Reagisce online con un post offensivo alla lettera di messa in mora: la tempistica legittima la condanna per diffamazione

Inequivocabile il contenuto dello scritto condiviso on line e mirato ad esporre l’autore della lettera al pubblico ludibrio. Impossibile, chiariscono i Giudici, ipotizzare che il post pubblicato su un social network sia stato frutto d’ira, poiché si è concretizzato a distanza di tempo dall’arrivo della lettera di messa in mora.

Impossibile giustificare la rabbia del debitore che pubblica sui social network uno stralcio della lettera di messa in mora fattagli recapitare dal creditore e lo accompagna con un post dal contenuto offensivo e denigratorio. Sacrosanta, perciò, la condanna, a fronte di un inequivocabile delitto di diffamazione. Ricostruito nei dettagli l’episodio, verificatosi online, i giudici di merito concordano sulla condanna della donna sotto processo, ritenuta colpevole di diffamazione per avere pubblicato sul social network Facebook lo stralcio di una lettera di messa in mora inviatale da un creditore e per averlo accompagnato con un post dal contenuto offensivo e denigratorio . Per provare a ridimensionare i fatti, però, l’avvocato che difende la donna sostiene in Cassazione la tesi della non punibilità dello stato d’ira . Secondo il legale è evidente come la condotta tenuta dalla sua cliente sia catalogabile come una reazione frutto di rabbia e, perciò, non punibile. I Giudici di Cassazione ribattono sottolineando come le risultanze istruttorie certifichino non solo la valenza diffamatoria delle espressioni utilizzate online dalla donna ma anche le modalità utilizzate e il contesto in cui quelle espressioni sono state divulgate . Senza dimenticare, poi, lo scopo finale della condotta, volta chiaramente ad esporre la parte offesa al pubblico ludibrio , sottolineano i Giudici. Incontestabile, quindi, la responsabilità penale della donna per il delitto di diffamazione . In aggiunta, poi, i Giudici respingono anche la tesi difensiva mirata a catalogare la lettera di messa in mora come una provocazione . Su questo punto i Magistrati evidenziano che dalle risultanze processuali non è affatto emerso il profilo ingiusto, o quantomeno sconveniente, del contenuto della lettera inviata alla donna dal creditore . Impossibile, quindi, sostenere che quella lettera abbia provocato la sgradevole condotta della donna. A maggior ragione, poi, tenendo presente che è stata esclusa la contiguità temporale tra l’azione del creditore e la reazione della donna, che aveva ricevuto la lettera di messa in mora tempo addietro rispetto alla risposta diffamatoria condivisa su Facebook.

