RASSEGNA DELLA SEZIONE LAVORO DELLA CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO 24 NOVEMBRE 2011, N. 24828 PREVIDENZA ASSICURAZIONI SOCIALI - ASSICURAZIONE CONTRO LA DISOCCUPAZIONE - CONTRIBUTI E PRESTAZIONI - INDENNITÀ - IN GENERE. Indennità di mobilità ex art. 7 legge 223/1991 - Natura previdenziale - Conseguenze - Accordo transattivi in deroga alla legge - Validità - Esclusione. L’indennità di mobilità ai lavoratori licenziati, di cui all’art. 7, legge 223/1991, configura una prestazione previdenziale che trova inderogabile regolamentazione nella normativa legale. Ne consegue che è nullo per frode alla legge - in quanto modificativo della disciplina legale che regola i tempi, le modalità e i requisiti oggettivi che presiedono all’erogazione della suddetta indennità - l’accordo transattivo tra il datore di lavoro e il lavoratore, con il quale, a seguito del licenziamento di quest’ultimo, le parti avevano concordato l’impegno del datore di lavoro di attivare la procedura di mobilità con reintegra del lavoratore, ma con sospensione della prestazione lavorativa fino alla data di stipula dell’accordo sindacale sulla messa in mobilità, nel cui ambito doveva essere indicato il nominativo del lavoratore. Tra i precedenti conformi si veda Cassazione 5009/2004 per la quale in tema di riconoscimento dell’indennità di mobilità ai lavoratori licenziati, per usufruire della quale l’art 16 della legge 223/1991 richiede un una anzianità di almeno 12 mesi di cui almeno sei mesi di lavoro effettivamente prestato”, non è consentito equiparare al lavoro effettivamente prestato il periodo di continuità del lavoro effetto della declaratoria di illegittimità del licenziamento, giacché gli effetti risarcitori di tale declaratoria sono soltanto quelli specificatamente previsti dall’art. 18 stat. Lav., non suscettibili di sommarsi con l’indennità di mobilità. In argomento si veda anche Cassazione 27764/2009 secondo cui in base al combinato disposto di cui agli artt. 1, primo comma, e 12, terzo comma, della legge 223/1991 così come modificato dall’art. 7, settimo comma, del Dl 148/1993, convertito in legge 236/1993 , ai dipendenti delle imprese commerciali si estende al trattamento di mobilità previsto per i dipendenti delle imprese industriali ed artigiane, purché l’impresa soddisfi il requisito dimensionale previsto dalla legge, la cui sussistenza va verificata sulla base della media occupazionale del semestre precedente l’apertura della procedura, atteso che detto criterio tende ad identificare con effettività il requisito numerico, che, invece, ove sia verificato con riferimento alla data di apertura della procedura stessa, avrebbe carattere aleatorio. SEZIONE LAVORO 23 NOVEMBRE 2011, N. 24717 PROCEDIMENTI SPECIALI - PROCEDIMENTI IN MATERIA DI LAVORO E DI PREVIDENZA - PROCEDIMENTO DI PRIMO GRADO - DOMANDA GIUDIZIALE - FORMA E CONTENUTO. Omessa indicazione del codice fiscale del difensore - Causa di nullità del ricorso - Esclusione - Ragioni. La previsione contenuta nell’art. 125, primo comma, cod. proc. civ., come modificato dall’art. 4, comma 8, lettera a , del Dl 193/2009, convertito, con modificazioni, dalla legge 24/2010, secondo la quale il difensore indica il proprio codice fiscale”, non è causa di nullità del ricorso, non essendo, tale conseguenza, espressamente comminata dalla legge, e non potendo ritenersi che siffatta omissione integri la mancanza di uno dei requisiti formali indispensabili all’atto per il raggiungimento dello scopo cui è preposto. Non risultano precedenti specifici in termini. SEZIONE LAVORO 22 NOVEMBRE 2011, N. 24573 PROCEDIMENTI SPECIALI - PROCEDIMENTI IN MATERIA DI LAVORO E DI PREVIDENZA - PROCEDIMENTO DI PRIMO GRADO - SENTENZA - DISPOSITIVO LETTURA DEL . Individuazione della data di decisione del giudizio - Rilevanza del verbale d’udienza attestante la lettura del dispositivo della sentenza - Sussistenza - Ragioni. Nel rito del lavoro, ai fini dell’individuazione della data di decisione del giudizio rileva il verbale dell’udienza di discussione che attesta la lettura del dispositivo della sentenza, trattandosi di atto pubblico che fa fede fino a querela di falso. In senso conforme si veda Cassazione 13165/2009 per la quale nel rito del lavoro, l’attestazione della lettura del dispositivo all’udienza di discussione della causa deve risultare dal verbale di udienza, senza che assuma rilievo che, nella narrativa della sentenza, il collegio abbia dato atto del compimento di tale incombente, dovendosi escludere - a differenza di quanto stabilito dall’art. 126 cod. proc. civ. per il cancelliere, al quale sono richieste specifiche attestazioni nella redazione del verbale di udienza - che l’art. 132, secondo comma, n. 4, Cpc, nel prevedere, tra i contenuti necessari della sentenza, una concisa esposizione dello svolgimento del processo”, attribuisca al giudice un particolare potere certificativo. Analogamente ma con riferimento al procedimento di opposizione ad ordinanza-ingiunzione irrogativa di sanzione amministrativa Cassazione 13589/2006 ha affermato che l’attestazione contenuta nella narrativa della sentenza