Il reddito di cittadinanza costituisce «prestazione assistenziale finalizzata a soddisfare le proprie esigenze di vita». Pertanto, si dovrebbe escludere «la equiparazione allo stipendio, pensione o assegno, ossia alle prestazioni revocabili in seguito ad applicazione della pena accessoria».
Al fine di ottenere il c.d. reddito di cittadinanza, due imputati omettevano di comunicare che con sentenze definitive erano state loro applicate le pene accessorie, tra cui l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. In seguito al sequestro preventivo delle somme percepite, gli accusati ricorrono in Cassazione, sottolineando che il reddito di cittadinanza costituisce «prestazione assistenziale finalizzata a soddisfare le proprie esigenze di vita e, pertanto, avrebbe dovuto escluderne la equiparazione allo stipendio, pensione o assegno, ossia alle prestazioni revocabili in seguito ad applicazione della pena accessoria». Così si è espresso il Ministero del Lavoro, interpellato dall'INPS, rendendo non punibile colui che abbia presentato domanda. La doglianza è fondata. Infatti, il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto che «il reddito di cittadinanza» costituendo una prestazione a carattere assistenziale, finalizzata a soddisfare primarie esigenze di vita «non esclude che il condannato ne possa essere privato, anzi induce a ritenere che, a maggior ragione, il sussidio debba essere ricompreso tra le prestazioni revocabili in seguito ad applicazione di pena accessoria». Infatti, il sussidio in questione ha natura e funzione ibride «là dove viene definito quale misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all'esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all'informazione, all'istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all'inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro». Ne consegue che, secondo il legislatore, l'interdizione perpetua dai pubblici uffici priva il condannato di una serie di diritti, salvo che dalla legge sia altrimenti disposto. E nel caso di specie il fumus del reato è mancante. Per tutti questi motivi, ne consegue l'annullo senza rinvio del provvedimento impugnato.
Presidente Di Paola – Relatore D'Agostini Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza del 4 novembre 2021 il Tribunale di Vibo Valentia, in sede di riesame, confermava il decreto in data 27 settembre 2021 con cui il G.i.p. dello stesso Tribunale aveva disposto il sequestro preventivo di somme di denaro - per quanto qui rileva - nella disponibilità di D.B.M. e A.P. , sottoposti a indagini per i reati previsti dall'articolo 640 bis c.p., e D.L. 28 gennaio 2019, numero 4, articolo 28, commi 2 e 3, convertito nella L. 28 marzo 2019, numero 26, in quanto nelle richieste intese a ottenere il cosiddetto reddito di cittadinanza, avevano omesso di comunicare che con sentenze definitive erano state loro applicate le pene accessorie, rispettivamente, della interdizione perpetua dai pubblici uffici e della interdizione dai pubblici uffici per anni cinque, circostanze ostative all'ottenimento del sussidio. A.P. , inoltre, aveva subito una condanna definitiva nel decennio precedente per i reati previsti dall'articolo 416 bis c.p., e D.P.R. numero 309 del 1990, articolo 74. 2. Con unico atto hanno proposto ricorso D.B.M. e A.P. , a mezzo del proprio difensore di fiducia, chiedendo l'annullamento dell'ordinanza per violazione di legge, con riferimento all'articolo 321 c.p.p., comma 2, e articolo 28 c.p., e per motivazione apparente in ordine a quanto devoluto con le richieste di riesame. Quanto alla posizione di A. , la difesa deduce che lo stesso è stato condannato per il reato previsto dal D.P.R. numero 309, 9 ottobre 1990, articolo 74, comma 6, che non risulta fra i reati ostativi all'ottenimento del beneficio. Sostiene la difesa, inoltre, che il Tribunale ha riconosciuto che il reddito di cittadinanza costituisce prestazione assistenziale finalizzata a soddisfare le proprie esigenze di vita e, pertanto, avrebbe dovuto escluderne la equiparazione allo stipendio, pensione o assegno, ossia alle prestazioni revocabili in seguito ad applicazione della pena accessoria. In questo senso, peraltro, si è espresso il Ministero del Lavoro, interpellato sul punto dall'I.N.P.S., circostanza che non rende punibile colui che abbia presentato domanda, confidando sulla interpretazione del Ministero l'eventuale errore, quindi, è caduto su una norma extra-penale, doglianza non colta nella impugnata ordinanza. 3. Disposta la trattazione scritta del procedimento in cassazione, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, numero 137, articolo 23, comma 8, convertito nella L. 18 dicembre 2020, numero 176 così come modificato per il termine di vigenza dal D.L. 30 dicembre 2021, numero 228, articolo 16, convertito nella L. 25 febbraio 2022, numero 15 , in mancanza di alcuna richiesta di discussione orale, nei termini ivi previsti, il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate, alle quali ha replicato la difesa dei ricorrenti. Considerato in diritto 1. Il ricorso di A.P. è inammissibile, mentre è fondato quello di D.B.M. . 