Il principio della c.d. insolvenza statica secondo cui, allorquando la società è in stato di scioglimento e quindi di liquidazione, la valutazione del giudice, ai fini dell’applicazione dell’art. 5 l.fall., deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l’eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, è applicabile unicamente per le società in stato di scioglimento e liquidazione.
E non anche per le società che abbiano concesso in affitto l’azienda, per le quali invece vale il generale principio secondo cui lo stato di insolvenza deve essere desunto dall'impossibilità dell’impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato. Il caso. Con ricorso ex art. 7 l. fall. il PM presso il Tribunale di Firenze, all'esito di una indagine penale per reati tributari, aveva chiesto la dichiarazione di fallimento di una società in nome collettivo nonché dei soci illimitatamente responsabili ed il Tribunale di Firenze aveva accolto la domanda. Proposto reclamo ex art. 18 l. fall. avverso la predetta sentenza da parte della società e dai soci illimitatamente responsabili , la Corte di Appello di Firenze ha rigettato la proposta impugnazione, confermando la dichiarazione di fallimento dei reclamanti. La sentenza è stata impugnata dalla società nonché dai soci illimitatamente responsabili con ricorso per cassazione con il primo motivo i ricorrenti hanno lamentato violazione e falsa applicazione degli artt. 5 l. fall . e 2484 c.c., sul rilievo che la Corte di Appello avrebbe erroneamente disapplicato la nozione di insolvenza che, riferita alle società che non svolgono più attività, deve porre a confronto solo l'attivo liquidabile con il passivo, attivo che, nel caso in esame, sarebbe stato superiore al passivo. I ricorrenti ritenevano senz'altro applicabile il c.d. principio della insolvenza statica anche al caso de qua in quanto la società aveva sottoscritto un contratto di affitto di azienda, circostanza che dimostrava la volontà della società di non operare più attivamente nel mercato di riferimento, con la conseguenza che l'insolvenza che doveva essere ritenuta rilevante doveva essere unicamente quella cd. statica e patrimoniale e non già quella economica e finanziaria. La decisione della Corte di Cassazione. La Corte richiama e conferma il principio della c.d. insolvenza statica secondo cui, allorquando la società è in stato di scioglimento e quindi di liquidazione, la valutazione del giudice, ai fini dell'applicazione dell' art. 5 l.fall. , deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l'eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, e ciò in quanto non proponendosi l'impresa in liquidazione di restare sul mercato, ma avendo come esclusivo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori previa realizzazione delle attività, ed alla distribuzione dell'eventuale residuo tra i soci, non è più richiesto che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e quindi di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni contratte. Ritiene, tuttavia, che tale principio non possa trovare applicazione nel caso di specie in quanto è stato affermato con riguardo unicamente alle società in stato di scioglimento e quindi di liquidazione e non già anche per le società che abbiano concesso in affitto l'azienda. Per queste ultime vale invece il generale principio secondo cui lo stato di insolvenza deve essere desunto dall'impossibilità dell'impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato, che si traduca in una situazione d'impotenza strutturale e non soltanto transitoria a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, per il venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie allo svolgimento dell'attività.
Presidente Scaldaferri Relatore Amatore Rilevato che 1.Con ricorso L. Fall., ex art. 7, il P.M. presso il Tribunale di Firenze, all'esito di una indagine penale per reati tributari, aveva chiesto la dichiarazione di fallimento della Omissis s.n.c. dei Fratelli F.A., F.A. e F.R. nonché dei soci illimitatamente responsabili F.A., F.A. e F.R. ed il Tribunale di Firenze aveva accolto la domanda, dichiarando, con la sentenza n. 60 del 13.4.2018, il fallimento della detta società e dei soci illimitatamente responsabili. 