RASSEGNA DELLA SEZIONE LAVORO DELLA CASSAZIONE di Francesca Evangelista

di Francesca Evangelista SEZIONE LAVORO 4 MAGGIO 2011, N. 9808 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - IN GENERE NOZIONE, DIFFERENZE DALL'APPALTO E DAL RAPPORTO DI LAVORO AUTONOMO, DISTINZIONI - CERTALEX. Qualificazione del rapporto di lavoro - Inclusione nello schema contrattuale del lavoro autonomo o subordinato - Valutazione del giudice di merito - Censurabilità in cassazione - Esclusione - Limiti. Ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, è censurabile in sede di legittimità soltanto la determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto, come tale incensurabile in detta sede, se sorretto da motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici, la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice del merito ad includere il rapporto controverso nell'uno o nell'altro schema contrattuale. Principio affermato ai sensi dell'art. 360 bis, comma 1, Cpc . Il principio di cui alla massima è consolidato nella giurisprudenza di legittimità. Tra le varie conformi si veda da ultima Cassazione 23455/2009. In tema di distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, per Cassazione 9256/2009 l'esistenza del vincolo di subordinazione va valutata dal giudice di merito - il cui accertamento è censurabile in sede di legittimità quanto all'individuazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre si sottrae al sindacato, se sorretta da motivazione adeguata e immune da vizi logici, la valutazione delle risultanze processuali - avuto riguardo alla specificità dell'incarico conferito al lavoratore ed al modo della sua attuazione, fermo restando che, ove l'assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui non sia agevolmente apprezzabile a causa della peculiarità delle mansioni, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari - come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell'osservanza di un orario predeterminato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell'assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale - che, privi ciascuno di valore decisivo, possono essere valutati globalmente come indizi probatori della subordinazione. SEZIONE LAVORO 4 MAGGIO 2011, N. 9769 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ORARIO DI LAVORO - IN GENERE. Trasformazione a tempo parziale del rapporto a tempo pieno - Mancata concessione - Inadempimento contrattuale per violazione degli obblighi di buona fede e correttezza - Sussistenza - Condizioni - Conseguenze. In tema di prestazioni di lavoro subordinato nella specie, presso aziende di credito , la mancata concessione della trasformazione a part time del rapporto a tempo pieno, ove nel caso concreto quest'ultima risulti giuridicamente doverosa, ai sensi e per gli effetti della contrattazione collettiva, costituisce violazione dei criteri di buona fede e correttezza che debbono ispirare l'esecuzione del contratto e, quindi, inadempimento contrattuale, di cui si può chiedere l'accertamento in relazione alla domanda di risarcimento dei danni conseguenti alla mancata trasformazione del rapporto di lavoro. In tema di lavoro a tempo parziale, per Cassazione 6226/2009 la mancata predeterminazione di un orario rigido non comporta l'automatica trasformazione del rapporto part-time in rapporto a tempo pieno, né la nullità della clausola relativa all'orario si estende all'intero contratto, a meno che non si provi che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità ne consegue che, in tale ipotesi, deve ritenersi perdurante il rapporto di lavoro part-time, sia pure senza specificazione dell'orario rigido. Per Cassazione 1729/2000, nell'ipotesi di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno, per la quale - riguardo alla commisurazione dell'indennità di maternità - trova applicazione la disciplina dettata dall'art. 16, primo comma, della legge 1204/1971, ove l'inizio dell'astensione obbligatoria coincida con il concordato inizio del periodo di lavoro a tempo pieno, l'indennità va calcolata in base alla retribuzione fissata per quest'ultimo periodo, in quanto - come ritenuto dalla Corte Costituzionale con la sentenza 271/1999 - la commisurazione di tale indennità al periodo di paga a tempo parziale si tradurrebbe in una violazione degli obiettivi perseguiti dal legislatore del 1971, visto che in tal caso la lavoratrice, pur essendo formalmente in part - time all'inizio del periodo di astensione, avrebbe certamente prestato il proprio lavoro a tempo pieno, durante il prosieguo, in mancanza di gravidanza. SEZIONE LAVORO 4 MAGGIO 2011, N. 9767 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - DIRITTI ED OBBLIGHI DEL DATORE E DEL PRESTATORE DI LAVORO - SUBORDINAZIONE - SANZIONI DISCIPLINARI. Pubblico impiego privatizzato - Termine per l'intimazione del licenziamento - Regime anteriore al D.Lgs. 150/2009 - Regolamentazione legale e possibile integrazione della contrattazione collettiva e del regolamento di disciplina - Regolamento di disciplina dell'INAIL - Termine di decadenza per l'esercizio del potere disciplinare - Applicabilità. In tema di licenziamento disciplinare nel rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato, nel regime precedente il D.Lgs. 150/2009, la regolamentazione di fonte legale artt. 55 e 56 D.Lgs. 165/2001 poteva essere integrata dalla contrattazione collettiva, nonché dall'eventuale Regolamento di disciplina dell'amministrazione pubblica