RASSEGNA DELLA SEZIONE LAVORO DELLA CASSAZIONE di Francesca Evangelista

di Francesca Evangelista SEZIONE LAVORO 13 DICEMBRE 2010, N. 25145 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - DEL RAPPORTO A TEMPO INDETERMINATO. Dirigente d'azienda - Licenziamento - Disciplina applicabile - Leggi 604/1966 e 300/1970 - Esclusione - Conseguenze - Indennità supplementare - Giustificatezze della risoluzione del rapporto - Nozione - Equiparabilità alla nozione legale di giusta causa e giustificato motivo - Esclusione - Fondamento. La disciplina limitativa del potere di licenziamento di cui alle leggi 604/1966 e 300/1970 non è applicabile, ai sensi dell'art. 10 della legge 604/1966, ai dirigenti convenzionali, quelli cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo applicabile, sia che si tratti di dirigenti apicali, che di dirigenti medi o minori, ad eccezione degli pseudo-dirigenti, vale a dire di coloro i cui compiti non sono in alcun modo riconducibili alla declaratoria contrattuale del dirigente. Ne consegue che, ai fini dell'eventuale riconoscimento dell'indennità supplementare prevista per la categoria dei dirigenti, occorre fare riferimento alla nozione contrattuale di giustificatezza che si discosta, sia nel piano soggettivo che su quello oggettivo, da quello di giustificato motivo ex art. 3, legge 604/1966, e di giusta causa ex art. 2119 cc, trovando la sua ragione d'essere, da un lato, nel rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro in ragione delle mansioni affidate - suscettibile di essere leso anche da mera inadeguatezza rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante o da importante deviazione dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro, ovvero da comportamento extralavorativo incidente sull'immagine aziendale a causa della posizione rivestita - e, dall'altro, nello stesso sviluppo delle strategie di impresa che rendano nel tempo non pienamente adeguata la concreta posizione assegnata al dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell'azienda. In materia di rapporto di lavoro dei dirigenti d'azienda, per Cassazione 16498/2009 l'indennità supplementare di cui all'art. 19 del CCNL dei dirigenti di aziende industriali del 27 aprile 1995 compete al dirigente licenziato solo nei casi in cui il recesso non sia assistito da giustificatezza, che può fondarsi sia su ragioni soggettive ascrivibili al dirigente, sia su ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale, che non debbano necessariamente coincidere con l'impossibilità della continuazione del rapporto o con una situazione di grave crisi aziendale, tale da rendere impossibile o particolarmente onerosa detta continuazione, dato che il principio di correttezza e buona fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve essere coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall'art. 41 Cost Né tale interpretazione della norma collettiva si pone in contrasto con la previsione dell'Accordo interconfederale del 27 aprile 1995 che, nell'attribuire una diversa indennità supplementare al dirigente licenziato, nei casi di crisi, ristrutturazione e riconversione aziendale asseverata con Dm, persegue l'obbiettivo di sopperire alle emergenze occupazionali conseguenti, in tali casi, all'esodo di una pluralità di dirigenti. Quanto al tema della nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente, si veda Cassazione 15496/2008 per la quale, anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante , o una importante deviazione del dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro, o un comportamento extralavorativo incidente sull'immagine aziendale possono, a seconda delle circostanze, costituire ragione di rottura del rapporto fiduciario e quindi giustificarne il licenziamento sul piano della disciplina contrattuale dello stesso, con valutazione rimessa al giudice di merito sindacabile, in sede di legittimità, solo per vizi di motivazione. In materia di ripartizione dell'onere della prova infine, secondo Cassazione 18998/2010, il principio secondo il quale spetta al datore di lavoro provare l'appartenenza del lavoratore alla categoria dei dirigenti non si applica ove l'accertamento della natura dirigenziale dell'attività lavorativa costituisca oggetto di specifico interesse del prestatore, dovendo trovare applicazione il principio generale che spetta a chi vuole far valere un diritto in giudizio l'onere di provare i fatti che ne costituiscono fondamento. Ne consegue che, in caso di licenziamento di dipendente formalmente inquadrato come dirigente, grava sul lavoratore, che intenda fruire del più favorevole regime limitativo dei licenziamenti previsto per i dipendenti non aventi tale qualifica, l'onere di provare la natura meramente convenzionale dell'inquadramento, e che le mansioni effettivamente svolte non corrispondevano a quelle previste o, comunque, difettavano, in concreto, delle connotazioni proprie della categoria dirigenziale. SEZIONE LAVORO 13 DICEMBRE 2010, N. 25144 