2. Proposto reclamo L. Fall., ex art. 18, avverso la predetta sentenza da parte della società Omissis s.n.c. e dai soci illimitatamente responsabili F.A. e F.R. F.A. aveva proposto separato reclamo, poi accolto , la Corte di appello di Firenze, con la sentenza qui di nuovo impugnata, ha rigettato la proposta impugnazione, confermando la dichiarazione di fallimento dei reclamanti. La corte del merito, per quanto qui ancora di interesse, ha ritenuto che a la valutazione dell'insolvenza dovesse essere effettuata, secondo dati prudenziali ed oggettivi, prescindendo da aspettative del debitore che, per quanto non manifestamente infondate, richiedono tempi di realizzazione tali da non consentire di far fronte alle obbligazioni sullo stesso gravanti b il sequestro penale, in tale ottica, gravante sui beni della società e dei soci F.A. e F.R. era tale da non consentire l'adempimento del debito fiscale, ove pure ridotto ai sensi del D.L. n. 148 del 2017 , con la conseguenza che risultava attendibile la rettifica della situazione patrimoniale operata dal c.t.u. nell'istruttoria prefallimentare innanzi al Tribunale di Firenze e con l'ulteriore constatazione che la società debitrice non era riuscita a far fronte alle agevolazioni di cui alla cd. Rottamazione bis I. n. 172/2017 b la valutazione di insolvenza non mutava neanche con una visione prospettica proiettata sulle risorse finanziarie liberate dai provvedimenti di parziale dissequestro resi in sede penale dal G.i.p. del Tribunale di Firenze in data 7.12.2018 e dal Tribunale del Riesame del 28.1.2019, considerato che l'ammontare dei beni sottoposti a sequestro e riferiti alla s.n.c. e ai soci F.A. e F.R. era di Euro 1.319.570,37, somma dalla quale dovevano essere detratti gli importi - sui quali era stato mantenuto il sequestro - di Euro 46.426 per liquidità , Euro 308,883 per l'immobile in cui veniva svolta l'attività sociale ed Euro 8.000 per l'autocarro di F.A. , con la conseguenza che il valore risultante per differenza, pari ad Euro 956.261,37, non avrebbe potuto essere considerato come una somma liquida, e ciò anche in considerazione del fatto che per Euro 658.032,08 erano annoverati strumenti finanziari dei quali non erano stati prospettati tempi ed esiti in termini di numerarlo di realizzo c l'insolvenza era confermata anche dall'ulteriore debitoria maturata nei confronti della Banca omissis per un importo complessivo di Euro 57.799,11, per il quale si era verificata la decadenza del beneficio del termine in concomitanza con la dichiarazione di fallimento e la cui natura fondiaria avrebbe consentito la tutela esecutiva anche in pendenza di fallimento d le somme da riscuotere sulla base delle fatture esaminate dal c.t.u. per Euro 121.857,61 dovevano considerarsi liquidità aleatorie e non stimabili, in ragione dei tempi di definizione dei contenziosi in corso e a fronte dunque di un fabbisogno finanziario di Euro 977.012,65 vi sarebbe stato un attivo virtualmente disponibile, a tutto concedere, non superiore ad Euro 658.032, come valore di realizzo alquanto dubbio, con conseguenziale carenza di liquidità dell'integrale somma di Euro 314.988,59, necessaria invece al pagamento della terza rata della cd. rottamazione, come regolata dal citato D.L. n. 119 del 2018, nuovo art. 3, comma 23 e non potevano essere positivamente apprezzati i documenti prodotti nella fase di reclamo e riguardanti i pagamenti di bollettini RAV del debito fiscale ed assegni circolari emessi in favore delle due banche creditrici, posto che, trattandosi di pagamenti successivi alla dichiarazione di fallimento, non erano in ogni caso riferibili alla società fallita e ai suoi soci, e considerato ulteriormente che, ove derivanti da adempimento del terzo, non erano stati accompagnati da contestuale atto di remissione del debito di rivalsa da parte del solvens. 2. La sentenza, pubblicata il 3.5.2019, è stata impugnata da Omissis s.n.c. nonché dai soci illimitatamente responsabili F.A. e F.R. con ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui il Fallimento della predetta società e dei soci ha resistito con controricorso. Entrambi le parti hanno depositato memoria. Considerato che 1.Con il primo motivo i ricorrenti lamentano, ai sensi dell' art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 5, e art. 2484 c.c. , sul rilievo che la Corte di appello avrebbe erroneamente disapplicato la nozione di insolvenza che, riferita alle società che non svolgono più attività, deve porre a confronto solo l'attivo liquidabile con il passivo, attivo che, nel caso in esame, sarebbe stato superiore al passivo. Osservano i ricorrenti che, secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte, allorquando la società è in liquidazione, la valutazione del giudice ai fini della applicazione della L. Fall., art. 5, deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l'eguale e integrale soddisfacimento dei creditori sociali. Evidenziano ancora i ricorrenti che la società aveva cessato l'attività di impresa