Nel processo penale l’avvocato non può ricorrere alla PEC per comunicazioni e istanze

Pur dando atto di diversi orientamenti giurisprudenziali, la Cassazione conferma l’impossibilità di estendere ai difensori la possibilità di utilizzare la posta elettronica certificata per le comunicazione e le istanze.

Sul tema la Corte di legittimità con la sentenza n. 1056/20, depositata il 14 gennaio. Il fatto. La Corte d’Appello di Firenze confermava la decisione del GIP di Terni con cui l’imputato era stato dichiarato colpevole del reato di detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti. La decisione è stata impugnata con ricorso in Cassazione deducendone la nullità per l’omesso rinvio dell’udienza nonostante il difensore di fiducia avesse comunicato l’adesione all’astensione proclamata dall’UCPI mediante dichiarazione inviata a mezzo PEC. Istanza. Richiamando i più recenti arresti giurisprudenziali, il Collegio ricorda che nel processo penale è inibita alle parti privata l’utilizzazione della PEC per comunicazioni, notificazioni ed istanze in virtù del chiaro disposto normativo di cui all’art. 16, comma 4, d.l. n. 179/2020, conv. in l. n. 221/2012. Esclude dunque l’ammissibilità dell’istanza di rinvio per legittimo impedimento avanzata a mezzo PEC da parte del difensore di fiducia. Il provvedimento dà atto del contrapposto orientamento secondo cui la richiesta di rinvio dell’udienza per legittimo impedimento del difensore inviata a mezzo PEC non è né irricevibile né inammissibile, anche se tale irregolare modalità di trasmissione comporta l’onere per la parte che intenda dolersi in sede di impugnazione dell’omesso esame della sua istanza, di accertarsi della regolare ricezione della mail e della tempestiva sottoposizione al giudice procedente. Onere che peraltro nel caso di specie non risulta soddisfatto. Rimanendo però fedele al dettato normativo, il provvedimento in commento esclude la possibilità di estendere anche ai difensori la possibilità di utilizzare la PEC per comunicazioni od istanze e rigetta dunque il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 25 settembre 2019 – 14 gennaio 2020, n. 1056 Presidente Lapalorcia – Relatore Di Stasi Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 17/12/2018, la Corte di appello di Firenze, pronunciando in sede di giudizio di rinvio, confermava la sentenza del 06/02/2013 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Terni, con la quale N.S. era stato dichiarato responsabile del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, perché deteneva a fini di spaccio complessivamente grammi 511,25 di sostanza stupefacente del tipo hashish e numero dieci piante di marijuana e condannato alla pena di mesi otto di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa. 2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione N.S. , a mezzo del difensore di fiducia, articolando due motivi di seguito enunciati. Con il primo motivo deduce nullità della sentenza ai sensi dell’art. 178 c.p.p. in relazione all’art. 420 ter c.p.p Argomenta che la Corte territoriale aveva deciso la causa in data 17.12.2018 sebbene il difensore di fiducia dell’imputato avesse comunicato di aderire all’astensione proclamata dall’UCPI per i giorni 17 e 18 dicembre, inviando dichiarazione di astensione a mezzo PEC. Con il secondo motivo deduce vizio di motivazione in relazione all’art. 627 c.p.p., comma 3 e art. 133 c.p., esponendo che la Corte territoriale aveva confermato l’entità della pena irrogata in primo grado senza giustificare il proprio convincimento secondo lo schema esplicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, ma argomentando in maniera generica e senza considerare tutti gli elementi positivi enunciati nell’atto di appello. Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata. Considerato in diritto 1. Il primo motivo di ricorso è infondato. Recenti arresti di questa Corte Sez.5, n. 48911 del 01/10/2018, Rv.274160 01 Sez. 5, 15 marzo 2018 dep. 12 luglio 2018, n. 32013, non mass. Sez.4, n. 21056 del 23/01/2018, Rv.272741 01 Sez.2, n. 31314 del 16/05/2017, Rv.270702 Sez.1, n. 18235 del 28/01/2015, Rv.263189 01 Sez.3, n. 7058 del 11/02/2014, Rv.258443 01 si sono espressi affermando il principio di diritto secondo il quale, nel processo penale, alle parti private è inibita l’utilizzazione della posta elettronica certificata per effettuare comunicazioni, notificazioni ed istanze, stante il chiaro tenore della norma di cui al D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 4, conv. in L. n. 221 del 2012, secondo cui Nei procedimenti civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria sono effettuate esclusivamente per via telematica all’indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, secondo la normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Allo stesso modo si procede per le notificazioni a persona diversa dall’imputato a norma dell’art. 148 c.p.p., comma 2-bis, art. 149 c.p.p., art. 150 c.p.p. e art. 151 c.p.p., comma 2. La relazione di notificazione è redatta in forma automatica dai sistemi informatici in dotazione alla cancelleria A tanto consegue, quindi, l’affermazione che è da escludere l’ammissibilità dell’istanza di rinvio per legittimo impedimento avanzata a mezzo della posta elettronica certificata dal difensore di fiducia dell’imputato, poiché il dettato della norma di cui al D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 4, è ostativo ad una estensione ai difensori della possibilità di effettuare comunicazioni e notificazioni e di presentare istanze mediante l’utilizzo della posta elettronica certificata. A tale orientamento, condiviso dal Collegio, si contrappone un diverso orientamento che si fonda sul principio di diritto enunciato da Sez.U, n. 40187 del 27/03/2014, Lattanzio, Rv 259928 con riguardo all’utilizzazione del telefax per inviare al giudice procedente una richiesta di rinvio per legittimo impedimento, dell’imputato o del difensore , secondo il quale la richiesta di rinvio dell’udienza per legittimo impedimento del difensore, inviata a mezzo posta elettronica in cancelleria, non è irricevibile nè inammissibile, anche se l’utilizzo di tale irregolare modalità di trasmissione comporta l’onere per la parte che intenda dolersi in sede di impugnazione dell’omesso esame della sua istanza di accertarsi del regolare arrivo della mail in cancelleria e della sua tempestiva sottoposizione all’attenzione del giudice procedente Sez.4, n. 35683 del 06/06/2018, Rv.273424 01 Sez.6, n. 54427 del 16/10/2018, Rv.274314 01 Sez. 6, n. 35217 del 19/04/2017, Rv. 270912 Sez. 2, n. 47427 del 07/11/2014, Rv. 260963 , onere, peraltro, non adempiuto nella specie, non risultando che l’istanza sia stata portata tempestivamente a conoscenza della Corte di appello prima dell’udienza del 17.12.2018. Deve, però, osservarsi che la genesi e la complessiva disciplina della posta elettronica certificata, induce a conclusioni di segno opposto a quelle raggiunte per le comunicazioni a mezzo fax e non consente altra lettura se non quella che il legislatore, nel processo penale, abbia inteso limitare l’uso del detto strumento di comunicazione alle sole cancellerie. Nel processo civile, infatti, l’art. 366 c.p.c., comma 2, così come previsto dalla L. 12 novembre 2011, n. 183, che ha modificato la L. n. 53 del 1994 , ha introdotto espressamente la PEC quale strumento utile per le notifiche degli avvocati autorizzati. Già il D.M. n. 44 del 2011 aveva disciplinato con maggiore attenzione l’invio delle comunicazioni e delle notifiche in via telematica dagli uffici giudiziari agli avvocati e agli ausiliari del giudice nel processo civile, in attuazione della L. 6 agosto 2008, n. 133, art. 5. In tale contesto assume rilevanza la disposizione di cui all’art. 4, che prevede l’adozione di un servizio di posta elettronica certificata da parte del Ministero della Giustizia, in quanto ai sensi di quanto disposto dalla L. n. 24 del 2010 nel processo civile e nel processo penale, tutte le comunicazioni e notificazioni per via telematica devono effettuarsi, mediante posta elettronica certificata. Quest’ultima disposizione è stata rinnovata dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese , in GU n. 245 del 19-10 2012 Suppl. Ordinario n. 194 , entrato in vigore il 20/10/2012 e convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, dove, all’art. 16, comma 4 già citato, viene sancito Nei procedimenti civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria sono effettuate esclusivamente per via telematica all’indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, secondo la normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Allo stesso