Le lesioni subite aggravano un danno preesistente: come liquidare il danno?

È sbagliato ridurre i punti percentuali di invalidità relativi alle lesioni preesistenti.

La Sesta Sezione della Cassazione Civile, nell'ordinanza 35025 depositata il 29 novembre 2022, ha nuovamente chiarito quali siano i criteri da applicare nella liquidazione del danno cd. iatrogeno , ovvero nell'ipotesi in cui il responsabile abbia aggravato postumi permanenti di cui la vittima avrebbe comunque patito . Il caso. Avendo riportato lesioni a seguito di un errato intervento di stabilizzazione vertebrale la danneggiata promuoveva azione di risarcimento dei danni nei confronti del medico curante e della struttura medica. Per quel che qui rileva, con sentenza di primo grado confermata nel giudizio d'appello il giudice, a fronte di lesioni permanenti quantificate dalla consulenza tecnica d'ufficio nella misura del 20%, aveva determinato nella minor misura del 10% lo stato di invalidità riferibile al fatto dannoso, posto che la donna sarebbe stata comunque affetta da una invalidità del 10% per una patologia preesistente all'intervento. La danneggiata ha presentato ricorso in cassazione lamentando l'errore commesso dal giudice d'appello e prima dal Tribunale nell'applicazione dei principi consolidati di interpretazione dell'art. 1223 c.c. relativamente alla quantificazione del danno differenziale . La sottrazione deve essere tra valori monetari . Ponendosi nel solco dei propri precedenti tra cui la sentenza n. 26117/2021 pubblicata su queste pagine con commento dello scrivente la Cassazione ha ribaditoche l'apprezzamento delle menomazioni policrone ‘concorrenti' in capo al danneggiato rispetto al maggior danno causato dall'illecito va compiuto stimando, prima, in punti percentuali, l'invalidità complessiva, risultante cioè dalla menomazione preesistente sommata a quella causata dall'illecito e poi quella preesistente all'illecito, convertendo entrambe le percentuali in una somma di denaro . Ciò fatto, si deve poi procedere a sottrarre dal valore monetario dell'invalidità complessivamente accertata quella corrispondente al grado di invalidità preesistente. Con l'ordinanza in commento la Suprema Corte ha quindi cassato la decisione del giudice di merito che, confermando quanto statuito dal giudice di prime cure, aveva quantificato il danno ponendo a base del calcolo tabellare una percentuale invalidante del 10%, pari alla differenza tra quella del 20% effettivamente riscontrata e quella ascrivibile alle menomazioni preesistenti concorrenti, anziché operare la differenza tra la quantificazione tabellare della lesione del 20% e quella della lesione del 10%. La Cassazione ha anche spiegato la ratio sottostante a tale decisione, ovvero il fatto che il danno risarcibile non è il grado di invalidità in sé, bensì le funzioni vitali perdute dalla vittima tali privazioni progrediscono con intensità geometricamente crescente rispetto al crescere dell'invalidità, diversamente dalla misura convenzionale cioè i punti percentuali che ovviamente crescono secondo una progressione aritmetica. Conseguentemente la somma riconosciuta dalle tabelle cresce in modo più che proporzionale rispetto alla gravità dei postumi, il che significa che riconoscere una invalidità del 10% dal punto di vista monetario attribuisce al danneggiato una somma inferiore rispetto a riconoscerne una del 20% e sottrarre la somma derivante dall'invalidità pregressa del 10%.