per effetto del contratto di affitto d'azienda, con la conseguenza che, alla data di avvio del procedimento pre-fallimentare, pur non essendo una società in liquidazione, avrebbe comunque dovuto essere destinataria dell'applicazione del principio giurisprudenziale sopra riportato in quanto l'avvenuta stipulazione del contratto di affitto di azienda si sarebbe risolto, di fatto, nella volontà dell'impresa di non voler più stare sul mercato, con la conseguenza che l'insolvenza che qui rileva sarebbe sostanzialmente quella cd. statica e patrimoniale e non già economica e finanziaria. Si evidenzia ancora che, non applicando il principio giurisprudenziale già sopra ricordato in tema di cd. insolvenza statica , la Corte di merito avrebbe conteggiato, per il calcolo della liquidità utilizzabile per saldare la debitoria, soltanto le somme rinvenibili dal dissequestro penale, senza invece valutare - per la quantificazione dell'attivo patrimoniale - l'immobile di proprietà della società che il c.t.u. aveva stimato in Euro 546.000, con la conseguenza che, qualora fosse stato considerato il valore di tale bene immobile, l'attivo patrimoniale disponibile sarebbe lievitato ad Euro 1,4 mln, ben superiore al fabbisogno finanziario stimato dalla Corte di appello in Euro 977.000. 1.1 Il motivo è infondato. 1.1.1 Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza espressa da questa Corte quello secondo cui, allorquando la società è in stato di scioglimento e quindi di liquidazione, la valutazione del giudice, ai fini dell'applicazione della L. Fall., art. 5, deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l'eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, e ciò in quanto non proponendosi l'impresa in liquidazione di restare sul mercato, ma avendo come esclusivo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori previa realizzazione delle attività, ed alla distribuzione dell'eventuale residuo tra i soci, non è più richiesto che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e quindi di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni contratte Cass., Sez. 1, Sentenza n. 25167 del 07/12/2016 Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 24660 del 05/11/2020 Cass., Sez.1, n. 13644/2013 . Ma l'affermazione di tale principio vale per l'appunto per le società in stato di scioglimento e quindi di liquidazione e non già, come propugnato dalla ricorrente, anche per le società che abbiano concesso in affitto l'azienda e dunque - secondo la tesi di parte ricorrente - inattive. Per le quali vale invece il generale principio secondo cui lo stato di insolvenza deve essere desunto dall'impossibilità dell'impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato, che si traduca in una situazione d'impotenza strutturale e non soltanto transitoria a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, per il venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie allo svolgimento dell'attività cfr. anche Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 7087 del 03/03/2022 Cass. n. 29913/2018 . 1.1.2 La tesi, prospettata da parte ricorrente, secondo cui la sola conclusione di un contratto di affitto a terzi della propria azienda introdurrebbe la società in uno stato di liquidazione di fatto , cui dovrebbe conseguire la applicazione delle regole sopra ricordate in tema di insolvenza cd. statica , non è condivisibile. Da un lato, e sotto un profilo generale, lo stato di liquidazione di una società di persone consegue al verificarsi di una o più delle cause di scioglimento previste dall' art. 2272 c.c. , tra le quali non è dato riscontrare l'affitto, in sé considerato, della azienda sociale, che, in sé, integra un atto di gestione della società mediante un utilizzo indiretto dei propri beni strumentali, per il periodo di vigenza del contratto. D'altro lato, e con specifico riferimento alla interpretazione giurisprudenziale della L. Fall., art. 5, nei casi di società in liquidazione, la tesi in esame non tiene conto della ratio del principio della c.d. insolvenza statica , che trova fondamento nella modifica dell'oggetto sociale che si verifica nella società in stato di scioglimento e di liquidazione il cui oggetto esclusivo diviene quello di dismettere il patrimonio sociale per la soddisfazione dei creditori, con distribuzione dell'eventuale residuo tra i soci , modifica che, anche qui, non può ritenersi operante per effetto del solo affitto a terzi della azienda sociale. 