in ordine alla avvenuta lettura del dispositivo in udienza può essere contrastata soltanto con la querela di falso, trattandosi di affermazione contenuta in atto pubblico, e detta querela può essere proposta anche nel giudizio di cassazione, in quanto concerne documenti inerenti il procedimento che debbono essere prodotti nel giudizio di legittimità, e non atti che il giudice di merito ha posto a fondamento della sua decisione. Per Cassazione 4012/2001, nelle controversie locative alle quali sono applicabili le disposizioni previste per le controversie di lavoro in virtù del richiamo di cui all’art. 447 bis Cpc , il dispositivo della sentenza non costituisce un atto interno, bensì un atto a rilevanza esterna, che assume autonomo rilievo e viene ad esistenza mediante la lettura in udienza non può perciò ritenersi che si sia avuta formazione del dispositivo prima del termine dell’udienza quando il giudice, esaurita la discussione, abbia dato lettura del dispositivo avvalendosi di uno scritto preparato in precedenza per sua annotazione ed in funzione eventualmente strumentale alla formazione dell’atto decisionale, atteso che solo la lettura costituisce il momento genetico del dispositivo, in cui esso assume rilevanza esterna e viene acquisito al processo, senza che, peraltro, possa ravvisarsi nullità della decisione per il fatto che, dopo la discussione, la lettura del dispositivo sia intervenuta immediatamente, senza soluzione di continuità, atteso che, per un verso, per il giudice monocratico la camera di consiglio equivale ad un momento di autonoma riflessione che non comporta le formalità di cui all’art. 276 Cpc, e che, per altro verso, non è previsto a pena di nullità alcun intervallo temporale tra la conclusione dell’udienza di discussione e la lettura del dispositivo. SEZIONE LAVORO 22 NOVEMBRE 2011, N. 24566 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - LICENZIAMENTO COLLETTIVO - IN GENERE. Presupposti - Autonomia rispetto al licenziamento individuale - Sussistenza - Procedimento - Inderobabilità - Sussistenza - Numero dei licenziamenti effettuati all’esito del procedimento - Irrilevanza - Conversione del licenziamento collettivo in licenziamenti individuali - Esclusione - Fondamento. Dopo l’entrata in vigore della legge 223/1991, il licenziamento collettivo costituisce un istituto autonomo che si distingue dal licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, essendo specificatamente caratterizzato in base alle dimensioni occupazionali dell’impresa, al numero dei licenziamenti, all’arco temporale entro cui gli stessi sono effettuati, ed essendo inderogabilmente collegato al controllo preventivo, sindacale e pubblico, dell’operazione imprenditoriale di ridimensionamento dell’azienda. Ne deriva che, qualora il datore di lavoro che occupi più di 15 dipendenti intenda effettuare, in conseguenza di una riduzione o trasformazione dell’attività di lavoro, almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni, è tenuto all’osservanza delle procedure previste dalla legge stessa, mentre resta irrilevante che il numero dei licenziamenti attuati a conclusione delle procedure medesime sia eventualmente inferiore, così com’è inammissibile la conversione” del licenziamento collettivo in licenziamento individuale. Il principio è consolidato nella giurisprudenza di legittimità ed è espresso tra le altre da Cassazione 22167/2010. In argomento per Cassazione 1465/2011, in tema di licenziamenti collettivi per cessazione dell’attività d’impresa, l’art. 24, comma 1, legge 223/1991 - a cui rinvia il comma 2 della stessa norma - nel richiedere, ai fini dell’applicabilità della relativa disciplina, che le imprese occupino più di quindici dipendenti”, deve essere interpretato nel senso che il predetto requisito dimensionale non deve essere determinato in riferimento al momento della cessazione dell’attività e dei licenziamenti, ma con riguardo all’occupazione media dell’ultimo semestre, in analogia con quanto espressamente stabilito dall’art. 1, comma 1, della stessa legge 223/1991 ai fini dell’intervento di cassa integrazione guadagni straordinaria. Ne consegue che la suddetta disciplina è applicabile, con attribuzione ai lavoratori licenziati del diritto all’iscrizione nelle liste di mobilità e percezione della relativa indennità, anche all’impresa che, al momento dei licenziamenti, abbia un numero di dipendenti inferiore a sedici, ma che nei mesi precedenti abbia compensato tale carenza superando il limite dimensionale. Per Cassazione 13093/2011 si applica la disciplina nazionale sui licenziamenti collettivi qualora l’ente datore di lavoro, pur non essendo un imprenditore, svolga nel caso concreto attività di carattere imprenditoriale, caratterizzata dai due requisiti della economicità e della autonomia, gestionale, finanziaria e contabile, e non operi invece come organizzazione di tendenza. L’accertamento del carattere imprenditoriale dell’attività in concreto esercitata da qualsiasi ente pubblico non economico è riservato al giudice di merito e, come tale, censurabile in sede di legittimità soltanto per vizio di motivazione.