nei confronti della compagna e che sono state poste in essere anche alla presenza dei loro figli minori . Ora è necessario, perciò, verificare la correttezza, sul piano prettamente giuridico, della tesi sostenuta dai giudici d’Appello, tesi secondo cui il reato di maltrattamenti presuppone l’instaurazione di un rapporto ‘aguzzino-vittima’, incompatibile , nella vicenda oggetto del processo, con le condotte della donna, condotte che ne certificano la conservata capacità di reagire all’uomo, all’epoca, sia sul piano della risposta verbale, che comportamentale . In sostanza, secondo i giudici d’Appello, la donna non era divenuta succube del compagno, tant’è che nei messaggi di risposta a lui inviati – messaggi contenenti, in gran parte, offese di vario genere – mostrava solidità emotiva, rispondendo quasi con noncuranza alle accuse di infedeltà , mentre in alcuni casi ometteva qualsivoglia risposta all’uomo. Inoltre, sempre secondo i giudici d’Appello, la donna non è stata lesa dalle condotte poste in essere dal compagno, come dimostrato anche dal fatto che ella scelse di proseguire la convivenza per convenienza propria, interrompendola solo quando ritenne opportuno farlo, senza preavvertire il compagno . Tutto ciò dimostra, seguendo il ragionamento dei giudici di secondo grado, che la donna non si è sentita sottoposta ad un regime di vita umiliante e intollerabile e non è rimasta succube del compagno , e ciò fa venire meno l’ipotesi del reato di maltrattamenti in famiglia. I Giudici di Cassazione ribattono ricordando che, Codice Penale alla mano, il reato di maltrattamenti in famiglia richiede, quale elemento costitutivo, una condotta oggettivamente idonea a ledere la persona nella sua integrità psico-fisica , consistente nella sottoposizione ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita e l’abitualità della condotta deve essere idonea a determinare uno stato di sofferenza e di umiliazione nella vittima , senza che, tuttavia, ciò debba necessariamente comportare la riduzione della stessa vittima in uno stato di sudditanza psicologica nei confronti del suo aguzzino. Di conseguenza, è del tutto irrilevante che la persona offesa dimostri una maggiore o minore capacità di resistenza, come pure il mantenimento di un’autonomia decisionale, posto che tali dati attengono essenzialmente ad un profilo strettamente soggettivo che, tuttavia, non inficiano l’idoneità della condotta illecita a determinare uno stato di sofferenza nella persona che la subisce abitualmente nel tempo. Tirando le somme, il reato di maltrattamenti in famiglia presuppone l’accertamento di condotte oggettivamente lesive della sfera psico-fisica del convivente, a fronte delle quali il grado di sofferenza in concreto indotto non costituisce un elemento decisivo. Proprio per questo, va censurata, secondo i Magistrati di Cassazione, il ragionamento compiuto dai giudici d’Appello, i quali hanno rimarcato l’assenza di un ‘rapporto aguzzino-vittima’ a fronte della forza manifestata dalla donna, la quale non solo risponde a tono al compagno, in svariate occasioni, ma mostra di non averne alcun timore e, soprattutto, di non sentirsi sottoposta ad un regime di vita umiliante e intollerabile, tanto che non accenna mai a volersi separare . Il ragionamento portato avanti dai giudici d’Appello e culminato nell’assoluzione dell’uomo è basato essenzialmente sulla esclusione della sofferenza morale da parte della vittima, non rimasta succube del convivente . Tale impostazione non è però condivisibile, ribattono i Magistrati di Cassazione, poiché la condotta maltrattante deve essere oggettivamente idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, ma ciò non implica anche che la persona offesa debba essere necessariamente succube dell’aguzzino, intendendosi con tale locuzione una sostanziale incapacità di reazione. Il fatto che la persona offesa sia totalmente succube dell’autore dei maltrattamenti può rilevare, ma solo in senso dimostrativo dell’intensità e dell’effetto conseguente alle condotte penalmente rilevanti. In altri termini, per la configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia non è richiesta una