Presidente Scoditti – Relatore Iannello Fatti di causa 1. P.E. convenne in giudizio avanti il Tribunale di Chieti la Casa di Cura omissis S.r.l. oggi omissis ed il Dott. A.D.F. chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni subiti in conseguenza di un errato intervento di stabilizzazione vertebrale. I convenuti chiesero e ottennero di chiamare in garanzia le proprie compagnie di assicurazioni - rispettivamente omissis Assicurazioni S.p.A. la prima, G. Assicurazioni S.p.A. e N. Assicurazioni il secondo - le quali si costituirono aderendo alle richieste di rigetto dei convenuti. Con sentenza n. 475/2016 del 13 giugno 2016 il Tribunale , in parziale accoglimento della domanda, condannò i convenuti al pagamento, in favore dell'attrice, della somma di Euro 41.050, oltre accessori, e condannò le compagnie omissis Assicurazioni S.p.a. e G. Assicurazioni S.p.a. a tenere indenni la Casa di Cura e il medico dal pagamento di quanto da essi dovuto per effetto della condanna. Rigettò la domanda di garanzia nei confronti della Unipol Assicurazioni S.p.a. e compensò integralmente le spese processuali. 2. P.E. impugnò tale decisione nei soli confronti della casa di cura nel frattempo divenuta omissis S.r.l. e della OMISSIS Assicurazioni S.p.a., dolendosi, tra l'altro, del mancato riconoscimento del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, dell'errata quantificazione del danno da invalidità permanente e del danno da invalidità temporanea parziale e della disposta compensazione delle spese di lite. Con sentenza n. 287/2021, depositata il 24 febbraio 2021, la Corte d'appello di L'Aquila lo ha integralmente rigettato, condannando l'appellante alle spese del grado. 3. Per la cassazione di tale sentenza P.E. propone ricorso articolando cinque motivi, cui resiste la omissis S.r.l., depositando controricorso. L'altra intimata, OMISSIS Assicurazioni S.p.a., non svolge difese nella presente sede. 4. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza della Corte. La ricorrente e la controricorrente hanno depositato memorie. Ragioni della decisione 1. I motivi di ricorso sono così sintetizzati dalla stessa parte ricorrente 1.1. Violazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3, con riferimento agli artt. 115 e 116 c.p.c. in punto di risarcimento del danno da attività lavorativa specifica, violazione dell' art. 116 c.p.c. , per avere la Corte d'Appello considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione violazione dell'art. 115, comma 2, per aver posto a fondamento nozioni addebitabili alla comune esperienza che, invece, non lo sono. 1.2. Violazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3, con riferimento agli artt. 1218 e 1223 c.c. ed ai principi giurisprudenziali consolidati in materia di liquidazione del danno c.d. differenziale errore nell'applicazione dei principi consolidati di interpretazione dell'art. 1223 c.c. in punto quantificazione del danno differenziale. 1.3. Violazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3, con riferimento all' art. 112 c.p.c. e artt. 1218 e 1223 c.c. in punto di quantificazione del danno da invalidità temporanea parziale, violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e giudicato e riforma di parti della sentenza di prime cure non soggette a impugnazione né principale né incidentale in ogni caso, violazione dell' art. 1223 c.c. in punto di quantificazione del danno medesimo. 1.4. Violazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3, con riferimento agli artt. 91 e 92 e 112 c.p.c. omessa pronuncia in punto di impugnazione della compensazione integrale delle spese di c.t.u. e comunque violazione delle regole di compensazione delle spese di c.t.u. di cui agli artt. 91 e 92 c.p.c. . 1.5. Violazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3, con riferimento agli artt. 91 e 92 violazione delle regole sulla regolazione delle spese di lite in caso di soccombenza reciproca. 2. Il primo motivo investe la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto, conformemente al primo giudice, non dimostrata l'esistenza di un nesso di causalità tra l'intervento subito dall'istante e la cessazione del lavoro di collaboratrice domestica svolto saltuariamente. 