RASSEGNA DEL CONSIGLIO DI STATO

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V SENTENZA 10 APRILE 2018, N. 2161 PROCESSO AMMINISTRATIVO. IRRICEVIBILITÀ. Conseguenze derivanti dall’accertamento dell’errata dichiarazione di irricevibilità del ricorso di primo grado deferimento all’Adunanza plenaria. Secondo l’orientamento tradizionale l’errata dichiarazione di irricevibilità del ricorso di primo grado non comporta il rinvio della causa al giudice di primo grado, ma la ritenzione del giudizio da parte del giudice di appello, nei limiti di quanto ad esso devoluto. Tuttavia, un più recente orientamento della giurisprudenza amministrativa si è posto in consapevole linea di discontinuità con l’indirizzo precedente ed ha statuto che l’ipotesi in questione sarebbe invece riconducibile al caso della violazione del diritto di difesa, per il quale ai sensi dell’art. 105, comma 1, cod. proc. amm. si impone l’annullamento della sentenza di primo grado con rinvio al Tribunale amministrativo. La Sezione, che peraltro è dell’avviso che vada invece mantenuto fermo l’indirizzo tradizionale, ha deciso di rimettere la questione all’Adunanza plenaria per il deferimento in sede nomofilattica. La necessità di mantenere l’orientamento tradizionale, a giudizio della Sezione, muove dal carattere tassativo delle cause di regressione del processo a quelle tipizzate nella disposizione, che sembrerebbe fatto palese dall’impiego nell’ art. 105, comma 1, cod. proc. amm dell’avverbio soltanto . Per come formulata, la disposizione in esame dovrebbe dunque precludere interpretazioni estensive dei casi in essa previsti. A tale riguardo, ha precisato il Collegio, occorre sottolineare che un’errata pronuncia in rito non può automaticamente essere ritenuta lesiva del diritto di difesa in giudizio, in particolare ogniqualvolta le facoltà difensive della parte soccombente sono state comunque esercitate con pienezza, ed essa abbia potuto fare valere ragioni contrarie all’accoglimento della questione in rito poi risultata risolutiva della controversia in primo grado. CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III SENTENZA 9 APRILE 2018, N. 2159 ELEZIONI AMMINISTRATIVE. Soccorso istruttorio nelle procedure elettorali. L’art. 30 del d.P.R. 570/1960, pur non menzionando in via esplicita la facoltà ammessa dal successivo art. 33, non detta un divieto di integrazione documentale e va, quindi, interpretato in modo compatibile con il sistema normativo favorevole all’integrazione di lacune meramente formali. Alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 30 cit., deve pertanto estendersi anche ai Comuni con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti la facoltà, esplicitamente prevista dall’ultimo comma del successivo art. 33 del Testo Unico per i Comuni con popolazione superiore, di produrre nuovi documenti”. Una diversa opzione, che consentisse l’integrazione documentale esclusivamente nell’ambito delle procedure elettorali relative ai Comuni più popolosi, produrrebbe - stante l’assenza di una ragione giustificativa legata a specifiche esigenze organizzative e operative - una non ammissibile diversa conformazione dei diritti politici dei cittadini e dello status di elettore. La soluzione indicata dalla Sezione si rivela, in definitiva, come quella più rispettosa, al contempo, del principio del favor partecipationis , inteso come ineludibile declinazione dell’effettiva garanzia di esercizio dei diritti politici costituzionalmente garantiti, e degli interessi pubblici sottesi alla normativa di riferimento, restando, comunque, salvaguardata l’acquisizione delle certificazioni se la richiesta fosse stata rivolta all’interessata non appena riscontrata la mancanza, senza generare, in tal modo, alcun nocumento ai principi di celerità e certezza del procedimento elettorale. Tale conclusione, precisa la sentenza, è peraltro supportata dai principi espressi dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 23 del 30 novembre 1999 che, seppure con riferimento alla diversa fattispecie dell’ammissione delle liste elettorali, esprime un favor per la regolarizzazione o integrazione postuma della documentazione, che non può non estendersi al caso in cui a non essere completa è la documentazione relativa all’ammissione dei candidati la diversa conclusione non troverebbe, infatti, alcuna ratio né logica né tantomeno giuridica. CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV SENTENZA 9 APRILE 2018, N. 2142 PROCESSO AMMINISTRATIVO. INAMMISSIBILITA’. SPESE PROCESSUALI. Il Comune è vittorioso ma pagherà le spese. La Sezione ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso di primo grado per carenza della condizione dell’azione rappresentata dall’interesse ad agire. Ma le spese del doppio grado di giudizio sono state poste a carico del Comune pur formalmente vittorioso nel doppio grado, tenuto conto che lo stesso ha violato il canone di lealtà processuale sancito dall’art. 88, comma 1, c.p.c. – sub specie di inosservanza del divieto di non ostacolare la sollecita definizione del giudizio, consentendo che la causa si dilungasse su due gradi di giudizio e per ben dieci anni. I parametri utilizzati sono quelli del regolamento n. 55 del 2014 e gli artt. 26, comma 1, c.p.a. e 96, comma 