Legittimo il cambio di mansioni dell’agente di Polizia per allontanarla dal clamore mediatico dovuto all’arresto del marito

Impossibile ritenere illecito il comportamento tenuto dal Comune nei confronti della lavoratrice.

Impossibile catalogare come demansionamento la decisione del Comune di tenere la dipendente, inquadrata come agente di Polizia municipale, lontano dai clamori mediatici provocati dall'arresto del marito per una vicenda di droga. Cassazione, ordinanza numero 32423, sezione sesta civile lavoro, depositata oggi Arresto . Ricostruita nei dettagli la vicenda, i giudici di merito si mostrano concordi va respinta «la domanda con cui una donna, dipendente di un Comune in qualità di agente di Polizia municipale, ha chiesto accertarsi la dequalificazione e il demansionamento improvvisamente subiti », a suo dire, «quale effetto dell'arresto del marito per una vicenda di droga, cui ella era totalmente estranea». Priva di fondamento, di conseguenza, anche «il risarcimento del danno» preteso dalla lavoratrice. In particolare, i giudici d'appello osservano, innanzitutto, che le prove raccolte non consentono di ravvisare a carico del Comune «comportamenti di dequalificazione o di demansionamento», anche tenendo presente che «le attività di piantonamento presso alcuni uffici», contestate dalla donna, «sono state svolte per un solo giorno», e aggiungono poi che «se nel tempo la lavoratrice era stata adibita anche a mansioni superiori a quelle di inquadramento, ciò non poteva farle acquisire alcun diritto in proposito e dunque l'eventuale riconduzione delle attività al livello suo proprio non può considerarsi illegittima». Impossibile, poi, ipotizzare ci si trovi di fronte a una condotta mobbizzante , vista «l'assenza di prove di un intento vessatorio» nelle scelte del Comune, e potendosi semmai ritenere, precisano i giudici, che le misure adottate dall'ente locale «servissero a tutelare l'ufficio e la stessa lavoratrice dai clamori mediatici» connessi all'arresto del marito, mentre «l'adibizione al servizio viabilità corrispondeva a quanto richiesto dalla lavoratrice, a riprova di una disposizione datoriale aperta e disponibile, e, del resto, la riassegnazione alla viabilità era prassi comune rispetto alle donne agenti, allorquando divenivano meno impellenti le ragioni connesse a recenti maternità». Di conseguenza, «l'assenza di intenti vessatori e di reali comportamenti demansionanti» esclude la riconducibilità della condotta del Comune ad «un' ipotesi di straining ». E in questa ottica i giudici d'Appello osservano che «l'insorgenza di disturbi ansioso-depressivi in capo alla lavoratrice non è riportabile a comportamenti illegittimi del Comune» mentre è «spiegabile anche sulla base degli eventi traumatici legati all'arresto del marito ed alle conseguenti difficoltà familiari». Mansioni . Col ricorso in Cassazione, però, la lavoratrice continua a sostenere la tesi che il Comune abbia tenuto una condotta illegittima nei suoi confronti, demansionandola e mettendola ai margini nel contesto lavorativo. In questa ottica, difatti, ella ritiene insufficiente il richiamo alla « equivalenza formale delle mansioni » a lei assegnate in epoche diverse e sostiene sia palese come «i comportamenti del datore di lavoro siano stati in concreto lesivi della sua dignità di lavoratrice e ciò attraverso l'attribuzione a lei di compiti meno importanti o significativi», e a questo proposito ella aggiunge che il suo «trasferimento era stato motivato da ragioni diverse da quelle proprie di servizio». E inoltre «lo spostamento ad altre mansioni ha indotto i colleghi ad ipotizzare il suo personale coinvolgimento nelle vicende del marito», sostiene lavoratrice, e «ciò, in una con lo spostamento dal prestigioso servizio interno al Comune e con l'impossibilità di ravvisare nell'accaduto una forma di tutela della dipendente, integra gli estremi del mobbing, senza contare come la determinazione di una situazione lavorativa stressogena avrebbe potuto essere ricondotta ad un'ipotesi di straining». In prima battuta i magistrati di Cassazione ribattono