Palazzo per l’edilizia popolare: bene pubblico fino alla cessione dell’ultimo alloggio

Impossibile parlare di sdemanializzazione tacita in presenza di un immobile ancora destinato allo scopo pubblico, sia pure limitatamente anche a una sola delle unità abitative assegnata in uso.

Possibile catalogare non più come bene pubblico il complesso immobiliare destinato ad edilizia popolare allorquando è completata l'alienazione ai privati di tutti i singoli alloggi. Usucapione. Il caso riguarda la possibile proprietà per usucapione di alcuni immobili cointestati a diversi soggetti. Nello specifico, il riferimento è ad alcuni locali fondaco, ad alcuni locali garage e ad alcune porzione di giardino, tutti facenti parte di un complesso immobiliare realizzato dall'IACP per rispondere alla domanda di case popolari. Per i giudici di merito, però, è impossibile parlare di usucapione. Su questo fronte i giudici d'Appello precisano che il complesso immobiliare è stato edificato dall'IACP e la sua destinazione pubblica è cessata solo con la dismissione della proprietà dell'intero complesso evento verificatosi con la vendita intervenuta solo nel 1990 e non già con il primo atto di cessione, intervenuto nel 1971 . Peraltro, trattandosi della pretesa usucapione di beni comuni, dei quali è permesso l'uso esclusivo senza che ciò integri possesso ad usucapionem , è da reputare che i soggetti che rivendicano ora la proprietà di locali e porzione di giardino abbiano esercitato il possesso uti condominus e non uti dominus . Bene pubblico. Col ricorso in Cassazione, però, il legale che rappresenta gli aspiranti proprietari sostiene che l'indisponibilità del bene pubblico non dipende dalla mera titolarità, bensì dall'effettiva destinazione pubblica dello stesso bene , cioè, in questo caso, assicurare un alloggio abitativo a persone non abbienti . Pertanto, secondo il legale, è sbagliato non considerare che la destinazione pubblica dell'immobile era cessata dal momento in cui l'IACP aveva disposto la dismissione autorizzando la vendita della palazzina in favore dei singoli condomini, cosa che era accaduto nel 1971 , con la conseguenza che non poteva assumere rilievo la circostanza che solo nel 1990 l'ultima condòmina avesse reputato di addivenire alla stipula dell'atto di cessione . I giudici di Cassazione ribattono ricordando che i beni del patrimonio indisponibile di un ente pubblico non territoriale possono essere sottratti alla pubblica destinazione soltanto nei modi stabiliti dalla legge, e quindi certamente non per effetto di usucapione da parte di terzi, non essendo usucapibili diritti reali incompatibili con la destinazione del bene dell'ente al soddisfacimento del bisogno primario di una casa di abitazione per cittadini non abbienti . Ciò significa che la indisponibilità del bene pubblico – nella specie, un complesso immobiliare destinato ad edilizia popolare –, cessa solo al venir meno della destinazione dell'intera costruzione, con l'alienazione di tutti i singoli alloggi . E tale situazione non è sovrapponibile a quella in cui l'ente pubblico non abbia dismesso tutti gli alloggi, come nel caso in esame, non assumendo rilievo il dato quantitativo della dismissione , precisano i giudici. Sotto altro profilo, poi, l'inizio del procedimento amministrativo di alienazione, secondo le prescrizioni di legge, non può equipararsi alla sdemanializzazione, la quale sopravviene solo quando è del tutto cessato l'interesse pubblico alla destinazione del bene, con la vendita dell'ultima unità abitativa. Di conseguenza, in presenza di un immobile ancora destinato allo scopo pubblico, sia pure limitatamente anche a una sola delle unità abitative assegnata in uso, non può ravvisarsi la sussistenza di atti o fatti univoci e incompatibili con la volontà di continuare a perseguire lo scopo di legge , cosicché deve escludersi la sussistenza di una sdemanializzazione tacita .