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - LICENZIAMENTO INDIVIDUALE - PER GIUSTA CAUSA. Nozione legale di giusta causa e di proporzionalità della sanzione disciplinare - Specificazioni in sede interpretativa - Necessità - Censurabilità in sede di legittimità ex art. 360 n. 3 Cpc - Sussistenza - Limiti - Criteri interpretativi - Giudizio di fatto - Configurabilità - Censurabilità in cassazione - Limiti. Giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è, quindi, deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, ovvero a far sussistere la proporzionalità tra infrazione e sanzione, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici. Pertanto, l'operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell'applicare le clausole generali come quella di cui all'art. 2119 o all'art. 2106 cc, che dettano tipiche norme elastiche , non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell'applicazione della clausola generale, poiché l'operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall'ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare anche collettiva in cui la fattispecie si colloca. La giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto , configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell'estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto. A tale processo non partecipa invece, la soluzione del caso singolo, se non nella misura in cui da essa sia possibile estrarre una puntualizzazione della norma mediante una massima di giurisprudenza. Ne consegue che, mentre l'integrazione giurisprudenziale della nozione di giusta causa a livello generale ed astratto si colloca sul piano normativo, e consente, pertanto, una verifica di legittimità sotto il profilo della violazione di legge, l'applicazione in concreto del più specifico canone integrativo, così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito, e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione insufficiente o contraddittoria Cassazione 18247/2009. In tema di sanzioni disciplinari il fondamentale principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della infrazione deve essere rispettato sia in sede di irrogazione della sanzione da parte del datore di lavoro nell'esercizio del suo potere disciplinare, sia in sede di controllo che, della legittimità e della congruità della sanzione applicata, il giudice sia chiamato a fare. Ai fini di tale valutazione il giudice deve tenere conto non solo delle circostanze oggettive, ma anche delle modalità soggettive della condotta del lavoratore in quanto anche esse incidono sulla determinazione della gravità della trasgressione e, quindi, della legittimità della sanzione stessa. L'apprezzamento di merito della proporzionalità tra infrazione e sanzione sfugge, peraltro, a censure in sede di legittimità se la valutazione del giudice di merito è sorretta da adeguata e logica motivazione Cassazione 20221/2007. SEZIONE LAVORO 13 DICEMBRE 2010, N. 25138 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - ESTINZIONE DEL RAPPORTO - PER MUTUO CONSENSO DIMISSIONI. Atto di dimissioni - Natura - Diritto potestativo di recesso - Conseguenze - Sottoposizione e condizione risolutiva - Esclusione - Condizione sospensiva - Ammissibilità - Fattispecie relativa ad ipotesi di risoluzione consensuale e sospensivamente condizionata del rapporto di lavoro del dirigente. L'atto di dimissioni, nel realizzare il diritto potestativo di recesso del lavoratore, idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro indipendentemente dalla volontà del datore di lavoro, non sopporta una condizione risolutiva, che inammissibilmente porrebbe nel nulla un effetto risolutivo già avvenuto, ma ben può contenere una condizione sospensiva, permessa dal principio generale di libertà negoziale. Nella specie, relativa alla cessazione, per dimissioni volontarie, del rapporto lavorativo di un dirigente di una società, titolare di azioni della stessa, la S.C. ha ritenuto ammissibile l'apposizione, all'atto di dimissioni del detto dirigente, della condizione sospensiva del trasferimento ad altra società delle azioni di cui il medesimo era titolare . In argomento si veda Cassazione 16305/2009 per la quale la promessa, da parte del venditore di quote sociali, delle dimissioni volontarie di un dipendente della società, qualora comporti le dimissioni nel periodo compreso tra la richiesta delle pubblicazioni di matrimonio e il decorso di un anno dalla celebrazione dello stesso, si configura come promessa del fatto del terzo nulla per contrarietà a norme imperative poste a tutela della donna in osservanza dei principi costituzionali art. 37 Cost. , atteso che l'art. 1 della legge 9/1963 ora art. 35 del D.Lgs. 198/2006 prevede la nullità sia del licenziamento che delle dimissioni volontarie nel periodo di riferimento né vale ad escludere la nullità la previsione della possibilità di conferma delle dimissioni da parte della lavoratrice all'ufficio del lavoro quarto comma dell'art. 1 suddetto , in quanto quest'ultima