2.1. La Corte d'appello ha osservato al riguardo che a dalle dichiarazioni testimoniali è emerso che P.E. abbia cessato la predetta attività lavorativa dopo l'intervento, ma dagli atti del giudizio non è emerso che tale cessazione sia stata determinata dall'intervento. La teste Q.E., la cui dichiarazione è richiamata dall'appellante, ha infatti riferito che la predetta guadagnasse dalla citata attività circa lire 1.500,000 dalla corresponsione del pagamento in lire si deduce che l'attività lavorativa sia cessata ben prima dell'intervento, atteso che il corso della lira è cessata il 28 febbraio 2002 b nella consulenza tecnica d'ufficio è detto che P.E. dal 2003 al 2005 soffriva di lombosciatalgia con sintomi frequenti ed episodi di dolore che duravano circa una settimana la stessa, dunque, si trovava in una condizione fisica verosimilmente incompatibile, secondo la comune esperienza, con lo svolgimento dell'attività di collaboratrice domestica 2.2. La ricorrente censura l'argomentazione sub lett. a rilevando che, sul punto, la Corte d'appello, in violazione dell' art. 116 c.p.c. , ha posto a fondamento della decisione non una prova, ma un elemento di prova la quantificazione dell'importo della retribuzione operato dal teste in lire anziché in Euro nonostante una contraria dichiarazione specifica della stessa teste - riconosciuta valida dalla sentenza stessa e' emerso che P.E. abbia cessato la predetta attività lavorativa dopo l'intervento - di senso del tutto opposto. Osserva in particolare che a l'elemento di prova discendente dalla dichiarazione è stato considerato del tutto all'infuori del contesto, essendo prassi ben nota quella di riferirsi a fatti passati computando le somme in per usare le parole della teste, pronunciate ormai dieci anni fa quando l'espressione era ancora ben diffusa e comune vecchie lire così testualmente la teste specie quando l'attività lavorativa si è svolta a cavallo del cambio di valuta b l'argomento di prova è del tutto privo di qualsiasi attinenza rispetto a quello che è chiamato a dimostrare esso sarebbe valido a dimostrare solo quello che il giudice ha già scartato sulla base di una esistente prova contraria e non ritenuta inattendibile, cioè il periodo di svolgimento dell'attività lavorativa esso al contrario non può certo dimostrare che la riconosciuta cessazione del rapporto non sia addebitabile alle conseguenze dell'intervento g il giudice d'appello, nel riutilizzare impropriamente l'elemento di prova, trasforma la dichiarazione della teste, omettendo qualsiasi riferimento alla espressione testualmente utilizzata - ossia vecchie lire - in una quantificazione in circa lire 1.500.000 pag. 6 , modificando così il significato, il senso e il contesto delle dichiarazioni testimoniali d risultano pertanto violati gli artt. 115 e 116 c.p.c. per aver il giudice utilizzato un elemento di prova in modo del tutto non contestualizzato al fine di superare una prova acquisita la cessazione del rapporto di lavoro nel 2015 e per dimostrare in maniera del tutto inconferente un diverso aspetto, ossia il nesso tra cessazione del rapporto di lavoro e intervento 2.3. L'argomentazione di cui sopra, par. 2.1, lett. b , è poi criticata sul rilievo che non rientra affatto nella comune esperienza la possibilità di comprendere quale sia il grado di inabilità derivante da una patologia in essere e in divenire e quale sia il grado di tolleranza al dolore fisico della singola persona una simile valutazione e', anzi, incompatibile con ogni nozione di comune esperienza. 2.4. Il motivo è inammissibile. Costituiscono jus receptum nella giurisprudenza di questa Corte i principi secondo cui - in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell' art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato - in assenza di diversa indicazione normativa - secondo il suo prudente apprezzamento , pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria come, ad esempio, valore di prova legale , oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione Cass. Sez. U. n. 20867 del 30/09/2020 ma v. già Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598 Cass. 10/06/2016, n. 11892 20/10/2016, n. 21238 - in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell' art. 115 c.p.c. , occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio , mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall' art. 116 c.p.c. v. giurisprudenza sopra citata . Nel caso di specie gli argomenti di critica non rispecchiano detti paradigmi e si risolvono, nella sostanza, nella mera inammissibile prospettazione di una valutazione di merito del materiale istruttorio opposta rispetto a quella operata dal giudice a quo. 2.4.1. Devesi, in tal senso, anzitutto rilevare che è del tutto privo di significato e di fondamento logico-giuridico l'ordine di poziorità che la ricorrente sembra voler prospettare tra le diverse dichiarazioni testimoniali v. supra par. 2.2, lett. 5 , attribuendo ad alcune quelle dalle quali, secondo quanto è scritto in sentenza, e' emerso che P.E. abbia cessato la predetta attività lavorativa dopo l'intervento valore di prova acquisita e ad altra quella relativa al reddito mensile espresso in lire quello di mero elemento di prova . La contrapposizione è anzitutto concettualmente impropria se con essa si vuole indicare una differente efficacia dimostrativa. Da questo punto di vista il lemma prova è infatti generico, potendo esso essere utilizzato indifferentemente per indicare la fonte di prova tale è tutto ciò che determina un elemento