RASSEGNA DELLA SEZIONE LAVORO DELLA CASSAZIONE

SEZ. LAVORO SENTENZA DEL 3 DICEMBRE 2020 N. 27749 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO NOZIONE, DIFFERENZE DALL'APPALTO E DAL RAPPORTO DI LAVORO AUTONOMO, DISTINZIONI - RETRIBUZIONE - IN GENERE. Sottoscrizione delle buste paga per ricevuta-quietanza” - Significato - Interpretazione contro il predisponente ex art. 1370 c.c. - Esclusione - Ragioni. La sottoscrizione della busta paga con la dicitura per ricevuta-quietanza fa gravare sul lavoratore l'onere della prova della non corrispondenza tra le annotazioni ivi riportate e la retribuzione effettivamente corrisposta né alla suddetta dichiarazione può applicarsi il canone interpretativo di cui all'art. 1370 c.c., non potendo essere assimilata a una clausola inserita nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari ex artt. 1341 e 1342 c.c. Le buste paga, ancorché sottoscritte dal lavoratore con la formula per ricevuta , secondo Cassazione 13150/2016, costituiscono prova solo della loro avvenuta consegna ma non anche dell'effettivo pagamento, della cui dimostrazione è onerato il datore di lavoro, attesa l'assenza di una presunzione assoluta di corrispondenza tra quanto da esse risulta e la retribuzione effettivamente percepita dal lavoratore, il quale può provare l'insussistenza del carattere di quietanza delle sottoscrizioni eventualmente apposte, fermo restando che l'accettazione senza riserve della liquidazione da parte di quest'ultimo al momento della risoluzione del rapporto può assumere, in presenza di altre circostanze precise, concordanti ed obiettivamente concludenti dell'intenzione di accettare l'atto risolutivo, significato negoziale. In senso conforme si veda Cassazione 10306/2018 per la quale la sottoscrizione per ricevuta apposta dal lavoratore alla busta paga non implica, in maniera univoca, l'effettivo pagamento della somma ivi indicata, sicché la regolare tenuta della relativa documentazione da parte del datore di lavoro non determina alcuna conseguenza circa gli oneri probatori gravanti sulle parti. Il principio era già stato affermato da Cassazione 9588/2001 secondo cui non esiste una presunzione assoluta di corrispondenza della retribuzione percepita dal lavoratore rispetto a quella risultante dai prospetti di paga ed è sempre possibile l'accertamento della insussistenza del carattere di quietanza anche delle sottoscrizioni eventualmente apposte dal lavoratore sulle busta paga. SEZ. LAVORO SENTENZA DEL 3 DICEMBRE 2020 N. 27747 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO NOZIONE, DIFFERENZE DALL'APPALTO E DAL RAPPORTO DI LAVORO AUTONOMO, DISTINZIONI - SOSPENSIONE DEL RAPPORTO - SCIOPERO - IN GENERE. Obbligo contrattuale di sostituzione di un collega assente - Astensione collettiva da tale prestazione - Sciopero - Configurabilità - Esclusione - Conseguenze - Sanzioni disciplinari - Legittimità - Qualificazione della condotta datoriale come antisindacale - Esclusione. Il rifiuto di alcuni portalettere di effettuare la consegna di una parte della corrispondenza, di competenza di un collega assegnatario di altra zona della medesima area territoriale, in violazione dell'obbligo previsto dall'accordo sindacale del 27 luglio 2010, non costituisce astensione dal lavoro straordinario, né astensione per un orario delimitato e predefinito, ma rifiuto di effettuare una delle prestazioni dovute, sicché può dare luogo a responsabilità contrattuale e disciplinare del dipendente senza che il comportamento datoriale di irrogazione delle sanzioni sia qualificabile come antisindacale. Tra i precedenti conformi si veda Cassazione 23672/2014. In argomento, in senso adesivo al principio di cui alla massima in rassegna, si veda altresì Cassazione 548/2011 in tema di astensione collettiva dal lavoro e con riferimento al caso in cui un accordo collettivo contenga una disposizione che obblighi il dipendente a sostituire, oltre la sua prestazione contrattuale già determinata, in quota parte oraria, un collega assente, remunerandolo con una quota di retribuzione inferiore alla maggiorazione per lavoro straordinario, la relativa astensione collettiva da tale prestazione non attiene al legittimo esercizio del diritto di sciopero, ma costituisce inadempimento parziale degli obblighi contrattuali, sicché non sono di per sé illegittime le sanzioni disciplinari irrogate dal datore ai dipendenti che hanno rifiutato la prestazione aggiuntiva loro richiesta e il comportamento datoriale non è antisindacale. In tema di licenziamento disciplinare, per Cassazione 19579/2019, qualora il comportamento addebitato al lavoratore, consistente nel rifiuto di rendere la prestazione secondo determinate modalità, sia giustificato dall'accertata illegittimità dell'ordine datoriale e dia luogo pertanto a una legittima eccezione d'inadempimento, il fatto contestato deve ritenersi insussistente perché privo del carattere dell'illiceità, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata, prevista dall'art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012. SEZ. LAVORO SENTENZA DEL 3 DICEMBRE 2020 N. 27750 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO NOZIONE, DIFFERENZE DALL'APPALTO E DAL RAPPORTO DI LAVORO AUTONOMO, DISTINZIONI - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - LICENZIAMENTO INDIVIDUALE - RISARCIMENTO DEL DANNO. Retribuzione globale di fatto - Base di calcolo - Emolumenti eventuali, occasionali od eccezionali - Esclusione - Fattispecie. In tema di conseguenze patrimoniali da licenziamento illegittimo ex art. 18 st.lav., la retribuzione globale di fatto deve essere commisurata a quella che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato, ad eccezione dei compensi eventuali e di cui non sia certa la percezione, nonché di quelli legati a particolari modalità di svolgimento della prestazione ed aventi normalmente carattere occasionale o eccezionale. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza d'appello che aveva escluso dalla base di calcolo della retribuzione variabile il premio per gli incentivi alla vendita con riferimento al periodo in cui il lavoratore era stato impossibilitato a raggiungere gli obiettivi, pur conseguiti negli anni precedenti, in ragione del licenziamento poi dichiarato illegittimo . In argomento si veda Cassazione 15379/2019 per la quale nell'ipotesi di ordine di reintegrazione del lavoratore ai sensi dell'art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, nel testo applicabile anteriormente alle modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012, il diritto al ripristino del rapporto e al risarcimento del danno non è subordinato, diversamente da quanto accade nel caso di conversione a tempo indeterminato di un contratto a tempo determinato per nullità del termine, alla messa in mora del datore di lavoro mediante l'offerta della prestazione lavorativa da parte del lavoratore, atteso che quest'ultimo mette a disposizione le proprie energie lavorative già con l'impugnativa in via stragiudiziale del recesso illegittimo, a fronte del rifiuto datoriale di riceverne la prestazione, manifestato con l'intimazione del licenziamento. Per Cassazione 6895/2018 l'art. 18, comma 4, st.lav., nel testo risultante dall'art. 1 della l. n. 108 del 1990 e ratione temporis applicabile, nel prevedere, in caso di invalidità del licenziamento, la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per effetto del licenziamento stesso, mediante corresponsione di una indennità commisurata alla retribuzione non percepita, stabilisce una presunzione iuris tantum di lucro cessante il cui presupposto è l'imputabilità al datore di lavoro dell'inadempimento, fatta eccezione per la misura minima del risarcimento, consistente in cinque mensilità di retribuzione, la quale è assimilabile ad una sorta di penale né la misura del risarcimento può essere ridotta con riguardo alle conseguenze dannose riferibili al tempo impiegato per la tutela giurisdizionale, stante l'esistenza di norme che consentono ad entrambe le parti del rapporto di promuovere il giudizio ed interferire nell'attività processuale. SEZ. LAVORO SENTENZA DEL 15 DICEMBRE 2020 N. 28646 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO NOZIONE, DIFFERENZE DALL'APPALTO E DAL RAPPORTO DI LAVORO AUTONOMO, DISTINZIONI - COSTITUZIONE DEL RAPPORTO - ASSUNZIONE - COLLOCAMENTO AL LAVORO - IN GENERE. Diritto di libera manifestazione del pensiero - Divieto di atti discriminatori in ambienti di lavoro - Art. 5 del d.lgs. n. 216 del 2003 - Assenza di procedure di selezione di un lavoratore in corso - Applicabilità. In materia di tutela del diritto dell'aspirante al lavoro, il diritto costituzionalmente riconosciuto di manifestare liberamente il proprio pensiero non può spingersi sino a violare altri principi di pari rango, assumendo pertanto carattere discriminatorio le dichiarazioni rilasciate dal titolare di uno studio legale tali da dissuadere gli aspiranti, aventi un diverso orientamento sessuale, dal presentare le proprie candidature all'assunzione, anche in assenza di una procedura di selezione in corso. Su tema di cui alla prima massima si veda Cassazione 1/2020 per la quale nei giudizi antidiscriminatori, i criteri di riparto dell'onere probatorio non seguono i canoni ordinari di cui all'art. 2729 c.c., bensì quelli speciali di cui all'art. 4 del d.lgs. 216 del 2003 applicabile ratione temporis , che non stabiliscono un'inversione dell'onere probatorio, ma solo un'agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente, prevedendo una presunzione di discriminazione indiretta per l'ipotesi in cui, specie nei casi di coinvolgimento di una pluralità di lavoratori, abbia difficoltà a dimostrare l'esistenza degli atti discriminatori ne consegue che il lavoratore deve provare il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ed il datore di lavoro le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione. PROCEDIMENTO CIVILE - LEGITTIMAZIONE POTERI DEL GIUDICE – ATTIVA. Diritti della personalità - Atti discriminatori in ambienti di lavoro - Art. 5 del d.lgs. n. 216 del 2003 - Parità di trattamento - Associazione esponenziale degli interessi lesi - Legittimazione attiva - Requisiti - Valutazione in fatto riservata al giudice di merito. In tema di parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro, l'art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 216 del 2003, come modificato dall'articolo 8-septies del d.l. n. 59 del 2008, conv. con modif. dalla l. n. 101 del 2008, costituisce esplicazione della facoltà riconosciuta agli stati membri dall'art. 8 della dir. 2000/78/CE di concedere una tutela più incisiva di diritto nazionale rispetto agli atti discriminatori in ambito lavorativo, attribuendo ad un'associazione, che sia rappresentativa del diritto o dell'interesse leso - secondo un accertamento in fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità -, la legittimazione ad avviare un giudizio per fare rispettare gli obblighi della direttiva ed eventualmente ottenere il risarcimento del danno. In relazione al principio di cui alla seconda massima si veda Cassazione 22885/2015 secondo cui in tema di danno non patrimoniale, il pregiudizio risarcibile nei confronti di un ente collettivo si identifica con la lesione dell'interesse, diffuso o collettivo, del quale esso è portatore e garante e coincide, sul piano obiettivo, con la violazione delle norme poste a tutela dell'interesse medesimo, senza che si possa distinguere, a tali fini, tra l'evento lesivo e la conseguenza negativa, in quanto dall'attività di tutela degli interessi coincidenti con quelli lesi o posti in pericolo deriva, in capo all'ente esponenziale, una posizione di diritto soggettivo che lo legittima all'azione risarcitoria.