Presidente Mocci – Relatore Grasso Osserva La Corte d'appello di L'Aquila confermò la sentenza di primo grado, con la quale era stata rigettata la domanda con la quale C.S. , da una parte, e D.C.O. , F.A. e F.L. , dall'altra, avevano chiesto essere dichiarati proprietari per usucapione di vari immobili cointestati ai convenuti D.G. , +Altri il C. , di un locale fondaco di 9 mq, retrostante l'appartamento di proprietà, un locale garage di 15 mq e una porzione di mq 128 facente parte di un giardino di complessivi 792 mq. gli altri attori, analoghi locali fondaco e garage delle medesime dimensioni dei primi e una porzione di 120 mq del predetto giardino. Questi, in sintesi, gli argomenti con i quali la Corte territoriale ha disatteso l'impugnazione degli attori - il complesso immobiliare era stato edificato dall'IACP e, a dispetto di quanto sostenuto dagli appellanti, la destinazione pubblica dello stesso era cessata solo con la dismissione della proprietà dell'intero complesso evento verificatosi con la vendita in favore di F.A. intervenuta solo nel 1990 e non già con il primo atto di cessione intervenuto nel 1971 - trattandosi della pretesa usucapione di beni comuni, dei quali è permesso l'uso esclusivo, senza che ciò integri possesso ad usucapionem , era da reputare che gli attori avessero esercitato il possesso uti condominus e non uti dominus . D.C.O. , F.A. e F.L. ricorrono avverso la decisione d'appello sulla base di tre motivi, ulteriormente illustrati da memoria. La controparte è rimasta intimata. 1. Con il primo motivo, denunciante violazione e falsa applicazione dell' art. 830 c.c. e art. 828 c.c. , comma 2, artt. 1158 e 1161 c.c. , i ricorrenti evidenziano che l'indisponibilità del bene pubblico non dipende dalla mera titolarità, bensì dall'effettiva destinazione pubblica dello stesso nella specie assicurare un alloggio abitativo a persone non abbienti. La sentenza gravata aveva, pertanto, errato a non considerare che la destinazione pubblica era cessata dal momento in cui l'IACP aveva disposto la dismissione autorizzando la vendita della palazzina in favore dei singoli condomini, il che era accaduto nel 1971 di conseguenza, non poteva assumere rilievo la circostanza che solo nel 1990 la condomina F. avesse reputato di addivenire alla stipula dell'atto di cessione. Inoltre, non poteva affermarsi che, a mente del D.P.R. n. 2 del 1959, art. 15 gli immobili divengono di proprietà privata solo col pagamento dell'ultima rata, stante che lo scopo è solo quello di far sì che il denaro pubblico, investito nell'edilizia popolare, non venga poi disperso in operazioni speculative , nel mentre nell'acquisto per usucapione non è dato rinvenire alcun intento speculativo. 1.1. La doglianza è infondata. Questa Corte ha avuto modo di chiarire che, ai sensi del combinato disposto di cui all' art. 830 c.c. e art. 828 c.c. , comma 2, i beni del patrimonio indisponibile di un ente pubblico non territoriale possono essere sottratti alla pubblica destinazione soltanto nei modi stabiliti dalla legge, e quindi certamente non per effetto di usucapione da parte di terzi, non essendo usucapibili diritti reali incompatibili con la destinazione del bene dell'ente al soddisfacimento del bisogno primario di una casa di abitazione per cittadini non abbienti Sez. 2, n. 12608, 28/08/2002, Rv. 557167 . La indisponibilità del bene pubblico, nella specie complesso immobiliare destinato a edilizia popolare, cessa solo al venir meno della destinazione dell'intera costruzione, con l'alienazione di tutti i singoli alloggi. Una tale situazione non è sovrapponibile a quella in cui l'ente pubblico non abbia dismesso tutti gli alloggi, come nel caso di specie, non assumendo rilievo il dato quantitativo di essa dismissione. Sotto altro profilo l'inizio del procedimento amministrativo di alienazione, secondo le prescrizioni di legge, non può equipararsi alla sdemanializzazione, la quale sopravviene solo quando è del tutto cessato l'interesse pubblico alla destinazione del bene, con la vendita dell'ultima unità abitativa. Invero, applicandosi i principi generali, in presenza di un immobile ancora destinato allo scopo pubblico, sia pure limitatamente anche a una sola delle unità abitative assegnata in uso, non può ravvisarsi la sussistenza di atti o fatti univoci e incompatibili con la volontà continuare perseguire lo scopo di legge cosicché deve escludersi la sussistenza di una sdemanializzazione tacita ex art. 829 c.c. cfr. Sez. 2, n. 22569, 16/10/2020, Rv. 659386 conf., fra le tante, Cass. n. 4827/2016 . 2. In ragione del rigetto del primo motivo, con il quale i ricorrenti aggrediscono infruttuosamente una delle due rationes decidendi , restano assorbiti in senso improprio gli altri due, attraverso i quali, ora evocando violazione e falsa applicazione dell' art. 115 c.p.c. , ora l'omesso esame di un fatto controverso e decisivo, aggrediscono l'altra ratio decidendi , contestando l'apprezzamento istruttorio della sentenza, in particolare assumendo di avere provato il possesso ad excludendum dei beni di cui si è detto. 3. Essendo la controparte rimasta intimata non v'è luogo a statuizione sulle spese. 4. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 applicabile ratione temporis essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013 , si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto. P.Q.M. rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 , comma 1-quater inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1 , comma 17 , si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.