3, c.p.c. ricorrendone i presupposti applicativi. La norma sancita dall’art. 92, comma 1, c.p.c., stabilisce che il giudice .può indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’art. 88, essa ha causato all’altra parte . Relativamente a tale questione, ovvero sul carattere indeterminato del precetto di cui all’art. 88 cit., sulla possibilità che esso venga individuato ex post dal giudice e sulla applicabilità di tale disposizione al processo amministrativo, la Sezione ha fatto riferimento anche alla sentenza del Cons. Stato, sez. V, 25 febbraio 2015, n. 930. La questione trattata dalla Sezione riguardava l’approvazione di un piano per insediamenti produttivi approvato dal Comune, il quale soltanto nelle memorie conclusionali aveva dimostrato che alcun esproprio era stato previsto a carico della impresa ricorrente che aveva la disponibilità delle aree in locazione finanziaria. CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV SENTENZA 5 APRILE 2018, N. 2115 RECUPERO SOMME. Nessuna ripetizione del maggior valore indebitamente attribuito ai buoni pasto. Per la pubblica amministrazione è atto dovuto l'esercizio del diritto-dovere di ripetere le somme indebitamente corrisposte ai pubblici dipendenti dal momento che l'azione di ripetizione di indebito ha come suo fondamento l'inesistenza dell'obbligazione adempiuta da una parte, o perché il vincolo obbligatorio non è mai sorto o perché è venuto meno successivamente, ad esempio a seguito di annullamento Cons. Stato, sez. IV, 3 novembre 2015, n. 5010 il recupero delle somme erogate e non dovute costituisce il risultato di attività amministrativa di verifica e di controllo, priva di valenza provvedi mentale. Peraltro, in tali ipotesi l'interesse pubblico è in re ipsa e non richiede specifica motivazione in quanto, a prescindere dal tempo trascorso, l'oggetto del recupero produce di per sé un danno all'Amministrazione, consistente nell'esborso di denaro pubblico senza titolo ed un vantaggio ingiustificato per il dipendente sulla autoevidenza” delle ragioni che impongono l’esercizio dell’autotutela, a protezione di interessi sensibili dell’Amministrazione, Cons. Stato, ad. plen., 17 ottobre 2017, n. 8 . Si tratta, dunque, ha osservato la Sezione, di un atto dovuto che non lascia all'Amministrazione alcuna discrezionale facoltà di agire e, anzi, configura il mancato recupero delle somme illegittimamente erogate come danno erariale. Tali condivisibili principi, tuttavia, ha osservato la Sezione, vanno declinati tenendo anche conto delle caratteristiche del tutto peculiari di alcuni casi concreti dedotti in giudizio Cons. Stato, sez. V, 15 ottobre 2003, n. 6291 . La ripetizione dell’indebito deve essere valutata tenendo conto dell’imputabilità alla sola Amministrazione dell’errore originario, del lungo lasso di tempo tra la data di corresponsione e quella di emanazione del provvedimento di recupero, della tenuità delle somme corrisposte anche in riferimento ai servizi resi, della eventuale complessità della macchina burocratica dalla quale è scaturito l'errore di conteggio Cons. Stato, sez. V, 13 aprile 2012, n. 2118, con elencazione che deve ritenersi solo esemplificativa . Circostanze che, nel caso specifico, sono state ritenute tutte sussistenti. E cioè l'avvio del procedimento di recupero solo nell'anno 2011, mentre la corresponsione delle somme in controversia era iniziata nel 2002 l'emersione dell'indebito in esito alle verifiche amministrativo-contabili del Ministero dell'economia e delle finanze, Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, sulla gestione economico-finanziaria della C.R.I., dalle quali è risultato che era stato indebitamente esteso al personale militare l'importo dei buoni pasto fissato per il personale civile l'assenza di qualsiasi contestazione, nei confronti dei percipienti, in merito alla correttezza del numero di buoni-pasto richiesti e ottenuti, con conseguente incontrovertibile dimostrazione della loro buona fede, protratta nel tempo le conseguenti peculiarità delle posizione dei ricorrenti e delle motivazioni poste a base dell'attribuzione di buoni-pasto per un valore superiore a quello dovuto. L’Amministrazione aveva del tutto trascurato di considerare la struttura e funzione dei buoni-pasto, sostitutivi della fruizione gratuita del servizio di mensa presso la sede di lavoro ed escludenti ogni forma di monetizzazione indennizzante così, testualmente, l'accordo quadro del 31 ottobre 2003 . E, a tale proposito, precisa la sentenza, secondo giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione da ultimo sez. lav., 14 luglio 2016, n. 14388 , l'attribuzione dei buoni pasto rappresenta una agevolazione di carattere assistenziale. Ed dipendenti, nel caso specifico, non hanno percepito somme in denaro, bensì titoli non monetizzabili destinati esclusivamente a esigenze alimentari in sostituzione del servizio mensa e, per tale causale, pacificamente spesi nel periodo di riferimento. Si tratta dunque di benefici destinati a soddisfare esigenze di vita primarie e fondamentali dei dipendenti medesimi, di valenza costituzionale, a fronte dei quali non è configurabile una pretesa restitutoria, per equivalente monetario, del maggior valore attribuito ai buoni-pasto nel periodo di riferimento.