totale soggezione della vittima, poiché la norma, nel reprimere l’abituale attentato alla dignità della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza . Ciò che rileva è, precisano i Magistrati, l’oggettiva idoneità della condotta ad imporre al convivente condizioni di vita umilianti e vessatorie , mentre è irrilevante il variabile grado di reazione e di sopportazione da parte della persona offesa . Anche perché, aggiungono i Giudici, le ragioni per cui la persona offesa può ritenere di tollerare i maltrattamenti, di non darvi peso, come addirittura di fingere una normalità di vita familiare, possono essere le più svariate ed attengono essenzialmente a valutazioni di tipo personale , non incidenti sull’oggettiva configurabilità della condotta punita dal Codice Penale. Altrettando irrilevante è il fatto che la persona offesa possa decidere di tollerare determinate condotte per poi interrompere, anche senza preavviso, la relazione sentimentale. Si tratta di dati comportamentali legati alle più svariate esigenze personali che, tuttavia, non sono idonei a sminuire l’obbiettiva e certa offensività della condotta maltrattante realizzata a monte , precisano i Giudici. Per fare definitivamente chiarezza, e spazzare via ogni dubbio, infine, i Magistrati della Cassazione fissano anche un principio a cui dovranno attenersi i giudici d’Appello, chiamati a valutare nuovamente le condotte tenute dall’uomo nei confronti della compagna il reato di maltrattamenti in famiglia richiede, quale elemento costitutivo, una condotta oggettivamente idonea a ledere la persona nella sua integrità psico-fisica, consistente nella sua sottoposizione ad una serie di atti di vessazione continui e tali da risultare concretamente idonei a cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni. A fronte dell’oggettiva ricorrenza di tali presupposti, il reato non è escluso per effetto della minore o maggior capacità di resistenza dimostrata dalla persona offesa, come pure non è richiesto che la condotta maltrattante sia tale da rendere la vittima succube dell’autore del reato , chiosano i Giudici.

Presidente Costanzo – Relatore Di Geronimo Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Milano, in riforma della sentenza di condanna messa all'esito di giudizio abbreviato, assolveva l'imputato dai reati di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale consumata e tentata, nonché tentata violenza privata, commessi, durante la convivenza more uxorio, ai danni di H.M Per quanto in questa sede di rilievo, la Corte di appello operava una completa ricostruzione del quadro probatorio, ritenendo che, in relazione al reato di maltrattamenti in famiglia, risultava provata la reiterazione abituale di atti offensivi commessi ai danni della persona offesa, condotte sorrette dal dolo generico consistito nella consapevolezza e volontà della condotta nella sua unitarietà. Nella sentenza, in particolare, veniva ricostruita la serie di offese e minacce che l'imputato rivolgeva nei confronti della convivente, anche alla presenza di figli minori giungendo, in più occasioni, ad istigare i figli a rivolgersi alla madre con appellativi gravemente offensivi. Nonostante il quadro complessivamente accertato, la Corte di appello escludeva la sussistenza del reato di cui all' art. 572 c.p.p. , sul presupposto che la persona offesa non era rimasta succube delle vessazioni subite in particolare, si afferma che tra i conviventi non si sarebbe creato quel rapporto aguzzino-vittima ritenuto necessario al fine della configurabilità del reato. 2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello, nonché la parte civile. Con unico motivo di ricorso, il Procuratore generale ha dedotto l'erronea applicazione degli artt. 572 e 61, comma 11-quinquies c.p. , nonché vizio di motivazione, evidenziando come la Corte di appello, pur ritenendo provati i fatti integranti il reato di maltrattamenti in famiglia ne avrebbe escluso la ricorrenza sulla base di valutazioni circa le ragioni della condotta lesiva e, soprattutto, escludendo che la persona offesa avrebbe percepito di essere sottoposta ad una condizione di vita umiliante e vessatoria. 