datrice di lavoro quanto al termine per l'intimazione del licenziamento dalla convocazione per la difesa del dipendente conseguentemente, con riferimento a licenziamento disciplinare intimato nella specie, nell'anno 2001 a dipendente dell'INAIL, trova applicazione il termine fissato in trenta giorni dagli artt. 4, primo comma e 6, primo comma, del Regolamento di disciplina dell'Inail a pena di estinzione del procedimento disciplinare e, quindi, di decadenza dell'amministrazione dall'esercizio del potere stesso. In tema di procedimento disciplinare nei rapporti di lavoro pubblico privatizzato si vada anche Cassazione 5806/2010. Il requisito della immediatezza della reazione, secondo Cassazione 17058/2003, è elemento costitutivo del recesso per giusta causa di cui all'art. 2119 cc e come tale deve essere verificato d'ufficio dal giudice costituisce invece un'eccezione in senso stretto, soggetta alle preclusioni di cui agli artt. 414,416,437 Cpc, rispetto all'esercizio del potere datoriale di recedere per giusta causa, la deduzione da parte del lavoratore del difetto di immediatezza della contestazione dell'addebito disciplinare quale vizio procedimentale lesivo del diritto di difesa garantito dall'art. 7 legge 300/1970. Occorre quindi che la parte, pur senza necessità di ricorrere a formule rituali, manifesti con chiarezza la volontà di denunciare il suddetto vizio procedimentale. In tema di licenziamento disciplinare, Cassazione 7410/2010 ritiene che, ove sussista un rilevante intervallo temporale tra i fatti contestati e l'esercizio del potere disciplinare, la tempestività di tale esercizio deve essere valutata in relazione al tempo necessario per acquisire conoscenza della riferibilità del fatto, nelle sue linee essenziali, al lavoratore medesimo, la cui prova è a carico del datore di lavoro, senza che possa assumere autonomo ed autosufficiente rilievo la denunzia dei fatti in sede penale o la pendenza stessa del procedimento penale, considerata l'autonomia tra i due procedimenti, l'inapplicabilità, al procedimento disciplinare, del principio di non colpevolezza, stabilito dall'art. 27 Cost. soltanto in relazione al potere punitivo pubblico, e la circostanza che l'eventuale accertamento dell'irrilevanza penale del fatto non determina di per sé l'assenza di analogo disvalore in sede disciplinare. SEZIONE LAVORO 29 APRILE 2011, N. 9575 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - PER MUTUO CONSENSO - DIMISSIONI. Dimissioni del lavoratore - Natura giuridica - Atto unilaterale recettizio - Revocabilità - Esclusione - Mancato decorso del periodo di preavviso - Irrilevanza. Le dimissioni del lavoratore costituiscono un negozio unilaterale recettizio idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui l'atto venga a conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo di accettarle. Ne consegue che, una volta risolto il rapporto, per la sua ricostituzione è necessario che le parti stipulino un nuovo contratto di lavoro, non essendo sufficiente ad eliminare l'effetto risolutivo che si è prodotto la revoca delle dimissioni da parte del lavoratore, neppure se la revoca sia manifestata in costanza di preavviso. In senso conforme si veda Cassazione 20787/2007 che estende il principio anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze della P.A. successivi all'entrata in vigore del D.Lgs. 29/1993, regolato dalle norme del codice civile e dalle leggi civili sul lavoro nonché dalle norme sul pubblico impiego solo in quanto non espressamente abrogate e non incompatibili. Conforme è anche Cassazione 4391/2007 per la quale tuttavia, in applicazione del principio generale di libertà negoziale, le parti possono consensualmente stabilire di porre nel nulla le dimissioni con conseguente prosecuzione a tempo indeterminato del rapporto stesso e, in tal caso, l'onere di fornire la dimostrazione del raggiungimento del contrario accordo, che, come le dimissioni, non richiede la forma scritta, salva una diversa espressa previsione contrattuale, è a carico del lavoratore. Il recesso volontario del lavoratore per Cassazione 5454/2011, può essere desunto da dichiarazioni o comportamenti che, inequivocabilmente, manifestino l'intento di recedere dal rapporto, come nel caso in cui il prestatore si sia allontanato dal posto di lavoro e non si sia più presentato per diversi giorni né l'applicazione di tale principio è esclusa dalla previsione del contratto collettivo di una forma scritta, ove questa non sia imposta ad substantiam e dovendosi, per converso, intendere la presentazione di una disdetta scritta come un onere a carico del prestatore e non come un intrinseco requisito di validità del recesso. Quanto alla interpretazione dell'atto di recesso Cassazione 460/2011 ricorda che, il canone ermeneutico di cui all'art. 1362, primo comma, cc impone di accertare esclusivamente l'intento proprio del soggetto che ha posto in essere il negozio, ferma l'applicabilità, atteso il rinvio operato dall'art. 1324 cc, del criterio dell'interpretazione complessiva dell'atto. Per Cassazione 25138/2010 l'atto di dimissioni, nel realizzare il diritto potestativo di recesso del lavoratore, idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro indipendentemente dalla volontà del datore di lavoro, non sopporta una condizione risolutiva, che inammissibilmente porrebbe nel nulla un effetto risolutivo già avvenuto, ma ben può contenere una condizione sospensiva, permessa dal principio generale di libertà negoziale.