RASSEGNA DELLA SEZIONE LAVORO DELLA CASSAZIONE di Francesca Evangelista

di Francesca Evangelista SEZIONE LAVORO 13 APRILE 2011, N. 8465 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - TRASFERIMENTO D'AZIENDA - IN GENERE. Disciplina del trasferimento d'azienda - Cessione di unità produttiva - Inclusione - Licenziamento disposto dalla società cedente - Notifica dell'atto di precetto e del pignoramento al cessionario - Liceità. In tema di trasferimento d'azienda, l'art. 2112 cc, nel testo applicabile ratione temporis modificato dall'art. 47 della legge 428/1990 e antecedente alla novella introdotta con il D.Lgs. 18/2001, comprendeva espressamente - in linea con la direttiva 77/187/CEE del 14 febbraio 1977, come ripetutamente interpretata dalla Corte di giustizia CE e poi trasfusa nella direttiva 99/50/CE e, infine, razionalizzata, senza innovazioni sostanziali, nella direttiva 2001/23/CE - la possibilità che il trasferimento riguardasse unità produttive. Ne consegue che, in caso di licenziamento disposto dalla società cedente, i successivi atti nella specie, l'atto di precetto e il pignoramento sono legittimamente notificati alla società cessionaria del ramo d'azienda, al quale era addetto il lavoratore al momento, anteriore alla cessione, della risoluzione del rapporto. Secondo Cassazione 21697/2009, per ramo d'azienda, ai sensi dell'art. 2112 cc così come modificato dalla legge 18/2001, in applicazione della direttiva CE 98/50 , come tale suscettibile di autonomo trasferimento riconducibile alla disciplina dettata per la cessione di azienda, deve intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità, il che presuppone una preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente, e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento, o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo. Ne consegue che non costituisce cessione di azienda il contratto con il quale viene realizzata la cessione di servizi, - nella specie ricondotti ad un generico settore di Servizi generali - ove questi non integrino un ramo o parte dell'azienda né una preesistente unità produttiva autonoma e funzionale, e il licenziamento dei relativi lavoratori addetti al settore non può rientrare nell'ambito di una lecita operazione di riduzione dell'azienda. Nel caso in cui il lavoratore, agendo in giudizio, affermi l'esistenza del rapporto lavorativo con un datore di lavoro nella specie, la società cedente il ramo d'azienda e neghi il rapporto con altro datore nella specie, la società cessionaria , Cassazione 13171/2009 ha escluso la sussistenza di un litisconsorzio necessario, in quanto il lavoratore non deduce in giudizio un rapporto plurisoggettivo, né alcuna situazione di contitolarità, ma tende a conseguire un'utilità rivolgendosi ad una sola persona, ossia il vero datore di lavoro in tal caso, l'accertamento negativo dell'altro rapporto avviene senza efficacia di giudicato e l'eventuale contrasto tra giudicati è bilanciato dalle esigenze di economia e speditezza processuale, ostacolate dalla presenza di altra parte nel giudizio. SEZIONE LAVORO 13 APRILE 2011, N. 8458 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - LICENZIAMENTO INDIVIDUALE - PER GIUSTA CAUSA. Intervento chirurgico di taglio cesareo affidato dal medico ad un'ostetrica - Giusta causa di licenziamento - Configurabilità - Fondamento. Si configura la giusta causa di licenziamento nel caso in cui un dirigente medico consenta ad un'ostetrica di effettuare con la sua assistenza, presso la sala parto del presidio ospedaliero, un intervento chirurgico di taglio cesareo, atteso che le funzioni di formazione professionale sono di competenza dell'azienda ospedaliera e non possono stravolgere, sulla base di iniziative personali, le regole di competenza che garantiscono corretto svolgimento degli interventi sanitari, al fine di garantire la salute degli utenti e l'affidabilità delle strutture erogatrici dei relativi servizi. In tema di licenziamento per giusta causa da ultima Cassazione 5019/2011 ricorda che occorre che la mancanza del lavoratore sia tanto grave da giustificare l'irrogazione della sanzione espulsiva e, pertanto, va valutato il comportamento del prestatore non solo nel suo contenuto oggettivo - ossia con riguardo alla natura e alla qualità del rapporto, al vincolo che esso comporta e al grado di affidamento che sia richiesto dalle mansioni espletate - ma anche nella sua portata soggettiva e, quindi, con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stato posto in essere, ai modi, ai suoi effetti e all'intensità dell'elemento volitivo dell'agente. Con riferimento alla nozione legale di giusta causa secondo Cassazione 2906/2005 il giudice non è vincolato alle previsioni di condotte integranti giusta causa contenute nei contratti collettivi tuttavia ciò non esclude che ben possa il giudice far riferimento ai contratti collettivi e alle valutazioni che le parti sociali compiono in ordine alla valutazione della gravità di determinati comportamenti rispondenti, in linea di principio, a