modo si procede per le notificazioni a persona diversa dall’imputato a norma dell’art. 148 c.p.p., comma 2-bis, art. 149 c.p.p., art. 150 c.p.p. e art. 151 c.p.p., comma 2. La relazione di notificazione è redatta in forma automatica dai sistemi informatici in dotazione alla cancelleria. . Ed è stato osservato Sez.2, n. 31314 del 16/05/2017, Rv.270702, cit. che la predetta disposizione legislativa indica espressamente la volontà legislativa di consentire l’utilizzo della PEC, nel processo penale, alle sole cancellerie in accordo con il tradizionale canone interpretativo inclusio unius, exdusio alterius e che la conclusiva previsione La relazione di notificazione è redatta in forma automatica dai sistemi informatici in dotazione alla cancelleria evidenzia ulteriormente che l’utilizzo del mezzo è consentito al solo ufficio di cancelleria e non anche alle parti private. In realtà, quindi, ad una lettura che estenda anche ai difensori la possibilità di utilizzare la PEC per le comunicazioni e le istanze, osta il dettato esplicito della norma. La censura difensiva, pertanto, va disattesa. 2. Il secondo motivo di ricorso è infondato. Questa Corte ha già affermato il principio secondo il quale il giudice del merito che debba rivalutare un fatto concernente l’ipotesi lieve di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 dopo lo ius superveniens più favorevole per effetto del D.L. 20 marzo 2014, n. 36, conv. con mod. dalla L. 16 maggio 2014, sia che lo faccia perché la nuova legge è entrata in vigore, a cavallo tra le due pronunce di merito, sia che operi, come nella fattispecie in esame, in sede di giudizio di rinvio dopo che questa Corte di legittimità abbia annullato la sentenza di merito limitatamente alla determinazione della pena non è, in alcun modo vincolato rispetto alle scelte, nell’ambito della pena edittale, operate in precedenza. Lo stesso sarà chiamato a rivalutare il trattamento sanzionatorio in piena autonomia, con l’unico obbligo evidentemente di darne conto congruamente e logicamente in motivazione e con l’unico limite, in assenza del ricorso della parte pubblica, del divieto di reformatio in peius, da intendersi nel senso di non poter irrogare una pena superiore nel quantum finale a quella irrogata dal primo giudice. E ben può accadere, quindi, che alla fine pervenga alla conclusione che il trattamento sanzionatorio irrogato in precedenza sia adeguato Sez.2, n. 41774 del 28/06/2016,Rv.268275 01 Sez. 4,n. 44799 del 08/10/2015, Rv.265761 01 Sez.3, n. 43594 del 09/09/2015, Rv.265271 01 . Tale orientamento, pienamente condivisibile, si pone in continuità con quanto già affermato da questa Corte Suprema nell’analoga situazione che ha interessato l’applicazione in sede di appello o di rinvio della reviviscente e più favorevole disciplina in materia di droghe c.d. leggere dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 32/2014, laddove si è affermato che il giudice di appello quale giudice di merito di secondo grado ovvero quale giudice di rinvio non è vincolato a rimodulare la sanzione secondo la stessa proporzione adottata dal giudice di prime cure rispetto ai minimi edittali detentivi e pecuniari previgenti, potendo egli determinarla discrezionalmente, con riferimento ai criteri di cui agli artt. 132 c.p. e ss., nell’ambito della più lieve cornice edittale tornata in vigore, con il solo limite nell’ipotesi di appello proposto dal solo imputato del divieto di reformatio in peius , da intendersi nel senso di non poter irrogare una pena superiore nel quantum finale a quella irrogata dal primo giudice cfr. sez. 3, n. 23952 del 30.4.2015, Di Pietro ed altri,Rv. 263849 sez. 3, n. 33396 del 24.4.2015, Calvigioni, Rv. 264195 . Nella specie, la Corte di appello, in linea con il suesposto principio di diritto, ha evidenziato, in maniera congrua e logica, le ragioni per le quali è pervenuta alla conclusione che il trattamento sanzionatorio irrogato in precedenza sia adeguato, richiamando la gravità del fatto, apprezzata sia in relazione alle modalità dell’azione che con riferimento al rilevante quantitativo di sostanza stupefacente, idoneo al confezionamento di oltre duemila dosi. La censura difensiva, pertanto, non può trovare accoglimento. 3. Consegue il rigetto del ricorso e, in base al disposto dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.