che «è giuridicamente errato l'assunto secondo cui nel valutare il demansionamento non si deve apprezzare la sola equivalenza formale delle mansioni, ma anche l'incidenza dei mutamenti sulla professionalità e sulla personalità del lavoratore». Al contrario, «in ambito di pubblico impiego vale il diverso assetto per cui la normativa assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza formale delle mansioni , con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita». Di conseguenza, «non può quindi dirsi che l'assegnazione del lavoratore a mansioni diverse, se ricomprese nel medesimo ambito formale riveniente dalla contrattazione collettiva, sia in sé comportamento illegittimo o inadempiente», chiariscono i giudici. Per quanto concerne poi la tesi della lavoratrice secondo cui «lo spostamento ad altre mansioni avrebbe comunque avuto carattere illecito perché associato alla vicenda penale del marito, così mettendo lei in cattiva luce e svilendo il rispetto della sua persona», i magistrati ribattono osservando che «l'assenza del demansionamento esclude che si possa valorizzare tale profilo come ragione di illiceità» mentre «per una qualificazione in termini di mobbing sarebbe necessario ravvisare in tutto ciò un intenzionale operato finalizzato a ledere la lavoratrice». E a questo proposito è emersa «l'assenza di una tale intenzionalità lesiva », vista «la breve durata del passaggio difficoltoso conseguente all'arresto del marito della lavoratrice, agevolata al suo rientro, essendo stata colta l'indicazione da parte sua di destinazione alla viabilità». Infine, è spiegabile anche «la mancata autorizzazione alla lavoratrice per la partecipazione ad un seminario il giorno successivo alla diffusione delle notizie riguardanti il marito» l'intento, osservano i giudici, era «mantenerla lontana dai clamori mediatici». E «tale valutazione, così come quella analoga per cui anche lo spostamento dallo staff del Comandante sarebbe stato motivato da simili intenti, non è illogica, ben potendosi ritenere che il collocamento in una posizione di minore visibilità rispondesse a quelle esigenze, in una con quella di allontanare parimenti il Comando dai medesimi clamori mediatici», concludono i giudici.

Presidente Esposito – Relatore Bellè Ritenuto in fatto che 1. la Corte d'Appello di Bari, confermando la pronuncia del Tribunale della stessa città, ha rigettato la domanda con cui D.R.N. , dipendente del Comune di Bari quale agente di polizia municipale, aveva chiesto accertarsi, per il conseguente risarcimento del danno, la dequalificazione e demansionamento improvvisamente subiti, a far data dall'ottobre 2003, quale effetto dell'arresto del proprio marito per vicenda di droga, cui la ricorrente era totalmente estranea 2. la Corte d'Appello ha ritenuto che le allegazioni ed anche le prove raccolte non consentissero di ravvisare comportamenti di dequalificazione o demansionamento, tenuto conto che le contestate attività di piantonamento presso gli Uffici di omissis erano state svolte per un solo giorno e che, se nel tempo la ricorrente era stata adibita anche a mansioni superiori a quelle di inquadramento, ciò non poteva farle acquisire alcun diritto in proposito e dunque l'eventuale riconduzione delle attività al livello suo proprio non poteva considerarsi illegittima 3. la sentenza impugnata escludeva altresì la ricorrenza di un fattispecie di mobbing, per l'assenza di prova di un intento vessatorio, potendosi semmai ritenere che le misure adottate servissero a tutelare l'ufficio e la stessa lavoratrice da clamori mediatici, mentre l'adibizione al servizio viabilità corrispondeva a quanto richiesto dalla lavoratrice, a riprova di una disposizione datoriale aperta e disponibile e del resto la riassegnazione alla viabilità era prassi comune rispetto alle donne agenti, allorquando divenivano meno impellenti le ragioni connesse a recenti maternità 4. l'assenza di intenti vessatori e di reali comportamenti demansionanti escludeva altresì, secondo la Corte di merito, la riconducibilità dell'accaduto ad un'ipotesi di straining 5. infine, la