3. Con il primo motivo di ricorso proposto dalla parte civile, si propongono doglianze del tutto sovrapponibili a quelle sollevate dalla parte pubblica, sottolineando come la Corte di appello avrebbe escluso la sussistenza del reato introducendo un elemento costitutivo del reato - lo stato di soggezione della persona offesa - che non è previsto dall' art. 572 c.p.p. . Con il secondo motivo, inoltre, la parte civile deduce il vizio di motivazione in relazione alla mancata valutazione dell'aggravante di cui all'art. 61, n. 11-quinquies, c.p., nonostante fosse emerso che i figli dei conviventi avevano assistito alle quotidiane aggressioni verbali e materiali subite dalla madre. 4. L'imputato ha depositato memoria difensiva con la quale ha chiesto che i ricorsi siano rigettati e, comunque, in caso di accoglimento, la rideterminazione della pena nel minimo di legge, con applicazione delle generiche e della sospensione condizionale della pena. 5. Il procedimento è stato trattato in forma cartolare, ai sensi dell'art. 23, comma 8, D.L. n. 137 del 2020 e art. 7 d. 1. 23 luglio 2021, n. 105 . Considerato in diritto 1. I ricorsi sono fondati. 2. Occorre premettere che l'impugnazione verte esclusivamente sull'imputazione relativa ai maltrattamenti in famiglia, sicché la sentenza assolutoria emessa in relazione alle restanti contestazioni è divenuta definitiva. Con riguardo alla sola fattispecie di cui all' art. 572 c.p. , la Corte di appello ha espressamente riconosciuto la sussistenza dei fatti contestati, pertanto la materialità della condotta non è suscettibile di ulteriore esame. 2.1. La Corte di appello, invero con motivazione non immune da censure, ha sottoposto a vaglio critico la versione dei fatti resa dalla persona offesa, riscontrando alcune incoerenze, nonché la strumentalità delle denunce dalla medesima presentate. E' stato altresì stigmatizzato come alcuni dei messaggi inviati dall'imputato denotavano la fondata gelosia per le relazioni con altri uomini della persona offesa, giungendo ad affermare che l'imputato appariva come un uomo rassegnato e mortificato dal disinteresse fisico della compagna piuttosto che di un predatore incurante del dissenso della donna . Anche le testimonianze della vicina di casa e del medico curante della persona offesa, pur offrendo elementi di riscontro, sono state sminuite nella loro portata, avendo la Corte di appello ritenuto di evidenziare incongruenze rispetto alla versione offerta dalla persona offesa. La Corte di appello, pur avendo reso una lettura riduttiva degli elementi a carico dell'imputato, non è giunta, tuttavia, ad escludere il dato obiettivo, costituito da una relazione interpersonale improntata a continue condotte offensive e denigratorie, che si sostanziavano nell'abituale aggressività verbale dell'imputato ai danni della convivente. In tal senso depone quanto osservato dalla Corte di appello lì dove riconosce espressamente la sussistenza di atti offensivi connotati dal requisito dell'abitualità e sorretti dal dolo unitario proprio del reato di cui all' art. 572 c.p. si veda pg.12 sentenza di appello . Tale conclusione viene ribadita lì dove si afferma che non si discute né della valenza offensiva e umiliante delle ingiurie dirette da V. alla compagna da maggio 2017 a dicembre 2017, né della loro abitualità p.25 . Quanto detto consente di affermare che il dato fattuale definitivamente accertato è che V. si è reso responsabile di condotte offensive e umilianti, commesse nei confronti della compagna e che - per come descritte nelle sentenze di merito - sono state poste in essere anche alla presenza dei figli minori. 