RASSEGNA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE di Giuseppe Marasco

di Giuseppe Marasco GRANDE SEZIONE 29 MARZO 2011, CAUSA C-565/08 UNIONE EUROPEA - LIBERTÀ DI CIRCOLAZIONE DELLE PERSONE, DEI SERVIZI E DEI CAPITALI. Diritto e libertà di stabilimento - Obbligo per gli avvocati di rispettare tariffe massime - Violazione del diritto comunitario - Esclusione. Una normativa di uno Stato membro non costituisce restrizione ai sensi del Trattato CE per il solo fatto che altri Stati membri applichino regole meno severe o economicamente più vantaggiose ai prestatori di servizi simili, stabiliti sul loro territorio. L'esistenza di una restrizione ai sensi del Trattato non può essere desunta dalla mera circostanza che gli avvocati stabiliti in Stati membri diversi dalla Repubblica italiana devono, per il calcolo degli onorari per prestazioni da loro fornite in Italia, abituarsi alle norme applicabili in tale Stato membro e, segnatamente, all'osservanza di limiti tariffari massimi. La Grande Sezione rammenta che - con riferimento all'esistenza di restrizioni alla libertà di stabilimento, nonché alla libera prestazione di servizi, di cui rispettivamente agli artt. 43 CE e 49 CE - da una giurisprudenza costante emerge che siffatte restrizioni sono costituite da misure che vietano, ostacolano e/o scoraggiano l'esercizio di tali libertà v., in tal senso, sentenze 15 gennaio 2002, causa C-439/99, Commissione/Italia, Racc. pag. I-305, punto 22 5 ottobre 2004, causa C-442/02, CaixaBank France, Racc. pag. I-8961, punto 11 30 marzo 2006, causa C-451/03, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti, Racc. pag. I-2941, punto 31, e 4 dicembre 2008, causa C-330/07, Jobra, Racc. pag. I-9099, punto 19 . In particolare, chiarisce ulteriormente la Corte, la nozione di restrizione ricomprende le misure adottate da uno Stato membro che, per quanto indistintamente applicabili, pregiudichino l'accesso al mercato per gli operatori economici di altri Stati membri v., in particolare, sentenze CaixaBank France, cit., punto 12, e 28 aprile 2009, causa C-518/06, Commissione/Italia, Racc. pag. I-3491, punto 64 . Nella specie, osserva il Giudice dell'Unione, è pacifico che le disposizioni oggetto di censura si applichino indistintamente a tutti gli avvocati che forniscono servizi sul territorio italiano, ma, ad avviso della Corte, non è sostenibile la tesi della Commissione, secondo la quale disposizioni di tal fatta potrebbero infliggere agli avvocati stabiliti in Stati membri diversi dalla Repubblica italiana e che forniscono servizi in quest'ultimo Stato, costi aggiuntivi generati dall'applicazione del sistema italiano degli onorari, nonché una riduzione dei margini di guadagno e, pertanto, una perdita di competitività. A tal proposito, nel respingere il ricorso della Commissione, la Grande sezione ricorda che una normativa di uno Stato membro non costituisce una restrizione ai sensi del Trattato CE per il solo fatto che altri Stati membri applichino regole meno severe o economicamente più vantaggiose ai prestatori di servizi simili stabiliti sul loro territorio v., sentenza 28 aprile 2009, Commissione/Italia, cit., punto 63 e giurisprudenza ivi citata . L'esistenza di una restrizione ai sensi del Trattato, precisa il Giudicante, non può dunque logicamente desumersi dalla mera circostanza che gli avvocati stabiliti in Stati membri diversi dalla Repubblica italiana devono, per il calcolo dei loro onorari per prestazioni fornite in Italia, adattarsi alle norme applicabili in tale Stato membro. Per contro, osserva il Giudice dell'Unione, una restrizione del genere esisterebbe, segnatamente, se detti avvocati fossero privati della possibilità di penetrare nel mercato dello Stato membro ospitante in condizioni di concorrenza normali ed efficaci v., in tal senso, sentenza CaixaBank France, cit., punti 13 e 14 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04, Cipolla e a., Racc. pag. I-11421, punto 59, nonché 11 marzo 2010, causa C-384/08, Attanasio Group, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 45 . Ad avviso della Corte, infine, è giocoforza constatare che, nella specie, la Commissione non abbia in alcun modo assolto al proprio onere probatorio e non abbia quindi dimostrato che le pertinenti disposizioni di diritto italiano artt. 57-58 del Regio D.L. nr. 1578/1993, art. 24 della Legge nr. 794/1942, art. 13 della Legge n. 31/1982, D.M. 127/2004 abbiano un tale scopo