di prova persone, luoghi o cose che consentono di ottenere informazioni utili o il mezzo di prova la produzione del documento ove è contenuta una certa dichiarazione l'assunzione secondo le regole del processo della prova testimoniale o dell'interrogatorio formale o l' elemento di prova che è l'informazione derivante dalla fonte di prova o, infine, il risultato stesso della valutazione degli elementi di prova es. e' stata raggiunta la prova del fatto costitutivo . La contrapposizione rilevante ai fini dell' art. 116 c.p.c. è piuttosto quella tra prova legale e prova liberamente valutabile secondo prudente apprezzamento, ma essa si muove sul piano dell'efficacia da attribuirsi all'elemento di prova nel primo caso, a differenza del secondo, prefissata dalla legge, per ragioni a volte legate alla fonte da cui esso proviene es. atto pubblico, nei limiti indicati dall' art. 2700 c.c. , a volte al mezzo attraverso cui è raccolto es. confessione giudiziale art. 2733 c.c. , comma 2 . Nel caso di specie il materiale istruttorio è da questo punto di vista funzionalmente omogeneo, essendo rappresentato interamente da elementi di prova tutti liberamente valutabili dal giudice secondo prudente apprezzamento. In particolare, le dichiarazioni testimoniali cui la ricorrente fa riferimento hanno tutte lo stesso valore di prova liberamente valutabile, sicché è fuori luogo l'evocazione della regola di cui all' art. 116 c.p.c. e, a fortiori, l'evocazione, sotto questo profilo nemmeno spiegata in ricorso, dell' art. 115 c.p.c. . 2.4.2. Ciò precisato, conviene anche rilevare che non ha nemmeno fondamento il postulato da cui sembra muovere la doglianza quello cioè che la sentenza, avendo affermato che dalle dichiarazioni testimoniali è emerso che P.E. abbia cessato la predetta attività lavorativa dopo l'intervento , abbia con ciò implicitamente riconosciuto raggiunta la prova che l'attività non era cessata prima il che sarebbe in contraddizione con quanto subito dopo affermato . L'assunto muove in realtà da una indebita lettura della frase isolata dall'intero periodo e da quello che lo precede, nel contesto dei quali essa assume il diverso e più limitato significato del rilievo che dopo l'intervento non vi fu alcuna attività lavorativa ma che ciò non era sufficiente anche a stabilire che prima invece vi fosse e che fosse stato l'intervento a causarne la cessazione. 2.4.3. Le restanti argomentazioni critiche si muovono evidentemente sul piano della mera inammissibile critica della efficacia persuasiva delle considerazioni in tal senso svolte dal giudice del merito, le quali non possono in alcun modo ricondursi ad alcuno dei vizi cassatori, essendo appena il caso di rammentare che il sindacato sulla motivazione è consentito nei ristretti limiti del vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 5 , nella specie non dedotto né desumibile indirettamente dalle ragioni di critica ovvero nel caso di inosservanza del c.d. minimo costituzionale v. Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014 , nella specie però certamente non predicabile. E' appena il caso di osservare peraltro che, una volta esclusa la sussistenza di prova adeguata del nesso causale tra intervento e cessazione dell'attività lavorativa il cui onere incombeva sulla parte attrice/appellante , le considerazioni aggiuntive circa la verosimile incompatibilità delle menomazioni preesistenti, quali accertate dal c.t.u., con lo svolgimento dell'attività di collaboratrice domestica, costituiscono un mero corollario della principale argomentazione mancanza di prova del nesso causale con l'intervento e, opinabili o meno, sono comunque prive in sé di decisività. 3. Il secondo motivo investe la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato pag. 8 che il Tribunale di Chieti, in ragione della preesistenza della patologia rilevata dai CC.TT.UU. e della sua incidenza invalidante rispetto all'invalidità da essi complessivamente accertata 20% , ha correttamente determinato nella misura del 10% lo stato di invalidità riferibile al fatto dannoso, senza il quale l'attrice sarebbe stata comunque affetta da un'invalidità al 10% atteso che dalla c. t. u. pag. 18 è emerso, come si è detto, l'esistenza di una patologia rachidea degenerativa già prima dell'intervento . 3.1. La ricorrente lamenta che, in tal modo, la Corte di appello ha disatteso il principio di diritto per cui, in materia di danno differenziale da invalidità permanente, il risarcimento per equivalente è pari alla differenza fra la somma tabellarmente corrispondente alla percentuale complessiva di danno biologico e quella tabellarmente corrispondente alla percentuale di danno biologico riconducibile alla lesione che il paziente si era autonomamente procurato. 