Corte riteneva infondata la pretesa della ricorrente di ricondurre effetti confessori alla presentazione per l'interrogatorio formale di un delegato del Sindaco che non era stato in grado di riferire sui fatti e ciò in quanto l' articolo 232 c.p.c. , non attribuiva automaticamente una tale portata alla mancata risposta all'interpello 6. in definitiva, concludeva la Corte di merito, l'insorgenza di disturbi ansioso depressivi in capo alla lavoratrice, non essendo riportabile a comportamenti illegittimi del Comune e risultando tra l'altro spiegabile anche sulla base degli eventi traumatici legati all'arresto del marito ed alle conseguenti difficoltà familiari, non era sufficiente a fondare la pretesa esercitata 7. D.R.N. ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi, resistiti da controricorso del Comune di Bari 8. la proposta del relatore è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza camerale, ai sensi dell'articolo 380 bis c.p.c. 9. la ricorrente ha depositato memoria. Considerato in diritto che 1. il primo motivo del ricorso per cassazione è rubricato ai sensi dell' articolo 360 c.p.c. , nnumero 3 e 4, e denuncia la violazione e falsa applicazione degli articolo 115 e 116 c.p.c. , dell'articolo 2697 c.c., oltre ad omesso esame delle risultanze istruttorie, omessa motivazione su fatti decisivi, con riferimento alla escussione di alcuni testimoni, in violazione altresì dell' articolo 111 Cost. , e conseguente nullità della sentenza impugnata 2. il motivo fa leva sul fatto che il ragionamento della Corte territoriale si sarebbe erroneamente sviluppato sul solo piano dell'equivalenza formale delle mansioni, trascurando l'ipotesi che i comportamenti datoriali risultassero in concreto lesivi, attraverso l'attribuzione di compiti meno importanti o significativi, della dignità del lavoratore 3. la ricorrente aggiunge altresì come le deposizioni testimoniali, che trascrive, facessero emergere in modo chiaro il demansionamento effettivo ed il fatto che lo spostamento era stato motivato da ragioni diverse da quelle proprie di servizio, il tutto con finale violazione anche delle regole sull'onere probatorio di cui all' articolo 2697 c.c. 4. il secondo motivo denuncia, richiamando l' articolo 360 c.p.c. , numero 3, la violazione degli articolo 115 e 116 c.p.c. , nonché degli articolo 2043, 2087, 2103 e 2697 c.c. , e l'omesso o viziato esame delle risultanze istruttorie testimoniali ed afferma la conseguente nullità della sentenza impugnata 5. il motivo evidenzia come lo spostamento ad altre mansioni avesse indotto i colleghi della ricorrente ad ipotizzare il suo personale coinvolgimento nelle vicende del marito il che, in una con lo spostamento dal prestigioso servizio interno al Comune e con l'impossibilità di ravvisare nell'accaduto una forma di tutela della dipendente, integrava gli estremi del mobbing, senza contare come la determinazione di una situazione lavorativa stressogena avrebbe potuto essere ricondotta ad un'ipotesi di straining, parimenti ricompresa nell'alveo della domanda giudiziale dispiegata 6. il terzo motivo afferma, richiamando ancora l' articolo 360 c.p.c. , numero 3, la violazione e falsa applicazione degli articolo 116 e 232 c.p.c. , con riferimento all'omessa o giuridicamente erronea valutazione della mancata risposta all'interrogatorio formale deferito al Comune di Bari 7. i motivi, stante la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente, secondo l'ordine logico delle questioni 8. va intanto esclusa la fondatezza della censura riguardante la mancata valorizzazione del fatto che la persona avviata dal Comune a rispondere all'interpello non fosse informata sui fatti 9. è infatti del tutto consolidato, oltre che insito nella formulazione della norma può , l'orientamento per cui la valorizzazione della mancata risposta all'interpello, cui evidentemente si parifica il caso in cui a renderlo sia avviata persona non informata sui fatti, sia del tutto discrezionale da parte del giudice Euro 9436/2018 comma 3258/2007 10. la Corte territoriale ha del resto richiamato tale