e/o sortiscano un simile effetto. SEZ. II 17 MARZO 2011, CAUSA C-484/09 UNIONE EUROPEA - ATTUAZIONE DELLE NORME, DEI REGOLAMENTI E DELLE DIRETTIVE DA PARTE DELLO STATO. Corretta attuazione - Legittimo ripartire al 50% le responsabilità da sinistro stradale se non si accertano le colpe. L'art. 3, n. 1, della direttiva del Consiglio 24 aprile 1972, 72/166/CEE, l'art. 2, n. 1, della seconda direttiva del Consiglio 30 dicembre 1983, 84/5/CEE e l'art. 1 della terza direttiva del Consiglio 14 maggio 1990, 90/232/CEE, relativi al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano ad una normativa nazionale che - qualora una collisione tra due veicoli abbia causato danni senza che possa attribuirsi alcuna colpa ai conducenti - ripartisca la responsabilità per tali danni in proporzione al contributo causale di ciascuno dei veicoli al loro verificarsi e, in caso di dubbio, ripartisca detto contributo causale in egual misura. La Corte rammenta, in via preliminare, il proprio orientamento secondo il quale, dall'oggetto delle tre direttive in questione, nonché dal loro tenore letterale, risulta che esse non mirano ad armonizzare i regimi di responsabilità civile negli Stati membri e che, allo stato attuale del diritto dell'Unione, questi ultimi restano liberi di stabilire il regime di responsabilità civile applicabile ai sinistri derivanti dalla circolazione di veicoli sentenza 19 aprile 2007, causa C-356/05, Farrell, Racc. pag. I-3067, punto 33 . Dal tenore letterale dell'art. 3, n. 1, della prima direttiva , osserva ulteriormente la seconda sezione, emerge infatti inequivocabilmente che il legislatore dell'Unione non ha inteso precisare il tipo di responsabilità civile, colposa o oggettiva, relativa alla circolazione dei veicoli, che deve essere coperta dall'assicurazione obbligatoria. In ogni caso, chiarisce la Corte, le disposizioni nazionali in materia di responsabilità civile non possono privare del loro effetto utile le pertinenti regole di diritto dell'Unione v. sentenza 30 giugno 2005, causa C-537/03, Candolin e a., Racc. pag. I-5745, punto 28 . Un risultato sfavorevole di tal fatta, precisa il Giudice dell'Unione, si produrrebbe laddove dalla responsabilità della vittima per i danni che ha subìto - risultante dalla valutazione, in base al diritto nazionale della responsabilità civile, del suo contributo alla produzione di tali danni - conseguisse l'esclusione d'ufficio o la sproporzionata limitazione del suo diritto al suo risarcimento, da parte dell'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile dalla circolazione di autoveicoli, dei danni di cui l'assicurato è responsabile. Nella fattispecie in esame, rileva la seconda sezione, la causa pendente innanzi al giudice nazionale portoghese verte sul risarcimento, a titolo di responsabilità civile, dei danni subiti dal conducente di un autoveicolo in una collisione con un altro autoveicolo, in mancanza di colpa imputabile ai conducenti e, nello specifico, la riduzione del risarcimento dei danni subiti dal conducente deriva da una espressa limitazione della responsabilità civile dell'assicurato ai sensi del regime normativo di responsabilità civile applicabile. In altri termini, osserva la Corte, la normativa nazionale applicabile nell'ambito della controversia principale è volta a ripartire la responsabilità civile dei danni causati in una collisione tra due autoveicoli in mancanza di colpa imputabile ai conducenti. Al termine del proprio itinerario logico, pertanto, il Giudice dell'Unione accerta che l'art. 506 del codice civile portoghese non ha l'effetto di escludere d'ufficio o di limitare in misura sproporzionata il diritto delle vittime segnatamente quello del conducente di un autoveicolo che ha subito danni alla persona in una collisione con un altro autoveicolo al risarcimento da parte dell'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per la circolazione di autoveicoli. Pertanto, ad avviso della Corte, deve constatarsi che detta disposizione non pregiudica la garanzia, espressamente prevista dal diritto dell'Unione, che il regime di responsabilità civile applicabile secondo il diritto nazionale sia coperto da un'assicurazione conforme alle tre pertinenti direttive. SEZ. VII 31 MARZO 2011, CAUSA C-50/10 UNIONE EUROPEA - AMBIENTE. Riduzione dell'inquinamento da attività industriale - Obblighi degli Stati membri. La Repubblica italiana, non avendo adottato le misure necessarie affinché le autorità