3.2. Il motivo è manifestamente fondato. In materia di danno differenziale deve darsi continuità ai principi affermati da Cass. 11/11/2019, n. 28986 e da ultimo ribaditi da Cass. 29/09/2022, n. 28327 21/08/2020, n. 17555 06/05/2021, n. 12052 27/09/2021, n. 26117 , secondo cui in tema di risarcimento del danno alla salute, la preesistenza della malattia in capo al danneggiato costituisce una concausa naturale dell'evento di danno ed il concorso del fatto umano la rende irrilevante in virtù del precetto dell'equivalenza causale dettato dall' art. 41 c.p. sicché di essa non dovrà tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente e nella liquidazione del danno. Può costituire concausa dell'evento di danno anche la preesistente menomazione, vuoi coesistente vuoi concorrente rispetto al maggior danno causato dall'illecito, assumendo rilievo sul piano della causalità giuridica ai sensi dell' art. 1223 c.c. . In particolare, quella coesistente e', di norma, irrilevante rispetto ai postumi dell'illecito apprezzati secondo un criterio controfattuale vale a dire stabilendo cosa sarebbe accaduto se l'illecito non si fosse verificato sicché anche di essa non dovrà tenersi conto nella determinazione del grado di invalidità permanente e nella liquidazione del danno viceversa, secondo lo stesso criterio, quella concorrente assume rilievo in quanto gli effetti invalidanti sono meno gravi, se isolata, e più gravi, se associata ad altra menomazione anche se afferente ad organo diverso sicché di essa dovrà tenersi conto ai fini della sola liquidazione del risarcimento del danno e non anche della determinazione del grado percentuale di invalidità che va determinato comunque in base alla complessiva invalidità riscontrata in concreto, senza innalzamenti o riduzioni . In tema di liquidazione del danno alla salute, l'apprezzamento delle menomazioni policrone concorrenti in capo al danneggiato rispetto al maggior danno causato dall'illecito va compiuto stimando, prima, in punti percentuali, l'invalidità complessiva, risultante cioè dalla menomazione preesistente sommata a quella causata dall'illecito e poi quella preesistente all'illecito, convertendo entrambe le percentuali in una somma di denaro, con la precisazione che in tutti quei casi in cui le patologie pregresse non impedivano al danneggiato di condurre una vita normale lo stato di validità anteriore al sinistro dovrà essere considerato pari al cento per cento procedendo infine a sottrarre dal valore monetario dell'invalidità complessivamente accertata quello corrispondente al grado di invalidità preesistente, fermo restando l'esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa secondo la cd. equità giudiziale correttiva od integrativa, ove lo impongano le circostanze del caso concreto. Nello specifico, pur dando atto che il c.t.u. aveva correttamente sottolineato che le lesioni conseguenti al sinistro avevano inciso in termini peggiorativi su una patologia preesistente, la Corte di merito ha confermato la decisione di primo grado, specificamente impugnata sul punto, che aveva quantificato il danno, come detto, ponendo a base del calcolo tabellare una percentuale invalidante del 10% pari alla differenza tra quella del 20% effettivamente riscontrata dal c.t.u. e quella ascrivibile alle menomazioni preesistenti concorrenti. Così facendo, la Corte ha però disatteso il criterio sopra individuato, che avrebbe comportato la necessità di calcolare il valore monetario dall'invalidità complessivamente accertata e di sottrarre da tale valore quello corrispondente al grado di invalidità derivante dalle menomazioni preesistenti concorrenti, fatta salva la possibilità di esercizio del potere discrezionale di applicare la cd. equità giudiziale correttiva od integrativa, ove lo impongano le circostanze del caso concreto Cass. n. 28896 del 2019 , cit. . In altri termini, non si evince dalla sentenza impugnata che la Corte abbia effettuato una quantificazione rapportata alla invalidità complessiva successiva al sinistro comprensiva delle menomazioni preesistenti e di quelle causate dal sinistro che, in rapporto policrono concorrente, hanno aggravato la precedente condizione dell'appellante per poi pervenire, tramite sottrazione del valore monetario corrispondente alla patologia originaria, a determinare il differenziale risarcitorio spettante al danneggiato. Le ragioni che rendono necessaria l'adozione di tale corretto metodo di calcolo, in funzione del diritto all'integrale risarcimento del danno ascrivibile a responsabilità dei sanitari, sono le seguenti. Sono le funzioni vitali perdute dalla vittima e le conseguenti privazioni a costituire il danno risarcibile, non il grado di invalidità, che ne è solo la misura convenzionale tali privazioni e le connesse sofferenze progrediscono con intensità geometricamente crescente rispetto al crescere dell'invalidità la misura convenzionale cresce invece secondo progressione aritmetica. Ciò si riflette nel metodo di liquidazione che, dovendo