canoni di normalità. Il relativo accertamento va operato caso per caso, valutando la gravità in considerazione delle circostanze di fatto e prescindendo dalla tipologia determinata dai contratti collettivi, ed il giudice può escludere che il comportamento costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato come tale dai contratti collettivi, solo in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato. In senso conforme si era espressa già Cassazione 16260/2004 per la quale la previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il giudice, dato che questi deve sempre verificare, stante la inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, se quella previsione sia conforme alla nozione di giusta causa, di cui all'art. 2119 cc, e se, in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di entità tale da legittimare il recesso, tenendo anche conto dell'elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore, salvo il caso in cui il trattamento contrattuale sia più favorevole al lavoratore. SEZIONE LAVORO 8 APRILE 2011, N. 8075 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ASSOCIAZIONI SINDACALI - SINDACATI POSTCORPORATIVI - LIBERTÀ SINDACALE - REPRESSIONE DELLA CONDOTTA ANTISINDACALE. Proclamazione di uno sciopero regionale del personale ferroviario - Comando di personale non scioperante su tutti i treni di media e lunga percorrenza non aventi origine e destinazione all'interno della regione cosiddetti treni passanti - Condotta antisindacale - Configurabilità - Sussistenza - Fondamento. Costituisce comportamento antisindacale la condotta di Trenitalia s.p.a., tenuta in occasione di uno sciopero regionale proclamato da una organizzazione sindacale, e consistita nel qualificare come prestazioni indispensabili tutti i treni non aventi origine o destinazione in impianti situati nella regione interessata, in quanto non conforme a quanto convenuto nell'accordo sindacale del 23 novembre 1999, dichiarato idoneo dalla Commissione di garanzia, atteso che, in particolare, la relativa disposizione del predetto accordo par. 4.2.2. qualifica come indispensabili solo i treni dei pendolari nei giorni feriali, i treni di media e lunga percorrenza nella misura minima di tre coppie di treni al giorno sulle principali direttrici Nord-Sud ed Est-Ovest fino alla destinazione e i treni che, con orario di partenza anteriore all'inizio dello sciopero, giungano a destinazione entro la prima ora dello sciopero stesso, restando salva la possibilità per la società di far circolare gli Eurostar e gli ulteriori treni concordati a livello regionale della categoria Intercity nonché quelli non garantiti con personale non scioperante. Il comportamento antisindacale del datore di lavoro, in relazione ad uno sciopero indetto dai lavoratori, secondo Cassazione 26368/2009 é configurabile allorché il contingente affidamento delle mansioni svolte dai lavoratori in sciopero al personale rimasto in servizio, nell'intento di limitarne le conseguenze dannose, avvenga in violazione di una norma di legge o del contratto collettivo, in particolare dovendosi accertare, da parte del giudice di merito, ove la sostituzione avvenga con lavoratori di qualifica superiore o interinali, se l'adibizione dei primi a mansioni inferiori avvenga eccezionalmente, marginalmente e per specifiche ed obiettive esigenze aziendali non configurandosi, in tal caso, alcuna violazione dell'art. 2103 cc , e l'utilizzazione dei secondi rispetti o meno la programmazione prevista anteriormente alla proclamazione dello sciopero nella misura corrispondente alle concrete esigenze produttive e organizzative dell'azienda. Per Cassazione 12811/2009 nel caso della proclamazione di uno sciopero da parte delle organizzazioni sindacali di categoria, può escludersi il carattere antisindacale della condotta del datore di lavoro che, nell'intento di limitarne le conseguenze dannose, disponga la utilizzazione del personale rimasto in servizio mediante l'assegnazione a mansioni inferiori, solo ove tali mansioni siano marginali e funzionalmente accessorie e complementari a quelle proprie della posizione dei lavoratori così assegnati, dovendosi ritenere, diversamente, che la condotta del datore di lavoro sia lesiva dell'interesse collettivo del sindacato per aver fatto ricadere sui lavoratori non scioperanti le conseguenze negative dello sciopero attraverso il compimento di atti illegittimi perché posti in essere in violazione dell'art. 2103 cc. SEZIONE LAVORO 7 APRILE 2011, N. 7951 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - LICENZIAMENTO INDIVIDUALE - DISCIPLINARE. Rilievo anche penale del fatto - Inizio dell'azione penale - Effetto sospensivo dell'azione disciplinare - Sussistenza - Fondamento - Conseguenze - Principio dell'immediatezza della contestazione - Violazione - Insussistenza - Condizioni. In tema di licenziamento disciplinare, quando il fatto che dà luogo alla relativa sanzione abbia anche rilievo penale, il datore di lavoro non può dare avvio al procedimento disciplinare, una volta iniziata