Opposizione a precetto per mancato pagamento del mantenimento al figlio: non possono farsi valere fatti sopravvenuti

Con l’opposizione a precetto per mancato pagamento dell’assegno di mantenimento al figlio, non possono essere dedotti fatti sopravvenuti, da farsi valere solo con l’apposito procedimento di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.

È quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 27602/20, depositata il 3 dicembre. La vicenda. Un coniuge propone ricorso in Cassazione avverso la pronuncia, ribadita in Corte d’Appello, di rigetto dell’opposizione a precetto, notificatogli dalla ex moglie per mancato pagamento dell’assegno di mantenimento stabilito dal Giudice della separazione in favore del figlio. Con il primo motivo di ricorso, l’ex marito deduce la mancanza di legittimazione ad agire della madre per l’assegno di mantenimento da corrispondere al figlio divenuto maggiorenne. Oltretutto fa presente la sussistenza di un patto tacito con il figlio, per cui – proprio in ragione del suo mantenimento - quest’ultimo era stato assunto presso l’azienda del padre. Fatti sopravvenuti, rilevabili solo con revisione delle condizioni di separazione. La censura in esame, secondo la Cassazione, non risulta idonea a mettere in discussione la decisione dei Giudici di merito, in quanto trattasi di questioni che non possono essere fatte valere con l’opposizione a precetto, nell’ambito della quale può dedursi solo ciò che riguarda la validità e l’efficacia del titolo non anche eventuali fatti sopravvenuti, per i quali occorre invece proporre domanda di modifica delle condizioni di separazione o divorzio, ex art. 710 c.p.c. o ex art. 9 l. n. 898/1970. Pertanto, per i suesposti fatti, il ricorrente avrebbe dovuto attivare la menzionata procedura di revisione nella specie, del provvedimento sul contributo di mantenimento del figlio , riservata al giudice della separazione o del divorzio, a tutela del superiore interesse pubblicistico di composizione della crisi familiare e dunque di rilevanza per l’ordine pubblico. Figlio maggiorenne, legittimazione del genitore ad agire. In ordine alla legittimazione ad agire in capo al genitore del figlio maggiorenne, gli Ermellini - secondo un orientamento ormai costante - la ritengono sussistente nel caso in cui il figlio maggiorenne non eserciti il diritto e non sia autosufficiente. Condizioni entrambe rinvenute nel caso di specie, secondo un apprezzamento di fatto dei Giudici di merito, incensurabile in sede di legittimità d’altra parte la questione dell’intervenuta assunzione del figlio presso la ditta del padre è stata prospettata solo con l’impugnazione. Alla luce di quanto esposto, la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, ordinanza 15 ottobre – 3 dicembre 2020, n. 27602 Presidente Amendola – Relatore Valle Osserva Quanto segue V.L. impugna, con atto affidato a tre motivi, sentenza della Corte di Appello di Messina, di conferma della sentenza del Tribunale della stessa sede di rigetto dell’opposizione al precetto di oltre Euro centotrentamila, notificatogli ad istanza da D.M. per assegno di mantenimento del figlio della coppia, per il quinquennio precedente l’atto di intimazione. D.M. resiste con controricorso. La proposta di definizione in sede camerale, non partecipata, è stata ritualmente comunicata alle parti. La sola parte ricorrente ha depositato memoria per l’adunanza del 15/10/2020. I motivi di ricorso così censurano la sentenza d’appello. Il primo mezzo deduce violazione degli artt. 81, 100 e 161 c.p.c. e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per avere i giudici di merito ritenuto sussistente la legittimazione della D. a richiedere l’assegno di mantenimento del figlio C. pur essendo questo maggiorenne. Il secondo motivo deduce errore procedurale per violazione degli artt. 115 e 116 in relazione agli all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non avendo la Corte di merito valutato la sussistenza di un accordo di fatto sussistente tra V.L. e V.C. in ordine al mantenimento. Il terzo mezzo deduce violazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4. I primi due motivi di ricorso sono inammissibili. Essi, attinenti alla legittimazione ad agire della madre per l’assegno di mantenimento del figlio e alla sussistenza di un patto tra V.L. e V.C. in forza del quale il figlio era stato assunto presso l’azienda