2. Quanto al primo ricorso, il Tribunale ha rilevato che A. ha riportato nel decennio anteriore alla presentazione delle richieste una condanna divenuta definitiva in 23 luglio 2017 per i reati ex articolo 416 bis c.p., e D.P.R. 9 ottobre 1990, numero 309, articolo 74. Il D.L. 28 gennaio 2019, numero 4, articolo 2, comma 1, lett. c bis, convertito nella L. 28 marzo 2019, numero 26, prevede, quale requisito di accesso, per il richiedente il beneficio, la mancata sottoposizione a misura cautelare personale, anche adottata a seguito di convalida dell'arresto o del fermo, nonché la mancanza di condanne definitive, intervenute nei dieci anni precedenti la richiesta, per taluno dei delitti indicati all'articolo 7, comma 3 , dello stesso decreto, fra i quali sono indicati i reati previsti dall'articolo 416 bis c.p., e D.P.R. numero 309 del 1990, articolo 74. In ordine a questo secondo delitto, la norma non prevede alcuna specificazione, non escludendo, dunque, neppure l'ipotesi di cui al D.P.R. numero 309 del 1990, articolo 74, comma 6, a differenza di quanto previsto per il delitto ex articolo 73, comma 5, dello stesso decreto, ostativo solo nei casi di recidiva . In ogni caso, condizione di per sé preclusiva è anche solo la condanna di A. per il reato di associazione di tipo mafioso, la cui sussistenza non è stata contestata dal ricorrente. 3. Diversamente, la condanna di D.B. , sia pure per reati ostativi rapina e sequestro di persona è divenuta definitiva oltre trent'anni prima della presentazione della richiesta, cosicché il Tribunale, confermando la valutazione del G.i.p., ha ritenuto che il ricorrente non avesse diritto al beneficio in quanto, con detta sentenza di condanna, gli era stata applicata la pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici, la quale, ai sensi dell'articolo 28 c.p., comma 2, numero 5 , priva il condannato degli stipendi, delle pensioni e degli assegni che siano a carico dello Stato o di un altro ente pubblico . 3.1. Secondo l'ordinanza impugnata, la circostanza che il reddito di cittadinanza costituisca una prestazione a carattere assistenziale, finalizzata a soddisfare primarie esigenze di vita, sotto tale aspetto diversa quindi rispetto ad attribuzioni di maggiore consistenza come stipendi e pensioni, non esclude che il condannato ne possa essere privato, anzi induce a ritenere che, a maggior ragione, il sussidio debba essere ricompreso tra le prestazioni revocabili in seguito ad applicazione di pena accessoria . Così opinando, il Tribunale si è discostato dal parere espresso sulla questione, nel giugno 2020, dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e, in particolare, dal capo dell'ufficio legislativo , su espressa richiesta dell'I.N.P.S., parere invocato dalla difesa a sostegno della legittimità della richiesta e della concessione del beneficio. 3.2. Ritiene il Collegio, per contro, che le argomentazioni espresse nel suddetto parere, fatte proprie dalla difesa, siano condivisibili. La natura afflittiva delle pene accessorie impone una interpretazione letterale delle relative norme, nel rispetto del principio di tassatività delle sanzioni penali, cosicché già risulta dubbio che il beneficio economico di cui si tratta sia ricompreso nella nozione di assegni , considerato che esso viene erogato attraverso la Carta Rdc L. numero 26 del 2019, articolo 5, comma 6 , caratterizzata dalla prevalente finalità di soddisfazione di bisogni primari mediante la copertura delle spese di acquisto. Il reddito di cittadinanza, inoltre, ha natura e funzione ibride, come si evince dallo stesso incipit della legge articolo 1, comma 1 , là dove viene definito quale misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all'esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all'informazione, all'istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all'inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro . Infine, come si è visto, la legge articolo 2, comma 1, lett. c bis prevede casi specifici ostativi all'ammissione al beneficio, legati alla commissione di gravi reati, sopra indicati, e all'epoca della pronuncia della sentenza definitiva, che deve essere intervenuta nei dieci anni precedenti la richiesta. Si può con fondamento ritenere, pertanto, che con questa disposizione il legislatore abbia derogato alla previsione generale dell'articolo 28 c.p., comma 2, come la stessa norma consente, là dove stabilisce che l'interdizione perpetua dai pubblici uffici priva il condannato di una serie di diritti, salvo che dalla legge sia altrimenti disposto . Manca, dunque, il fumus del reato in relazione al quale è stato disposto il sequestro preventivo nei confronti di D.B.M. , che il Tribunale ha ritenuto sussistente in ragione di una non condivisibile lettura delle norme sopra richiamate. Ne consegue l'annullamento dell'ordinanza impugnata e dello stesso decreto di sequestro, relativamente alla posizione di questo ricorrente. 4. Alla inammissibilità dell'impugnazione proposta da A.P. segue, ai sensi dell'articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di Euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti. P.Q.M. Annulla senza rinvio il provvedimento impugnato ed il decreto di sequestro nei confronti di D.B.M. . Manda alla cancelleria per l'immediata comunicazione al Procuratore generale in sede per quanto di competenza ai sensi dell'articolo 626 c.p.p Dichiara inammissibile il ricorso di A.P. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.