discrezionalità, così come la collegata necessità comunque di inserirla nel contesto di una valutazione di ogni altro elemento di prova, con assetto certamente non violato dalla pronuncia in esame, la cui motivazione si diffonde ampiamente sulle ragioni che, rispetto ai dati di fatto esistenti e sostanzialmente pacifici tra le parti, hanno condotto ad una valutazione in senso favorevole alla ricorrente, sia sui nessi di causa, sia sugli aspetti giuridici coinvolti 11. è altresì giuridicamente errato l'assunto secondo cui nel valutare il demansionamento non si sarebbe dovuta apprezzare la sola equivalenza formale delle mansioni, ma anche l'incidenza dei mutamenti sulla professionalità e personalità del lavoratore 12. in ambito di pubblico impiego, vale infatti il diverso assetto per cui il D.Lgs. numero 165 del 2001, articolo 52, assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare la natura equivalente della mansione, non potendosi avere riguardo alla norma generale di cui all' articolo 2103 c.c. Euro 18817/2018 Euro 7106/2014 13. non può quindi dirsi che l'assegnazione a mansioni diverse, se ricomprese nel medesimo ambito formale riveniente dalla contrattazione collettiva sia in sé comportamento illegittimo o inadempiente 14. i motivi ribadiscono peraltro, a più riprese, anche un diverso ragionamento, tale per cui lo spostamento ad altre mansioni avrebbe comunque avuto carattere illecito perché associato alla vicenda penale del marito della ricorrente, così mettendo quest'ultima in cattiva luce e svilendo il rispetto della sua persona 15. tuttavia, l'assenza di un demansionamento esclude che si possa valorizzare tale profilo come ragione di illiceità, sicché è parimenti da escludere che esso possa essere valorizzato come coefficiente colposo utile per i fini di cui all' articolo 2087 c.c. , non potendo essere colpevole il comportamento sia contrattualmente legittimo , mentre, per una qualificazione in termini di mobbing, sarebbe necessario ravvisare in tutto ciò un intenzionale operato finalizzato a ledere la ricorrente sui principi in proposito, v. Euro 16580/2022, punti 4.1 e 4.2 16. la Corte di merito ha però argomentato ampiamente sull'assenza di una tale intenzionalità lesiva, sottolineando la breve durata del passaggio difficoltoso conseguente all'arresto del marito della D.R. e rilevando come la lavoratrice fosse stata agevolata, al suo rientro, per essere stata colta l'indicazione da parte sua di destinazione alla viabilità 17. la Corte ha ancora spiegato la mancata autorizzazione alla D.R. per la partecipazione ad un seminario il giorno successivo alla diffusione delle notizie riguardanti il di lei marito con il medesimo intento di mantenerla lontana dai clamori mediatici 18. tale valutazione, così come quella analoga per cui anche lo spostamento dallo staff del Comandante sarebbe stato motivato da simili intenti, non è in sé illogica, ben potendosi ritenere che il collocamento in una posizione di minore visibilità rispondesse a quelle esigenze, in una con quella di allontanare parimenti il Comando dai medesimi clamori mediatici 19. si tratta di valutazioni che, risultando non implausibili, afferiscono all'ambito degli apprezzamenti di merito, in ordine all'assenza di un intento illecito, rispetto ai quali i motivi di manifestano come pretesa di una diversa lettura dei dati istruttori, inappropriata rispetto al giudizio di legittimata C., SU, 34476/2019 C., SU, 24148/2013 20. analogamente, la ricorrenza in quel medesimo frangente di patologie di rango psichico esposte dalla ricorrente non può essere valorizzata a fini risarcitori, in assenza di inadempimenti o di un'intenzionalità lesiva ai danni della ricorrente, restando in ragione di ciò non integrata la fattispecie di cui all' articolo 2087 c.c. 21. il ricorso va quindi rigettato e ne segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali 15 % ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13 , comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello rispettivamente previsto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis, se dovuto.