2. Con il secondo mezzo si deduce, ai sensi dell' art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 5, vizio di omesso esame di fatto decisivo rappresentato dalla presenza nell'attivo della società di un bene immobile di rilevante valore, fatto risultante dalla sentenza di primo grado, discusso tra le parti nel giudizio di reclamo e ignorato dalla corte di appello. Evidenziano i ricorrenti che se è ben vero che non è sindacabile, con il ricorso per cassazione, l'apprezzamento in fatto sulla sussistenza dello stato di insolvenza, tuttavia sarebbe possibile sindacare la circostanza che la corte di merito abbia omesso di prendere in considerazione un fatto storico decisivo, e cioè la proprietà di un immobile in capo alla società fallita che risultava essere circostanza pacifica e comunque accertata dal c.t.u., oggetto di discussione in sede di reclamo e comunque decisivo in quanto avrebbe comportato un apprezzamento della consistenza patrimoniale della debitrice ad un valore sicuramente superiore al passivo. 2.1 Anche il secondo motivo è infondato. Sul punto giova ricordare che, secondo la giurisprudenza espressa anche a Sezioni Unite da questa Corte, l' art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 5, riformulato dall' art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 , conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134 , introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia . Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell' art. 366 c.p.c. , comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c. , comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il fatto storico , il cui esame sia stato omesso, il dato , testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività , fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 . 2.2 Ciò posto, non risultano le condizioni per ritenere che la Corte territoriale sia incorsa nel vizio di cui all' art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 5, e ciò già per l'evidente ragione che non ricorre nel caso di specie l'omesso esame del fatto storico sopra indicato, e cioè la mancata valutazione del bene immobile nel compendio patrimoniale attivo della società debitrice al fine di verificarne lo stato di insolvenza. Ed invero, la Corte di merito ha invece valutato la circostanza fattuale della proprietà da parte della società fallita del cespite immobiliare sopra ricordato cfr. pagg. 8-9 della sentenza impugnata ove si legge l'ammontare dei beni immobili sottoposti a sequestro e riferiti alla s.n.c Euro 308.883 per l'immobile in cui viene svolta l'attività sociale 3, ritenendola tuttavia non rilevante ai fini dell'apprezzamento dello stato di insolvenza, posto che l'immobile non sarebbe potuto essere incluso nel calcolo dei beni disponibili , nel senso, cioè, di prontamente liquidabili , trattandosi di bene sottoposto a sequestro e, per sua definizione, non liquidabile nell'immediatezza. Si tratta di un apprezzamento in fatto qui neanche correttamente censurato e dunque sul quale è calato il velo del giudicato interno. Ne consegue che non è rintracciabile già il primo presupposto applicativo per ritenere ricorrente il vizio di cui all' art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 5, e cioè l'omesso esame di un fatto storico da parte della corte di merito. A ciò va aggiunto che la difformità tra il valore indicato dalla Corte di appello Euro 308.883 per l'immobile in cui viene svolta l'attività sociale 3, e quello segnalato dalla ricorrente Euro 546.000 indicato dal C.t.u. -in relazione, si sottolinea, all'unico bene immobile di proprietà della società debitrice quello, cioè, ove si svolgeva l'attività aziendale - non è sindacabile in questa sede di legittimità, rientrando nella discrezionalità di apprezzamento del giudicante degli atti istruttori acquisiti in giudizio. E, del resto, quand'anche il valore di tale immobile fosse stato conforme alla stima evidenziata dalla società ricorrente, ciò non avrebbe incrementato il patrimonio disponibile per una pronta liquidazione posto che risulta indiscusso che sul predetto bene immobile era stato mantenuto il sequestro penale cfr. pag. 9 della sentenza impugnata . 