l'azione penale, per l'effetto sospensivo ex art. 117 del Dpr 3/1957. In tal caso, il principio dell'immediatezza della contestazione - posto a tutela del lavoratore ed inteso a consentirgli un'adeguata difesa - non è violato ove il lasso di tempo trascorso prima dell'inizio del procedimento penale e dopo la conclusione di questo sia particolarmente breve nella specie, circa due mesi . Nel licenziamento per giusta causa, il principio dell'immediatezza della contestazione dell'addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti sia molto laborioso e richieda uno spazio temporale maggiore, e non potendo, nel caso in cui il licenziamento sia motivato dall'abuso di uno strumento di lavoro, ritorcersi a danno del datore di lavoro l'affidamento riposto nella correttezza del dipendente, o equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell'illecito, ovvero supporsi una tolleranza dell'azienda a prescindere dalla conoscenza che essa abbia degli abusi del dipendente. In ogni caso, la valutazione della tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato Casszione 5546/2010. Quando il fatto che dà luogo a sanzione disciplinare abbia anche rilievo penale, il principio della immediatezza della contestazione, non pregiudicato dall'intervallo di tempo necessario all'accertamento della condotta del lavoratore ed alle adeguate valutazioni di questa, non può considerarsi violato dal datore di lavoro il quale, avviate le proprie indagini senza pervenire ad un sicuro accertamento di colpevolezza, avendo scelto ai fini di un corretto accertamento del fatto di attendere l'esito degli accertamenti svolti in sede penale, contesti l'addebito solo quando attraverso le scelte processuali del lavoratore nel procedimento penale, conclusosi con sentenza di applicazione della pena a richiesta dell'imputato, abbia acquisito piena consapevolezza della riferibilità dei fatti al dipendente, a nulla rilevando che tale sentenza sia priva di efficacia vincolante nel giudizio disciplinare, scaturito dai fatti ascritti, non venendo in questione il contenuto della sentenza ma la condotta del lavoratore nel processo, quale elemento che, integrandosi con l'insieme degli indizi già acquisiti, attribuisce alla situazione complessiva la nuova caratteristica della chiarezza e della univocità Cassazione 9963/2003. SEZIONE LAVORO 7 APRILE 2011, N. 7950 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - DIRITTO ALLA CONSERVAZIONE DEL POSTO - INFORTUNI E MALATTIE - COMPORTO. Determinazione - Computo - Criterio meno favorevole al lavoratore - Fatti fondanti presunzione di continuità dell'episodio morboso - Allegazione solo in appello - Ammissibilità - Esclusione. In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, non è consentito al datore di lavoro introdurre solo in appello un criterio di computo delle assenze meno favorevole per il lavoratore in quanto basato sostanzialmente sulla prospettazione di fatti, posti a fondamento della presunzione di continuità dell'episodio morboso secondo la quale nel periodo suindicato vanno computati anche i giorni non lavorativi e le assenze intermedie tra una malattia e quella seguente , che non erano stati allegati, o non erano stati compiutamente allegati, in primo grado. In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, per Cassazione 28317/2008, ove la disciplina contrattuale non contenga esplicite previsioni di diverso tenore, devono essere inclusi nel calcolo anche i giorni festivi che cadano durante il periodo di malattia indicato dal certificato medico, operando, in difetto di prova contraria che è onere del lavoratore fornire , una presunzione di continuità, in quei giorni, dell'episodio morboso addotto dal lavoratore quale causa dell'assenza dal lavoro e del mancato adempimento della prestazione dovuta, e la prova idonea a smentire la suddetta presunzione di continuità può essere costituita soltanto dalla dimostrazione dell'avvenuta ripresa dell'attività lavorativa, atteso che solo il ritorno in servizio rileva come causa di cessazione della sospensione del rapporto, con la conseguenza che i soli giorni che il lavoratore può legittimamente richiedere che non siano conteggiati nel periodo di comporto sono quelli successivi al suo rientro in servizio. Né, ai fini del computo complessivo del periodo di assenza, possono essere detratti i giorni di ferie ove non sia stata avanzata una espressa domanda da parte del lavoratore per la fruizione del periodo maturato e non goduto. Secondo Cassazione 23920/2010, il licenziamento per superamento del periodo di comporto è assimilabile non al licenziamento disciplinare, ma a quello per giustificato motivo oggettivo. Ne consegue che il datore di lavoro, non ha l'onere di indicare le singole giornate di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive come la determinazione del numero totale delle assenze verificatesi in un determinato periodo, fermo restando l'onere, nell'eventuale sede giudiziaria, di allegare e provare, compiutamente, i fatti costitutivi del potere esercitato.