3. L'oggetto del ricorso, pertanto, si riduce essenzialmente nel verificare la correttezza, sul piano prettamente giuridico, della tesi sostenuta dalla Corte di appello, secondo cui il reato di maltrattamenti presupporrebbe l'instaurazione di un rapporto aguzzino-vittima , incompatibile con condotte della persona offesa che dimostrino come questa conservi la capacità di reagire, sia sul piano della risposta verbale, che comportamentale. Sostiene, infatti, la Corte di appello, che la persona offesa non sarebbe divenuta succube del convivente, tant'e' che nei messaggi di risposta inviati al convivente in gran parte contenenti offese di vario genere mostrava solidità emotiva , rispondendo quasi con noncuranza alle accuse di infedeltà, mentre in alcuni casi ometteva qualsivoglia risposta. In definitiva, si ritiene che la H. non sarebbe stata lesa dalle condotte poste in essere dal convivente, come dimostrato anche dal fatto che la stessa avrebbe scelto di proseguire la convivenza per convenienza propria ed interrompendola solo quando ha ritenuto opportuno farlo, senza preavvertire il compagno pg.26 . Tutto ciò dimostrerebbe che la H. non si sia sentita sottoposta ad un regime di vita umiliante e intollerabile e non sia rimasta succube del convivente, con conseguente esclusione della sussistenza del reato di cui all' art. 572 c.p. . 4. Le conclusioni cui giunge la sentenza impugnata confliggono con la consolidata giurisprudenza di questa Corte. Il reato di cui all' art. 572 c.p.p. richiede, quale elemento costitutivo, una condotta oggettivamente idonea a ledere la persona nella sua integrità psicofisica, consistente nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita Sez.6, n. 7192 del 04/12/2003, dep. 2004. Rv. 228461 . L'abitualità della condotta, pertanto, deve essere idonea a determinare uno stato di sofferenza e di umiliazione nella vittima senza che, tuttavia, ciò debba necessariamente comportare la riduzione della stessa in uno stato di sudditanza psicologica, come sembrerebbe intendere la Corte di appello. A ben vedere, l' art. 572 c.p. - a differenza di quanto invece previsto nell' art. 612-bis c.p. - non richiede affatto un'indagine circa le conseguenze determinate sul piano strettamente interiore della persona offesa, indicando quale elemento costitutivo del reato la sola condotta oggettivamente maltrattante, posta in essere in maniera abituale. Rispetto alla struttura del reato, pertanto, non è consentito introdurre un ulteriore elemento costitutivo rappresentato dall'instaurazione di un rapporto di soggezione della persona offesa, proprio perché la norma richiede esclusivamente che siano poste in essere atti idonei a maltrattare e, quindi, a provocare una sofferenza morale o psichica che, tuttavia, non deve necessariamente comportare che la vittima risulti soggiogata dall'autore del reato. E' del tutto irrilevante, pertanto, che la persona offesa dimostri una maggiore o minore capacità di resistenza, come pure il mantenimento di un'autonomia decisionale, posto che tali dati attengono essenzialmente ad un profilo strettamente soggettivo che, tuttavia, non inficiano l'idoneità della condotta illecita a determinare uno stato di sofferenza nella persona che la subisce. Del resto, ove si ritenesse che i maltrattamenti integrino il reato di cui all' art. 572 c.p. solo in presenza della soggettiva percezione della loro offensività, si introdurrebbe un parametro confliggente con il principio di tipicità dell'illecito penale e, peraltro, si farebbe dipendere la configurabilità del reato da un elemento estraneo alla condotta dell'agente e ricollegato alla maggiore o minore sensibilità e capacità di resistenza della persona offesa. A tal proposito basti considerare le più diversificate percezioni che la vittima di maltrattamenti può avere rispetto a tale condotta a seconda di qualità personali o condizionamenti socio-culturali che, ove ritenuti rilevanti, introdurrebbero un grado di assoluto relativismo nell'individuazione del reato, evidentemente incompatibile con la necessaria oggettività della tipizzazione dell'illecito. In buona sostanza, il reato in esame presuppone l'accertamento di condotte oggettivamente lesive della sfera psico-fisica del convivente, a fronte delle quali il grado di sofferenza in concreto indotto non costituisce un elemento costitutivo del reato. Sulla base di tali coordinate, non è condivisibile l'affermazione sulla quale la Corte di appello incentra l'esito assolutorio e, cioè, sull'assenza di un rapporto aguzzino-vittima che, nel caso di specie, non ricorrerebbe in quanto si è ritenuto che la persona offesa non solo risponde a tono all'imputato in svariate