competenti controllino, attraverso autorizzazioni rilasciate a norma degli artt. 6 e 8 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 15 gennaio 2008, 2008/1/CE, sulla prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento la direttiva IPPC , ovvero, nei modi opportuni, mediante il riesame e, se del caso, l'aggiornamento delle prescrizioni, che gli impianti esistenti ai sensi dell'art. 2, punto 4, di tale direttiva funzionino secondo i requisiti di cui agli artt. 3, 7, 9, 10, 13, 14, lett. a e b , e 15, n. 2, della medesima, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell'art. 5, n. 1, della direttiva medesima. Dal tenore letterale dell'art. 5, n. 1, della direttiva IPPC , risulta che i requisiti relativi al funzionamento degli impianti industriali esistenti si applicano allo stesso modo tanto in sede di esame preliminare al rilascio di un'autorizzazione integrata ambientale, quanto in caso di riesame delle autorizzazioni preesistenti. La settima sezione constata che gran parte degli impianti esistenti in Italia erano in funzione senza essere dotati dell'autorizzazione di cui all'art. 5, n. 1, della direttiva IPPC, sia alla scadenza del termine del 30 ottobre 2007 ivi previsto per renderli conformi alle prescrizioni della direttiva, sia allo scadere del termine previsto nel parere motivato notificato dalla ricorrente, vale a dire al 2 aprile 2009. Sul punto, il Giudice dell'Unione disattende integralmente la tesi della Repubblica italiana, a tenore della quale, alla scadenza del termine assegnato con il parere motivato, vale a dire al 2 aprile 2009, gli impianti esistenti ancora sprovvisti di autorizzazione integrata ambientale funzionavano, in ogni caso, nel rispetto dei requisiti della direttiva IPPC. A tale proposito, osserva la Corte, tra i vari obblighi che il legislatore dell'Unione ha imposto agli Stati membri figurano quelli di cui all'art. 5, n. 1, di tale direttiva, finalizzati al conseguimento di un elevato livello di protezione dell'ambiente nel suo complesso. Pertanto, rileva il Giudicante, soltanto un'esecuzione piena e conforme, da parte degli Stati membri, degli obblighi ad essi incombenti in forza della citata direttiva può consentire il raggiungimento di un obiettivo di protezione di tale natura e portata. Inoltre, chiarisce ulteriormente la Corte, il riesame delle autorizzazioni preesistenti consiste in una valutazione approfondita delle condizioni esistenti al momento del rilascio, con la conseguente possibilità di verificare la loro conformità ai requisiti specifici della direttiva IPPC e, quindi, l'eventuale necessità di un aggiornamento. Dal tenore letterale dell'art. 5, n. 1, della direttiva IPPC e dalla finalità di tale disposizione, ribadisce il Giudice dell'Unione, risulta infatti che i requisiti relativi al funzionamento degli impianti esistenti si applicano allo stesso modo tanto in sede di esame preliminare al rilascio di un'autorizzazione integrata ambientale, quanto in caso di riesame delle autorizzazioni preesistenti. Pertanto, ad onta di quanto sostenuto dalla Repubblica italiana, la mera verifica delle autorizzazioni preesistenti diretta esclusivamente a valutare l'assenza di un evidente contrasto con i requisiti della direttiva IPPC non appare adeguata al fine di garantire il rispetto degli obblighi previsti dall'art. 5, n. 1, di tale direttiva. TRIB. I GRADO, CE, SEZ. III 29 MARZO 2011, CAUSA T-33/09 UNIONE EUROPEA - ATTUAZIONE DELLE NORME, DEI REGOLAMENTI E DELLE DIRETTIVE DA PARTE DELLO STATO. Inadempimento degli obblighi previsti dal Trattato - Responsabilità dello Stato membro - Limiti all'esercizio del potere discrezionale della Commissione nelle procedure di infrazione. Nell'ambito della esecuzione di una sentenza della Corte che infligge una penalità ad uno Stato membro, la Commissione deve poter valutare le misure adottate dallo Stato membro per conformarsi alla sentenza della Corte, in particolare, per evitare che lo Stato membro inadempiente non si limiti ad adottare misure aventi, in sostanza, lo stesso contenuto di quelle che hanno formato oggetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, l'esercizio di tale potere discrezionale non può pregiudicare i diritti - e, segnatamente, i diritti processuali - degli Stati membri, quali risultano dal procedimento di cui all'art. 226 CE, né la competenza della Corte a statuire sulla conformità di una normativa nazionale con il diritto dell'Unione.