Inutili le obiezioni proposte dal lavoratore. Non censurabili, difatti, secondo i Giudici, le scelte imprenditoriali compiute dal titolare della pizzeria.
Legittimo il licenziamento del pizzaiolo se il proprietario del locale vuole ridurre l’attività, che è in difficoltà, per ottenere un calo dei costi e così conseguire un aumento dei profitti. Non contestabile, nella sostanza, la decisione imprenditoriale concretizzatasi nella soppressione del posto di pizzaiolo con ripartizione di quelle mansioni tra gli altri dipendenti e i componenti della società proprietaria della pizzeria. A dare ragione alla decisione presa dal titolare di una pizzeria sono innanzitutto i giudici di merito, i quali, nonostante le obiezioni proposte dal lavoratore, inquadrato come pizzaiolo , ne confermano il licenziamento. Ciò perché tale provvedimento è stato motivato dalla «soppressione del posto di lavoro con ripartizione delle relative mansioni tra gli altri dipendenti ed i soci al fine di conseguire un calo dei costi ed un miglioramento dei profitti». In particolare, in appello, viene sancito che le ragioni della scelta presa dal proprietario del locale sono chiare e viene poi aggiunto, quanto alla esistenza di posizioni alternative in cui collocare il lavoratore in adempimento dell’obbligo di repechage, che «effettivamente la posizione lavorativa del pizzaiolo era unica e che nessuno era stato assunto per essere adibito a quelle mansioni» mentre «le altre mansioni, di preparazione del caffè al banco del bar e di carico e scarico dei rifornimenti, erano del tutto accessorie e svolte in maniera saltuaria, e perciò non decisive ai fini della verifica dell’adempimento datoriale all’obbligo di repechage». Inutile il ricorso in Cassazione proposto dal legale che rappresenta il lavoratore. Anche per i magistrati di terzo grado, difatti, il licenziamento è legittimo . In particolare, i Giudici chiariscono che «in linea teorica è vero che, soppressa la posizione lavorativa e redistribuite le mansioni svolte, se residuano altre mansioni pure assegnate al dipendente in passato, queste possono costituire il contesto in cui ricollocare il lavoratore», ma aggiungono poi che, nella vicenda in esame, si è accertato che « la posizione lavorativa del pizzaiolo era stata soppressa e le relative mansioni erano state redistribuite tra i soci». E tale accertamento è stato effettuato «tenendo specificatamente conto delle caratteristiche della società datrice di lavoro, un’attività produttiva estremamente semplice e gestita in ambito familiare», aggiungono i Giudici. Si è anche appurato che «le altre mansioni » assegnate al lavoratore «erano assolutamente residuali e comunque gli erano state affidate in maniera saltuaria e occasionale». Infine, è acclarato che «non vi erano state nuove assunzioni successivamente al licenziamento del pizzaiolo», osservano i Giudici, e ciò ha confermato la tesi portata avanti dal titolare del locale, e cioè che il licenziamento del pizzaiolo andava inquadrato nell’ottica di «una riduzione dell’attività per ottenere il calo dei costi e per conseguire un miglioramento dei profitti». Tirando le somme, «va ravvisato il giustificato motivo oggettivo di licenziamento nell’andamento economico negativo dell’azienda che aveva comportato la soppressione del posto di lavoro», anche perché, aggiungono i Giudici, «le ragioni addotte dal datore di lavoro a sostegno della modifica organizzativa da lui attuata avevano effettivamente inciso, in termini di causa efficiente, sulla posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato», essendo stata «effettivamente riscontrata la soppressione del posto» di lavoro a seguito di «una diversa redistribuzione delle mansioni tra il personale in servizio».
Presidente Raimondi – Relatore Garri Fatti di causa 1. La Corte di appello di Milano per quanto qui ancora interessa ha confermato la legittimità del licenziamento intimato con lettera del 26 giugno 2017 a M.A. da N. s.a.s. di N.N.C. e C. e motivato dalla soppressione del posto di lavoro con ripartizione delle mansioni tra gli altri dipendenti ed i soci al fine di conseguire un calo dei costi ed un miglioramento dei profitti. 2. Il giudice di secondo grado ha accertato che le ragioni poste a fondamento del licenziamento erano state adeguatamente e sufficientemente esposte nella comunicazione, erano risultate provate nel corso dell’istruttoria svolta e non erano pretestuose. 3. Quanto alla esistenza di posizioni alternative nelle quali collocare il lavoratore in adempimento dell’obbligo di repechage ed alla eccepita violazione dei criteri di scelta, la Corte territoriale ha ritenuto che effettivamente la posizione lavorativa del M. pizzaiolo era unica, che nessuno era stato assunto per essere adibito a quelle mansioni. Le altre mansioni, di preparazione del caffè al banco del bar e di carico e scarico dei rifornimenti, erano del tutto accessorie e svolte in maniera saltuari, perciò, non erano decisive ai fini della verifica dell’adempimento datoriale all’obbligo di repechage. 4. Per la cassazione della sentenza propone ricorso M.A. affidato ad un unico motivo al quale resiste N. s.a.s. di N.N.C. e C. con controricorso ulteriormente illustrato da memoria. Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso ed il ricorrente ha depositato memoria illustrativa. Ragioni della decisione 5. Con un unico motivo di ricorso è denunciata la violazione e/o falsa applicazione 1 6d. 1, 3 e 5 della L. numero 604 del 1966 e ss.mm. e si deduce che il giudice di appello avrebbe erroneamente ritenuto assolto l’onere datoriale di provare l’impossibilità di riutilizzare il lavoratore in altre mansioni tenuto conto del fatto che nel corso dell’istruttoria era emerso che il lavoratore, rimasto assente per malattia per un periodo, al suo rientro era stato adibito allo svolgimento di mansioni diverse da quelle di pizzaiolo in precedenza svolte. Deduce che pertanto la società avrebbe dovuto dimostrare che non vi erano altre mansioni, neppure inferiori, dove collocarlo e dimostrare perché aveva scelto di liberarsi proprio di lui. Sostiene che era onere della datrice di lavoro dimostrare che non vi erano posizioni, neppure con riguardo a mansioni inferiori alle quali era stato in maniera promiscua comunque adibito, cui assegnare il lavoratore. Inoltre, non essendo stata soppresse le mansioni ma piuttosto ridotto il personale per una ottimizzazione dei costi, la società avrebbe dovuto procedere ad una valutazione comparativa dei diversi lavoratori per addivenire alla scelta di quello da licenziare. Al contrario la Corte di merito ha confuso la riduzione di personale operata con una soppressione della posizione lavorativa ed è così incorsa nella violazione di legge denunciata. 6. Il ricorso non può essere accolto. 6.1. In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sebbene non sussista un onere del lavoratore di indicare quali siano i posti disponibili in azienda ai fini del repèchage , gravando la prova della impossibilità di ricollocamento sul datore di lavoro, tuttavia, una volta accertata, anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, tale impossibilità, la mancanza di allegazioni del lavoratore circa l’esistenza di una posizione lavorativa disponibile vale a corroborare il descritto quadro probatorio Cass. 23/05/2018 numero 12794 6.2. Pertanto, se in linea teorica è vero che soppressa la posizione lavorativa e redistribuite le mansioni svolte se residuano altre mansioni pure assegnate al ricorrente in passato queste possono costituire il contesto nel quale ricollocare il lavoratore, va tuttavia rilevato che nel caso in esame la Corte di appello, con accertamento di fatto a lei riservato ed in questa sede incensurabile, ha accertato che la posizione lavorativa dell’odierno ricorrente era stata soppressa e le mansioni erano state redistribuite tra i soci. Tale accertamento, peraltro, è stato effettuato tenendo specificatamente conto delle caratteristiche della società datrice di lavoro, un’attività produttiva estremamente semplice e gestita in ambito familiare. La Corte poi si è fatta carico di verificare che le altre mansioni indicate erano assolutamente residuali e comunque erano state affidate all’odierno ricorrente in maniera saltuaria e occasionale. Infine ha verificato che non vi erano state nuove assunzioni successivamente al licenziamento del M. e di conseguenza ha ritenuto confermata la dedotta riduzione dell’attività per far fronte al calo dei costi e per conseguire un miglioramento dei profitti. In definitiva il giudice di appello all’esito di un accertamento di fatto in questa sede incensurabile ha, in adesione ai principi affermati da questa Corte, ravvisato il giustificato motivo oggettivo di licenziamento nell’andamento economico negativo dell’azienda che aveva comportato la soppressione del posto di lavoro e che le ragioni addotte dal datore di lavoro a sostegno della modifica organizzativa da lui attuata avevano effettivamente inciso, in termini di causa efficiente, sulla posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato. In sostanza è stato riscontrato che effettivamente la soppressione del posto era stata determinata da una diversa redistribuzione delle mansioni tra il personale in servizio mentre correttamente è stata ritenuta irrilevante la circostanza che l’obiettivo perseguito dall’imprenditore da ravvisare nella necessità di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli e conseguire una migliore efficienza ed un incremento della produttività non era affatto risultata pretestuosa o carente di veridicità cfr. Cass.14/02/2020 numero 3819 . Si tratta di un accertamento di fatto non censurabile cui è seguita una corretta sussunzione nella fattispecie astratta del giustificato motivo oggettivo dettata dalla norma con corretta valutazione anche delle possibilità concrete di diversa adibizione del lavoratore. 6.3. È infondata la domanda di condanna del ricorrente al risarcimento del danno ai sensi dell’articolo 96 c.p.c. posto che per quanto concerne l’articolo 96 comma 1 c.p.c. è necessario che nel formulare la domanda si alleghi e provi, anche solo in via presuntiva, un danno che poi può essere liquidato anche d’ufficio e nella specie nulla risulta allegato. Quanto alla previsione di cui al comma 3 dell’articolo 96 c.p.c. rileva il Collegio che non ne sussistono i presupposti. Va qui ribadito che la condanna al pagamento della somma equitativamente determinata, ai sensi del comma 3 dell’articolo 96 c.p.c., aggiunto dalla L. 18 giugno 2009, numero 69, presuppone l’accertamento della mala fede o colpa grave della parte soccombente, non solo perché la relativa previsione è inserita nella disciplina della responsabilità aggravata, ma anche perché agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sé rimproverabile cfr. Cass. 31/10/2016 numero 22120 . 7. In conclusione il ricorso deve essere rigettato e le spese, liquidate in dispositivo, vanno poste a carico del ricorrente soccombente. Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater va dato atto poi della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’articolo 13 comma 1 bis del citato D.P.R. numero , se dovuto. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 3.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge. Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’articolo 13 comma 1 bis del citato D.P.R., se dovuto.