obbedire al principio di integralità del risarcimento art. 1223 c.c. , opera necessariamente, sia quando è disciplinato dalla legge, sia quando avvenga coi criteri introdotti dalla giurisprudenza, con modalità tali che il quantum debeatur cresce in modo più che proporzionale rispetto alla gravità dei postumi ad invalidità doppie corrispondono perciò risarcimenti più che doppi. Tale principio resterebbe vulnerato se, nella stima del danno alla salute patito da persona già invalida, si avesse riguardo solo all'incremento del grado percentuale di invalidità permanente ascrivibile alla condotta del responsabile. Un punto di invalidità è uguale a quello cui si somma solo nella sua espressione numerica che progredisce aritmeticamente , non nel sostrato reale l'entità delle rinunce corrispondenti che concorre a rappresentare, né, parallelamente, nella sua traduzione monetaria. La sentenza va dunque cassata sul punto, con rinvio alla Corte territoriale, che dovrà attenersi, nella liquidazione, ai criteri suindicati. 4. Il terzo motivo investe la sentenza impugnata nella parte in cui pag. 8, seconda metà ha rigettato il motivo di gravame con cui l'appellante aveva lamentato l'errata valutazione del danno da invalidità temporanea parziale in quanto commisurato ad una durata di soli gg. 14 invece che di gg. 137 come indicato nella c.t.u 4.1. La Corte d'appello ha osservato al riguardo che il Tribunale di Chieti ha correttamente determinato l'importo complessivo del danno da inabilità temporanea in Euro 11.050,00 solo le singole componenti di tale importo devono essere corrette, essendo costituite, secondo la c. t. u., da gg. 29 di inabilità temporanea assoluta Euro 150,00 x29 = Euro 4.200,00 e da gg.137 di inabilità temporanea parziale al 50% Euro 50,00 per gg.137,00 = Euro 6.850,00 . Pertanto, si deve precisare che la somma attribuita a titolo di risarcimento del danno per l'inabilità permanente, già correttamente determinata in Euro11.050,00, è come sopra composta . 4.2. La ricorrente muove a tale valutazione due critiche i con l'appello era stata censurata, siccome non conforme alle indicazioni del c.t.u., esclusivamente la quantificazione dei giorni di invalidità temporanea parziale 14 invece che 137 , senza toccare in alcun modo quella dei giorni di invalidità temporanea assoluta, né le controparti avevano sul punto proposto appello incidentale la Corte d'appello, pertanto, non aveva modo e ragione di pronunciarsi su quella statuizione, su cui si era formato giudicato avendolo fatto, ha violato il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.c. ii la quantificazione operata è comunque anch'essa errata, e viola l' art. 1223 c.c. , perché il corretto sviluppo dei calcoli indicati dalla Corte d'appello porta ad una cifra differente - 137-50 Euro= 6.850,00 Euro per ITP - 29-150 Euro = 4.350,00 Euro per ITT - Euro 4.350 + Euro 6.850 = Euro 11.200 Euro risarcimento totale per ITT+ITP e non Euro 11.050. 4.3. Il motivo è inammissibile con riferimento ad entrambe le censure in cui esso si articola. 4.3.1. La prima di esse lo è perché non si confronta con la ratio decidendi posta a base della decisione sul punto questa, invero, lungi dal pronunciare ultra petita, ha ritenuto insussistente l'errore di giudizio dedotto con l'appello per essere ravvisabile solo un errore materiale. La Corte, dunque, non ha modificato i termini della decisione ma li ha solo interpretati, alla luce della motivazione e degli elementi da essa richiamati, sicché nessuna violazione del giudicato interno è predicabile. 4.3.2. La seconda perché quello evidenziato non è un errore di giudizio ma un errore di calcolo aritmetico, determinato da erronea applicazione di regole matematiche ma sulla base di presupposti matematici chiaramente individuati il numero dei giorni di invalidità temporanea assoluta e il relativo importo risarcitorio unitario , in sé non contestati ed esatti. Come tale esso è suscettibile di correzione ex art. 287 c.p.c. e resta conseguentemente sottratto al vaglio della cassazione v. Cass. 15/05/2009, n. 11333 . 5 . L'accoglimento del secondo motivo determina l'assorbimento del quarto e quinto motivo in punto di spese di primo e secondo grado . La rideterminazione dell'importo risarcitorio, cui il giudice di rinvio dovrà provvedere conformemente al principio sopra enunciato al riguardo, comporterà anche una conseguente rivalutazione del regolamento delle spese, ai sensi dell' art. 336 c.p.c. . 6. Al giudice di rinvio va demandato anche il regolamento delle spese del presente giudizio. P.Q.M. accoglie il secondo motivo di ricorso dichiara inammissibili il primo e il terzo assorbiti i rimanenti cassa la sentenza in relazione al motivo accolto rinvia la causa alla Corte d'appello di L'Aquila, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche al regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.