RASSEGNA DELLA CORTE COSTITUZIONALE

13 APRILE 2017, N. 87 LOCAZIONE DI IMMOBILI URBANI. Contratti di locazione abitativa registrati ai sensi dell’art. 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo n. 23 del 2011 e prorogati negli effetti dall’art. 5, comma 1-ter, del decreto-legge n. 47 del 2014 – canone locativo o indennità di occupazione dovuti dai conduttori che, tra la data di entrata in vigore del succitato decreto legislativo e il 16 luglio 2015, hanno versato il c.d. canone sanzionatorio previsto dall’art. 3, comma 8, dello stesso decreto – determinazione ope legis in misura pari al triplo della rendita catastale dell’immobile nel periodo considerato – non fondatezza. La disciplina delle locazioni di immobili ad uso abitativo di cui all’art. 13, co. 5, della legge n. 431/1998, nel testo introdotto dall’art. 1, co. 59, della legge n. 208/2015, non replica alcuna forma di sanatoria ex lege dei contratti di locazione affetti da nullità per omessa registrazione, ma prevede, piuttosto, una predeterminazione forfettaria del danno patito dal locatore e/o della misura dell’indennizzo dovuto dal conduttore in ragione dell’occupazione illegittima del bene locato, stante la nullità del contratto e, dunque, l’assenza di suoi effetti ab origine. Sull’argomento, cfr. Corte Cost., n. 169/2015 è costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 136 Cost., l’art. 5, co. 1-ter, del d.l. n. 47/2014 – inserito in sede di conversione ad opera della l. n. 80/2014 – che prevede la salvezza, sino al 31 dicembre 2015, degli effetti prodottisi e dei rapporti giuridici sorti sulla base dei contratti di locazione registrati ai sensi delle norme dichiarate incostituzionali dalla sentenza n. 50 del 2014 della Corte Costituzionale. Come emerge anche dai lavori preparatori, la norma impugnata è specificamente indirizzata a impedire la produzione delle ordinarie conseguenze della dichiarazione di illegittimità, prolungando nel tempo gli effetti prodotti da norme caducate dall’intervento della Corte, con conseguente violazione del giudicato costituzionale. 13 APRILE 2017, N. 83 ORDINAMENTO PENITENZIARIO. Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – legittimazione dell’internato [nella specie, sottoposto alla misura di sicurezza detentiva della casa di lavoro] a proporre la relativa istanza – non fondatezza. La condizione della persona soggetta a una misura di sicurezza detentiva, che subisce una restrizione della libertà personale in condizioni disumane, è del tutto equivalente a quella del detenuto, perché identico è il bene giuridico leso e analoghe sono le modalità con cui la lesione viene inflitta. Queste ultime sono infatti indicate dallo stesso art. 35-ter nella violazione dell’art. 3 della CEDU, che può avvenire in particolare quando lo spazio di cui dispone l’individuo recluso è inferiore a tre metri quadrati. Il principio di uguaglianza non può pertanto tollerare una discriminazione tra detenuto e internato che, fondandosi sulla differente natura giuridica dei titoli in base ai quali si è ristretti, pur rilevante ad altri fini, trascura invece la sostanziale identità, nell’uno e nell’altro caso, dei soli fattori che hanno importanza ai fini risarcitori. Né una tale distinzione sarebbe compatibile con l’art. 3 della CEDU, atteso che nel sistema della Convenzione è necessario avere riguardo non al titolo formale in base al quale si è ristretti, ma alla sostanza della violazione, sicché forme di ristoro spettano non solo al detenuto che sconta la pena, ma anche a chi è colpito da una misura di custodia cautelare in carcere o in strutture equivalenti. Sull’argomento, cfr. Corte Cost., n. 204/2016 sulla base di una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata dell’art. 35-ter della legge n. 354/1975, va riconosciuta la competenza del magistrato di sorveglianza ad adottare il provvedimento di ristoro economico nel caso di periodo di detenzione trascorso in condizioni disumane, anche in mancanza di qualsiasi collegamento con un’effettiva riduzione del periodo detentivo, come avviene nell’ipotesi di soggetto sottoposto a pena perpetua. 13 APRILE 2017, N. 82 PREVIDENZA. Norme in materia pensionistica – diritto alla neutralizzazione dei periodi di contribuzione per disoccupazione nei limiti del quinquennio e dei contributi obbligatori, dei contributi di disoccupazione e dei contributi per integrazione salariale, anche oltre il limite del quinquennio, sempre che, nell’uno e nell’altro caso, gli stessi periodi contributivi non siano necessari per l’integrazione al minimo – illegittimità costituzionale parziale. L’art. 3, co. 8, della legge n. 297/1982 Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di lavoratore che abbia già maturato i requisiti assicurativi e contributivi per conseguire la pensione e percepisca contributi per disoccupazione nelle ultime duecentosessanta settimane antecedenti la decorrenza della pensione, la pensione liquidata non possa essere comunque inferiore a quella che sarebbe spettata, al raggiungimento dell’età pensionabile, escludendo dal computo, ad ogni effetto, i periodi di contribuzione per disoccupazione relativi alle ultime duecentosessanta settimane, in quanto non necessari ai fini del requisito dell’anzianità contributiva minima. In senso conforme, cfr. Corte Cost., n. 264/1994 posta la discrezionalità del legislatore nell’operare scelte in ordine alla individuazione del periodo di riferimento per la determinazione della retribuzione pensionabile, risulta palesemente contrario al principio di razionalità – implicante l’esigenza di conformità dell’ordinamento a valori di giustizia e di equità – che dall’applicazione del meccanismo previsto dal nostro sistema previdenziale per la determinazione di tale retribuzione, il quale stabilisce che questa sia costituita dalla quinta parte della somma delle retribuzioni percepite durante il rapporto di lavoro oppure corrispondenti o a periodi riconosciuti figurativamente o a eventuale contribuzione volontaria , risultante – per una presunzione di maggior favore verso il lavoratore – dal solo ultimo periodo lavorativo di 260 settimane, consegua, nel caso in cui in tale lasso di tempo debbano venire ricompresi periodi di contribuzione obbligatoria di importo notevolmente inferiore alla contribuzione precedente e non utili per l’anzianità contributiva minima una diminuzione del trattamento pensionistico del soggetto rispetto a quello che gli sarebbe spettato se non avesse dovuto effettuare dette diverse contribuzioni. Il verificarsi di una tale eventualità, infatti, oltre che irragionevole e ingiusto, incide sul principio di proporzionalità tra pensione e quantità e qualità di lavoro prestato e sulla garanzia previdenziale, di cui, rispettivamente, agli artt. 36 e 38, Cost. È pertanto costituzionalmente illegittimo l’art. 3, co. 8, della legge n. 297/1982, nella parte in cui non prevede che, nel caso di esercizio durante l’ultimo quinquennio di contribuzione di attività lavorativa, meno retribuita da parte del lavoratore che abbia già conseguito la prescritta anzianità contributiva, la pensione liquidata non possa essere comunque inferiore a quella che sarebbe spettata, al raggiungimento dell’età pensionabile, escludendo dal computo, ad ogni effetto, i periodi di minore retribuzione, in quanto non necessari ai fini del requisito dell’anzianità contributiva minima.