del padre, possono essere congiuntamente scrutinati. Il Tribunale e la Corte di Appello di Messina hanno respinto l’opposizione a precetto affermando che permane la legittimazione della madre la D. a chiedere il pagamento dell’assegno anche se il figlio è divenuto maggiorenne e che in ogni caso si tratterebbe di questioni da far valere non con l’opposizione a precetto bensì con domanda di modifica delle condizioni fissate nella sentenza di divorzio e ciò anche se il figlio, divenuto maggiorenne, abbia una propria fonte di reddito in risultanza di accordo tacito con il padre che l’avrebbe assunto presso una propria azienda prima. I motivi all’esame non censurano adeguatamente il detto percorso motivazionale. I provvedimenti di merito hanno deciso la controversia conformemente alla giurisprudenza di questa Corte e i motivi di ricorso non valgono a far propendere per una modifica dell’orientamento in base al quale in sede di opposizione non possono essere fatte valere questioni che dovrebbero essere fatte valere in sede di modifica delle condizioni di divorzio da ultimo, quale espressione di un orientamento costante, cfr. Cass. n. 17689 del 02/07/2019 Rv. 654560 - 01 Con l’opposizione aì precetto relativo a crediti maturati per il mancato pagamento dell’assegno di mantenimento, determinato a favore del figlio in sede di separazione o di divorzio, possono essere dedotte soltanto questioni relative alla validità ed efficacia del titolo e non anche fatti sopravvenuti, da farsi valere col procedimento di modifica delle condizioni della separazione di cui all’art. 710 c.p.c. o del divorzio di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 9. Ribadendo il principio di cui in massima, la S.C. ha sottolineato che, nella specie, il fatto sopravvenuto costituito dalla collocazione del minore presso il padre non aveva privato il titolo esecutivo in materia di famiglia di efficacia e validità in quanto assistito da un’attitudine al giudicato, cd. rebus sic stantibus , riguardo alla quale i fatti sopravvenuti potevano rilevare soltanto attraverso la speciale procedura di revisione del provvedimento sul contributo del mantenimento del figlio, devoluta al giudice della separazione o del divorzio e a questi riservata a tutela del superiore interesse pubblicistico di composizione della crisi familiare, rilevante per l’ordine pubblico . In ordine al permanere della legittimazione del genitore anche nel caso in cui il figlio sia divenuto maggiorenne si veda parimenti la giurisprudenza di legittimità, che la ritiene sussistente nel caso in cui il figlio, maggiorenne, non eserciti il diritto e non sia autosufficiente da ultimo Cass. n. 17380 del 20/08/2020 Rv. 658717 - 01 , condizioni ritenute entrambi sussistenti nel caso di specie dai giudici di merito sulla base di apprezzamento di fatto loro competente e con pronuncia corretta di inammissibilità della questione dell’intervenuta assunzione del figlio presso l’azienda del padre, in quanto prospettata soltanto in sede di impugnazione. I primi due motivi del ricorso sono, pertanto, inammissibili. Il terzo motivo è del pari inammissibile. La denuncia di violazione della norma di cui all’art. 91 c.p.c., comma 1, in questa sede di legittimità trova ingresso solo quando le spese siano poste a carico della parte integralmente vittoriosa Cass. n. 18128 del 31/08/2020 Rv. 658963 - 01 In materia di spese giudiziali, il sindacato di legittimità trova ingresso nella sola ipotesi in cui il giudice di merito abbia violato il principio della soccombenza ponendo le spese a carico della parte risultata totalmente vittoriosa, e ciò vale sia nel caso in cui la controversia venga decisa in ognuno dei suoi aspetti, processuali e di merito, sia nel caso in cui il giudice accerti e dichiari la cessazione della materia del contendere e sia, perciò, chiamato a decidere sul governo delle spese alla stregua del principio della cosiddetta soccombenza virtuale . e tanto non è dato cogliere dal motivo all’esame. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Le spese di lite di questa fase di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo, tenuto conto del valore della controversia. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, che liquida in Euro 6.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario al 15%, oltre CA e IVA per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.