Il certificato dello stato di famiglia fa presumere l’accettazione tacita dell’eredità?

Nel caso di azione proposta da un soggetto che si qualifichi erede in virtù di un determinato rapporto parentale o di coniugio, la produzione del certificato dello stato di famiglia è idonea a dimostrare l’allegata relazione familiare e, dunque, la qualità di soggetto che deve ritenersi chiamato all’eredità, ma non anche la qualità di erede, posto che essa deriva dall’accettazione espressa o tacita, non evincibile dal certificato. Tuttavia,

Nell’ambito di una controversia avente ad oggetto la richiesta avanzata nei confronti del Comune per l’accertamento del loro diritto all’assegnazione in proprietà a titolo gratuito degli alloggi loro assegnati, i ricorrenti hanno proposto ricorso per cassazione rimproverando alla Corte territoriale di aver ritenuto passata in giudicato la decisione del Tribunale nei confronti di due assegnatari, perché non avevano proposto appello, senza considerare che per uno di essi l’atto di appello era stato introdotto dall’ erede , la cui qualità, risultante dal certificato di morte e dallo stato di famiglia, non era stata contestata e che l’esplicazione da parte sua di un’attività incompatibile con la volontà di rinuncia integrava gli estremi dell’accettazione tacita. Esaminato il ricorso, la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 210/21, lo ha ritenuto fondato, affermando che nel caso di azione proposta da un soggetto che si qualifichi erede in virtù di un determinato rapporto parentale o di coniugio, la produzione del certificato dello stato di famiglia è idonea a dimostrare l’allegata relazione familiare e, dunque, la qualità di soggetto che deve ritenersi chiamato all’eredità, ma non anche la qualità di erede, posto che essa deriva dall’accettazione espressa o tacita, non evincibile dal certificato . Tuttavia, prosegue la Corte, tale produzione, unitamente alla allegazione della qualità di erede, costituisce una presunzione iuris tantum dell’intervenuta accettazione tacita dell’eredità , atteso che l’esercizio dell’azione giudiziale da parte di un soggetto che si deve considerare chiamato all’eredità, e che si proclami erede, va considerato come atto espressivo di siffatta accettazione e, quindi, idoneo a considerare dimostrata la qualità di erede . Pertanto, sulla scorta di tali principi, secondo la Cassazione la statuizione errata relativa al passaggio in giudicato della sentenza di prime cure relativamente all’erede dell’assegnataria deve essere cassata e la fondatezza della censura esclude il passaggio in giudicato della sentenza di prime cure nei suoi confronti.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 9 novembre 2020 – 11 gennaio 2021, n. 210 Presidente Vivaldi – Relatore Gorgoni Rilevato che S.P.R. , L.G. , M.A. , C.E. , in qualità di erede di C.N. , Mo.Ro. , A.L. , in qualità di erede di Ma.Fr. , e P.A.M. ricorrono per la cassazione della sentenza n. 341/2018 della Corte d’Appello di Potenza del 18 maggio 2018, depositata il 29 maggio 2018, non notificata, deducendo tre vizi di legittimità, illustrati con memoria. Resiste con controricorso il Comune di Potenza. Con atto di citazione del 24 maggio 2004 gli odierni ricorrenti, insieme con La.Gi. , T.A. e Pa.Ca. , nella veste di assegnatari di alloggi siti in omissis , realizzati con fondi della L. n. 219 del 1981, convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Potenza, il Comune di Potenza e l’Agenzia del Territorio di Potenza, perché a fosse accertato e dichiarato il loro diritto all’assegnazione in proprietà a titolo gratuito degli alloggi loro assegnati e delle parti comuni, ai sensi del D.L. n. 244 del 1995, art. 21 bis, convertito in L. n. 341 del 1995 b fosse ordinato al Comune di astenersi da qualsiasi atto e/o procedimento lesivo di tale loro diritto c l’Agenzia del Territorio di Potenza provvedesse alla stipula in loro favore degli atti di cessione in proprietà gratuita degli alloggi loro assegnati. Il Comune di Potenza riconosceva che gli attori erano assegnatari degli alloggi realizzati con i fondi di cui alla L. n. 219 del 1981, ma escludeva il loro diritto di vedersene attribuita a titolo gratuito la proprietà, perché, ai sensi della L. n. 341 del 1995, art. 21 bis, tale diritto presupponeva che gli alloggi fossero costruiti dallo Stato, che fossero prefabbricati, che fossero formalmente assegnati mancando dette condizioni riteneva che gli assegnatari/attori vantassero solo il diritto all’esercizio del riscatto previsto dal Regolamento della Commissione di Liquidazione del Comune di Potenza del 3 dicembre 2001. L’Agenzia del Territorio di Potenza restava contumace. Il Tribunale di Potenza, con la decisione n. 658/2008, rigettava la domanda attorea, perché riteneva che gli alloggi occupati non potessero essere oggetto di cessione a titolo gratuito, non essendo stati realizzati con i fondi di cui alla L. n. 291 del 1981, bensì dal Comune per il tramite dei fondi erogati dalla Cassa Depositi e prestiti, e che non avessero le caratteristiche dei prefabbricati. Censurando la statuizione con cui il giudice di prime cure aveva ritenuto che gli alloggi di cui erano assegnatari non rientrassero tra quelli costruiti dallo Stato, ai sensi della L. n. 219 del 1981, e che non avessero i caratteri dei prefabbricati, gli attori già soccombenti in primo grado, investivano la Corte d’Appello di Potenza del gravame avverso decisione del Tribunale. La Corte territoriale, con la decisione oggetto dell’odierno ricorso, rigettava l’appello e regolava le spese di lite, ritenendo che, pur rientrando gli alloggi per cui è causa tra quelli realizzati dallo Stato, posto che il Comune di Potenza aveva agito su