disposizione è volta ad evitare che un divieto posto a tutela della lavoratrice si traduca in un danno per la stessa, e non attribuisce, pertanto, alcuna aspettativa a favore del datore di lavoro o di terzi. Ne consegue la non indennizzabilità, ai sensi dell'art. 1381 cc, del promissario per la mancata verificazione del fatto del terzo. In caso di dimissioni presentate dal lavoratore in stato di incapacità naturale, per Cassazione 8886/2010, il diritto a riprendere il lavoro sorge con la sentenza di annullamento ai sensi dell'art. 428 cc, i cui effetti retroagiscono al momento della domanda giudiziaria in applicazione del principio generale secondo cui la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vincitrice. Ne consegue che anche il diritto alle retribuzioni maturate sorge solo dalla data della domanda giudiziale, dovendosi escludere che l'efficacia totalmente ripristinatoria dell'annullamento del negozio unilatelare risolutivo del rapporto di lavoro si estenda al diritto alla retribuzione che, salvo diversa espressa eccezione di legge, non è dovuta in mancanza dell'attività lavorativa. Per Cassazione 57/2009 infine, a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. 29/1993, essendo il c.d. rapporto di pubblico impiego privatizzato regolato dalle norme del codice civile e dalle leggi civili sul lavoro, nonché dalle norme sul pubblico impiego, solo in quanto non espressamente abrogate e non incompatibili, le dimissioni del lavoratore costituiscono un negozio unilaterale recettizio, idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui venga a conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo di accettarle, sicché non necessitano più, per divenire efficaci, di un provvedimento di accettazione da parte della pubblica amministrazione. SEZIONE LAVORO 13 DICEMBRE 2010, N. 25136 LAVORO - LAVORO SUBORDINATO - DIRITTI ED OBBLIGHI DEL DATORE E DEL PRESTATORE DI LAVORO - SUBORDINAZIONE - SANZIONI DISCIPLINARI. Sospensione cautelare - Sospensione disciplinare - Differenze - Conseguenze - Applicabilità dell'art. 7, quarto comma, legge 300/1970 alla sospensione cautelare - Esclusione - Fattispecie relativa ad allontanamento temporaneo di dipendente di istituto di credito. La sospensione prevista dall'art. 7, quarto comma, della legge 300/1970, è un provvedimento di natura disciplinare e si differenzia dalla sospensione cautelare, misura di carattere provvisorio e strumentale all'accertamento dei fatti relativi alla violazione, da parte del lavoratore, degli obblighi inerenti al rapporto, che esaurisce i suoi effetti con l'adozione dei provvedimenti disciplinari definitivi. Ne consegue che alla sospensione cautelare non trova applicazione l'art. 7 della legge 300/1970, che procedimentalizza l'esercizio del solo potere disciplinare del datore di lavoro. Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto - con congrua e logica motivazione - che l'allontanamento temporaneo del dipendente di un istituto di credito, disposto ai sensi dell'art. 36 del contratto collettivo nazionale di settore, costituisse semplice sospensione cautelare per il tempo strettamente necessario per il compiuto e corretto esercizio del potere disciplinare, senza in alcun modo esaurire tale esercizio . In senso conforme si veda Cassazione 16321/2009 per la quale il provvedimento di sospensione dal servizio del dipendente sottoposto a procedimento disciplinare o penale non ha natura di provvedimento disciplinare, in quanto non integra una sanzione, ma configura una misura cautelare di carattere provvisorio finalizzata al soddisfacimento di esigenze datoriali o pubbliche e destinata ad esaurire i suoi effetti allorché, all'esito del procedimento disciplinare, il datore di lavoro adotti le sue determinazioni. Ne consegue che il termine previsto dall'art. 30 del c.c.n.l. del comparto degli enti pubblici non economici del 19 aprile 1995 per l'adozione della misura della sospensione cautelare non ha natura perentoria ma meramente sollecitatoria, dovendosi comunque escludere che il datore di lavoro possa ritardare arbitrariamente l'adozione dei provvedimenti afflittivi. Analogamente in caso di sospensione cautelare dal servizio del lavoratore sottoposto a procedimento penale Cassazione 19169, sulla base di distinzione identica a quella di cui alla massima in rassegna, specifica che si tratta di una misura provvisoria finalizzata ad impedire che, in pendenza di procedimento penale, la permanenza in servizio del dipendente inquisito possa tradursi in un pregiudizio dell'immagine e del prestigio dell'amministrazione di appartenenza. Pertanto nel caso in cui il procedimento penale instaurato nei confronti del pubblico dipendente si concluda con formula non assolutoria e la sanzione disciplinare non assorba il periodo di sospensione cautelare patita, all'impiegato spetta la restitutio in integrum per il periodo di sospensione cautelare sofferta in eccedenza, con deduzione dei periodi di tempo corrispondenti all'irrogata pena detentiva inflitta.