3. Con il terzo motivo si censura il provvedimento impugnato, ai sensi dell' art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione della L. fall., artt. 1, 5 e 15, e del D.L. n. 148 del 2017 , art. 1, conv. con modificazioni dalla L. n. 172 del 2017 cd. rottamazione-bis , sul rilievo che la Corte di appello avrebbe erroneamente ritenuto scaduto il debito erariale di Euro 855.665,08, così assumendo la sua incapacità a far fronte con regolarità ai propri debiti. Si evidenzia che la Corte di merito avrebbe operato un'errata qualificazione del credito tributario che, per effetto della domanda di accesso alla cd. rottamazione bis , avrebbe dovuto essere considerato, invece, non esigibile sino a quando non fosse maturata la data del primo versamento che, nel caso in esame, sarebbe scaduta dopo la declaratoria di fallimento. Ne consegue - aggiungono i ricorrenti - che, essendo stata deliberata la sentenza di fallimento in data 13.4.2018 allorquando erano ancora aperti i termini per il versamento della prima rata , la decisione sarebbe stata viziata in ragione dell'erronea applicazione della L. Fall., art. 5, quanto alla valutazione dello stato di insolvenza, e ciò anche in ragione del fatto che, non potendosi apprezzare gli accadimenti successivi, i debiti scaduti sarebbero stati limitati, alla data di fallimento, a quelli maturati nei confronti di MPS per Euro 57.799,11 e a quelli ulteriori bancari per Euro 63.584, debiti che avrebbero potuto essere facilmente estinti attraverso la liquidità presente in cassa che era stata stimata dalla stessa Corte di appello in Euro 298.000. Osservano ancora i ricorrenti che la Corte di appello avrebbe dovuto necessariamente considerare che, al momento del fallimento, il credito erariale non era esigibile e che la fallita avrebbe dunque potuto legittimamente attendere la scadenza della prima rata per adempiere. 3.1 II motivo è infondato. Secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte, lo stato d'insolvenza dell'imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione d'impotenza, strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività. Detto altrimenti e per quanto già precisato in relazione al primo motivo di doglianza, lo stato di insolvenza va desunto, più che dal rapporto tra attività e passività, dalla possibilità dell'impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato, fronteggiando con mezzi ordinari le obbligazioni a suo carico cd. insolvenza dinamica Cass. Sez. 1, Sentenza n. 29913 del 20/11/2018 . Pertanto, la valutazione dello stato di insolvenza, nel senso e nei termini sopra chiariti, non può che essere affidato - come già sopra evidenziato - ad un giudizio di tipo prognostico diretto ad accertare, anche in una visione prospettica proiettata nel futuro prossimo dell'attività economica, la capacità dell'impresa ad assicurarsi una redditività dei vari fattori produttivi tale da garantirle la possibilità di coprire per lo meno i costi di produzione, anche attraverso il puntuale adempimento delle obbligazioni assunte per l'esercizio dell'attività produttiva o commerciale. E ciò anche attraverso la verifica della possibile facile liquidabilità dei beni patrimoniali costituenti l'attivo patrimoniale dell'impresa, e cioè attraverso lo scrutinio della compatibilità temporale della liquidazione dei beni dell'impresa con la permanenza di quest'ultima sul mercato e con il puntuale adempimento di obbligazioni già contratte. Ai principi sopra enunciati si è correttamente allineata la decisione della corte di merito che, in una valutazione prospettica, ha ritenuto che l'ingente debito tributario accumulato dalla società fallita, sebbene dilazionato secondo la normativa sopra ricordata come rottamazione-bis , non potesse essere adempiuto correttamente dalla debitrice nemmeno nella sua prima scadenza dilazionata, in ragione della scarsa liquidità di cassa e della indisponibile liquidabilità dei beni costituenti l'attivo patrimoniale, indisponibilità determinata, in parte, dal sequestro penale ancora in essere si legga in tal senso anche la questione del bene immobile nel quale si svolgeva l'attività di impresa e, per altra parte, dalla non facile liquidabilità degli strumenti finanziari di cui la debitrice era titolare. Si tratta di un accertamento in fatto, incensurabile in cassazione, ove sorretto da motivazione esauriente e giuridicamente corretta, che neanche dipende dall'imputabilità delle cause dell'insolvenza, poiché più volte questa Corte ha sottolineato che l'accertamento dello stato di insolvenza prescinde dalle cause che lo hanno determinato, anche se non imputabili all'imprenditore v. Cass. n. 441-16 . Ne consegue il rigetto del ricorso. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo. Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, stesso art. 13, comma 1 bis Cass. Sez. Un. 23535 del 2019 . P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento, in favore del fallimento controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.500 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 , comma 1 quater, inserito dall 'art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 201 2, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.