occasioni, ma mostra di non averne alcun timore e, soprattutto, di non sentirsi sottoposta ad un regime di vita umiliante e intollerabile tanto che non accenna mai a volersi separare p.26 . E' bene precisare che la Corte di appello, nell'esprimere tale giudizio, premette che nel caso di specie non si verte nell'ipotesi di reciproche condotte maltrattanti, sicché l'intero ragionamento è basato essenzialmente sulla esclusione della sofferenza morale da parte della vittima, che non sarebbe rimasta succube del convivente. Tale impostazione non trova alcun effettivo conforto nella consolidata giurisprudenza di questa arte, se non in una risalente pronuncia secondo cui per la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia sarebbe necessario che l'autore abbia posto in essere un complesso di attività rivolte, sia oggettivamente sia nella rappresentazione dello stesso soggetto, all'avvilimento o alla durevole oppressione della vittima Sez.2, n. 1719 del 1/12/1965, dep. 1966, Baldacci, Rv.100792 . Invero, si tratta di un principio non condivisibile, dovendosi per converso ritenere che la condotta maltrattante deve essere oggettivamente idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, ma ciò non implica anche che la persona offesa debba essere necessariamente succube, intendendosi con tale locuzione una sostanziale incapacità di reazione. Il fatto che la persona offesa sia totalmente succube del soggetto maltrattante può rilevare, ma solo in senso dimostrativo dell'intensità e dell'effetto conseguente al reato, ma non può attribuirsi a tale condizione soggettiva il ruolo di elemento costitutivo del reato. In altri termini, per la configurabilità del reato non è richiesta una totale soggezione della vittima perché la norma, nel reprimere l'abituale attentato alla dignità della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza Sez. 6, n. 4015 del 04/03/1996, Gazzetto, Rv. 204653 . Per le ragioni in precedenza esposte, ciò che rileva è l'oggettiva idoneità della condotta ad imporre condizioni di vita umilianti e vessatorie, mentre il variabile grado di reazione e di sopportazione da parte della persona offesa rimane estranea alla tipicità del fatto. Del resto, le ragioni per cui la persona offesa può ritenere di tollerare i maltrattamenti, di non darvi peso, come addirittura di fingere una normalità di vita familiare, possono essere le più svariate ed attengono essenzialmente a valutazioni di tipo personale, non incidenti sull'oggettiva configurabilità del reato. Altrettando irrilevante è il fatto che la persona offesa possa decidere di tollerare determinate condotte per poi interrompere, anche senza preavviso, la relazione sentimentale. Si tratta di dati comportamentali legati alle più svariate esigenze personali che, tuttavia, non sono idonei a sminuire l'obbiettiva e certa offensività della condotta maltrattante realizzata a monte. In conclusione, deve affermarsi il principio - cui dovrà attenersi il giudice di rinvio - secondo cui il reato di cui all' art. 572 c.p.p. richiede, quale elemento costitutivo, una condotta oggettivamente idonea a ledere la persona nella sua integrità psico-fisica, consistente nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione continui e tali da risultare concretamente idonei a cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni. A fronte dell'oggettiva ricorrenza di tali presupposti, il reato non è escluso per effetto della minore o maggior capacità di resistenza dimostrata dalla persona offesa, come pure non è richiesto che la condotta maltrattante sia tale da rendere la vittima succube dell'autore del reato. 5. Alla luce di tali considerazioni, la sentenza impugnata va annullata con rinvio, dovendosi precisare che il motivo concernente la sussistenza dell'aggravante di cui all' art. 61 n. 11 c.p. è assorbito nell'annullamento disposto in relazione al reato di maltrattamenti, sicché la Corte di appello, qualora ritenga la sussistenza del reato di cui all' art. 572 c.p. , provvederà anche a valutare la configurabilità dell'aggravante. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio a altra sezione della Corte di appello di Milano.