Presidente De Gregorio – Relatore Carusillo Ritenuto in fatto 1. Il difensore di B.L., avv. G. P. B., ricorre per cassazione avverso la sentenza del 09 aprile 2021 con la quale la Corte di Appello di Perugia ha confermato la penale responsabilità dell'imputata in ordine al delitto di diffamazione ai danni di B.F. per aver pubblicato sul social network Facebook lo stralcio di una lettera di messa in mora dal medesimo inviatale, in calce alla quale aggiungeva un post dal contenuto offensivo e denigratorio. 2. La difesa formula due motivi di ricorso. 2.1 Con il primo motivo, proposto ai sensi dell' art. 606 c.p.p. , comma 1, lett. b ed e , per violazione di legge e vizio di motivazione, premessa l'omessa valutazione da parte della corte territoriale delle emergenze processuali a favore della difesa, lamenta la mancata pronuncia di prescrizione del reato, asseritamente intervenuta prima della sentenza in verifica. 2.2 Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b ed e , c.p.p. per violazione di legge e vizio di motivazione, lamenta che i giudici di appello hanno reso una motivazione meramente apparente, non avendo correttamente interpretato le risultanze istruttorie dalle quali desumere la sussistenza della causa di non punibilità dello stato d'ira di cui all' art. 599, comma 2, c.p. . Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. Le questioni giuridiche sollevate sono manifestamente infondate sia perché sviluppano censure non proponibili in sede di legittimità, replicanti motivi di gravame privi di concreti rilievi critici sul percorso decisorio della sentenza di appello, sia perché attinenti a profili di merito imperniati su una lettura alternativa e una reinterpretazione dei dati processuali e delle fonti di prova meramente fattuali, estranee al giudizio di legittimità, tenuto conto anche della coerenza logica e della corretta applicazione dei canoni di valutazione della prova che connotano la decisione. Inoltre, va osservato che, nel caso in cui le sentenze di primo e secondo grado concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente e forma con essa un unico complessivo corpo argomentativo Sez. 4, n. 15227 dell'11/4/2008, Baratti, Rv. 239735 Sez. 6, n. 1307 del 14/1/2003, Delvai, Rv. 223061 . Tale integrazione tra le due motivazioni si verifica allorché i giudici di secondo grado abbiano esaminato le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218 - 01 Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595 - 01 Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615 - 01 . 2. Quanto al primo motivo di ricorso, che investe la motivazione della pronuncia, i giudici di merito hanno puntualmente spiegato le ragioni poste a fondamento della conferma della sentenza di primo grado, valorizzando le risultanze istruttorie comprovanti non solo la valenza diffamatoria delle espressioni utilizzate dall'imputata, ma anche le modalità e il contesto nel quale le stesse sono state divulgate e lo scopo finale della condotta, volta a esporre la parte offesa al pubblico ludibrio . Si tratta di circostanze dalle quali, con argomentazione logica, completa e coerente, i giudici di appello hanno ravvisato la responsabilità del ricorrente in ordine al delitto contestato e con le quali la ricorrente non si confronta. 3. Privo di pregio è anche il secondo motivo. La corte territoriale, con argomentazioni puntuali ed ineccepibili, non solo ha escluso la tesi difensiva della provocazione evidenziando come dalle risultanze processuali non fosse affatto emerso il profilo ingiusto, o quantomeno sconveniente del contenuto della lettera inviata alla B. dalla vittima, al punto da causarne una sì sgradevole condotta, ma ha evidenziato che, in ogni caso, la causa di non punibilità prevista dall' art. 599 c.p. ricorre allorché il fatto ingiurioso, posto in essere come reazione al fatto ingiusto altrui, sia immediato. Sebbene la giurisprudenza di legittimità abbia precisato che nei reati contro l'onore, ai fini dell'integrazione dell'esimente della provocazione, l'immediatezza della reazione deve essere intesa in senso relativo, avuto riguardo alla situazione concreta e alle stesse modalità di reazione, in modo da non esigere una contemporaneità tra azione e reazione che finirebbe per limitare la sfera di applicazione dell'esimente in questione e di frustarne la ratio, occorre comunque che tra l'insorgere della reazione e il fatto che l'ha determinata sussista una reale contiguità temporale, così da escludere che il fatto ingiusto altrui diventi pretesto di aggressione alla sfera morale dell'offeso, da consumare nei tempi e con le modalità ritenute più favorevoli. Ragionevolmente, nel caso di specie, è stata esclusa la contiguità temporale, posto che la B. aveva ricevuto la lettera della parte offesa tempo addietro rispetto alla sua risposta diffamatoria. 4. La declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione fa sì che la sentenza impugnata diventi intangibile, sicché il giudice non è abilitato a rilevare, a norma dell' art. 129 c.p.p. , l'intervenuta prescrizione se maturata successivamente alla pronuncia in verifica. Nel caso di specie, la vicenda risale al giorno 30 maggio 2013. Il termine massimo di prescrizione del delitto contestato ai sensi dell'595, commi primo e terzo, c.p. è quello di anni sette e mesi sei. Ai sensi dell' art. 159 c.p. , a tale lasso temporale va aggiunto il periodo di sospensione di mesi cinque e giorni tre determinato dalla richiesta di rinvio formulata dalla difesa, così giungendosi ad un totale di anni sette, mesi undici e giorni tre, sicché il termine di prescrizione del reato si individua nel giorno 03 maggio 2021, successivo alla pronuncia della corte territoriale che è intervenuta in data 09 aprile 2021. 5. Dalle ragioni esposte deriva la declaratoria di inammissibilità del ricorso, cui consegue ai sensi dell' art. 606 c.p.p. , la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di procedimento, al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 3.000,00 in relazione alla entità delle questioni trattate, nonché al rimborso delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Condanna, inoltre, l'imputata alla refusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 3.420,00, oltre accessori di legge.