autorizzazione del Commissario straordinario per le zone terremotate e con finanziamenti erogati a tale specifico scopo, essi non avessero i caratteri di cui al D.L. n. 75 del 1991, art. 2, lett. b. Considerato che 1. Con il primo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, i ricorrenti rimproverano alla Corte territoriale di aver violato e/o falsamente applicato gli artt. 110, 167, 171, 476 c.c., art. 346 c.p.c. e art. 111 Cost La sentenza d’appello aveva ritenuto passata in giudicato la decisione di prime cure nei confronti di Pe.Gi. e Ma.Fr. , perché non avevano proposto appello, senza considerare che per parte di Ma.Fr. l’atto di appello era stato introdotto da A.L. , nella qualità di erede di Ma.Fr. , come risultante dal certificato di morte e dallo stato di famiglia, che la sua qualità di erede non era stata contestata, che la esplicazione da parte del chiamato di un’attività incompatibile con la volontà di rinunciare e non rientrante in quella conservativa del patrimonio del de cuius integra gli estremi dell’accettazione tacita. Il motivo è fondato. Nel caso di azione proposta da un soggetto che si qualifichi erede in virtù di un determinato rapporto parentale o di coniugio, la produzione del certificato dello stato di famiglia è idonea a dimostrare l’allegata relazione familiare e, dunque, la qualità di soggetto che deve ritenersi chiamato all’eredità, ma non anche la qualità di erede, posto che essa deriva dall’accettazione espressa o tacita, non evincibile dal certificato tuttavia, tale produzione, unitamente alla allegazione della qualità di erede, costituisce una presunzione iuris tantum dell’intervenuta accettazione tacita dell’eredità, atteso che l’esercizio dell’azione giudiziale da parte di un soggetto che si deve considerare chiamato all’eredità, e che si proclami erede, va considerato come atto espressivo di siffatta accettazione e, quindi, idoneo a considerare dimostrata la qualità di erede Cass. 26/06/2018, n. 16814 . La statuizione errata relativa al passaggio in giudicato della sentenza di prime cure relativamente a Ma.Fr. va pertanto cassata. La fondatezza della censura esclude il passaggio in giudicato della sentenza di prime cure nei confronti di Ma.Fr. . Peraltro, per le ragioni che si vanno ad esporre con l’esame degli ulteriori motivi, tale conclusione non incide sull’esito complessivo del ricorso per cassazione. A.L. quale erede di Ma.Fr. , infatti, propose insieme con gli odierni ricorrenti l’appello che fu rigettato. La stessa ha proposto ricorso per cassazione - sempre unitamente agli altri odierni ricorrenti - contestando con le censure che si vanno ad esaminare con i motivi secondo e terzo le conclusioni della Corte d’Appello. Tali conclusioni però non sono condivisibili. 2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 224 del 1995, art. 21 bis, convertito in L. n. 341 del 1995, come successivamente modificata dalla L. n. 148 del 2005, del D.L. n. 75 del 1981, convertito in L. n. 219 del 1981, artt. 112, 115 e 116 c.p.c., per avere la Corte d’Appello ritenuto che gli alloggi loro assegnati non fossero quelli previsti dalla L. n. 341 del 1995, art. 21 bis, cioè abitazioni mobili e ad elementi componibili da riservare alle famiglie colpite dal sisma, atteso che per detti immobili era prevista l’assegnazione formale e non la locazione ai sensi della L. n. 392 del 1978. Il motivo è inammissibile. La censura, benché introdotta attraverso la deduzione di un error in iudicando, sollecita un diverso accertamento dei fatti che è incompatibile con i caratteri e con i limiti del giudizio di legittimità, perché la Corte di Cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale, ma esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. Va altresì osservato che il vizio di violazione di legge, consistendo in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa, avrebbe richiesto non solo la puntuale indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche la deduzione di specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina. 3. Con il terzo ed ultimo motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e/o falsa applicazione del D.L. n. 341 del 1995, art. 21 bis, convertito in L. n. 341 del 1995, del D.L. n. 75 del 1981, convertito in L. n. 219 del 1981, artt. 112, 115 e 116 c.p.c., per avere la sentenza impugnata disatteso, perché generico, il motivo di appello con cui, a confutazione di quanto ritenuto dal giudice di prime cure, avevano dedotto la natura prevalentemente provvisoria ed amovibile degli alloggi di cui erano assegnatari. Tale motivo presenta caratteristiche analoghe a quelle del motivo precedente, sicché ad esso si confanno le stesse conclusioni. Ancor più evidente è, infatti, il tentativo dei ricorrenti di ottenere una rivalutazione di quanto, già oggetto di accertamento del giudice a quo, aveva indotto quest’ultimo a ritenere generiche le censure mosse alla sentenza del Tribunale genericità che aveva portato all’inammissibilità del motivo di appello in maniera, peraltro, non assertiva, bensì supportata da specifici rilievi mossi agli argomenti confutativi degli appellanti, odierni ricorrenti. 4. In definitiva, il ricorso è rigettato. 5. Non deve provvedersi alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità, attesa la tardività del controricorso. La sentenza è stata, infatti, depositata il 29 maggio 2018 il ricorso risulta notificato il 7 dicembre 2018 il controricorso del Comune di Potenza è stato consegnato all’Ufficiale giudiziario il 26 febbraio 2019, quindi ben oltre il termine di cui all’art. 370 c.p.c 6. Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello corrisposto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.