Assegno divorzile e contestazione dei dati reddituali della parte

In tema di divorzio, l'art. 5, comma 9, l. n. 898/1970 non impone al Tribunale in via diretta ed automatica di disporre indagini avvalendosi della polizia tributaria ogni volta in cui sia contestato un reddito indicato e documentato, ma rimette allo stesso giudice la valutazione di detta esigenza, in forza del principio generale dettato dall'art. 187 c.p.c., che affida al giudice la facoltà di ammettere i mezzi di prova proposti dalle parti e di ordinare gli altri che può disporre d'ufficio, previa valutazione della loro rilevanza e concludenza.

Pertanto, la valutazione delle prove è rimessa, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., al prudente apprezzamento del giudicante e non può ritenersi in alcun modo condizionata dalla scelta, parimenti discrezionale, di disporre, d’ufficio o su istanza di parte, indagini patrimoniali tramite polizia tributaria al fine di procedere al doveroso accertamento dei fatti rilevanti per la decisione. Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 9535/19, depositata il 4 aprile. Il caso. Il Tribunale della Spezia aveva dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto tra due coniugi e aveva disposto che l’uomo versasse all’ex moglie un assegno divorzile pari a duemila euro mensili. Avverso la pronuncia di primo grado l’ex marito proponeva ricorso dinanzi alla Corte di Appello di Genova, chiedendo che fosse escluso l’obbligo di versare, mensilmente, a favore dell’ex coniuge, qualsiasi assegno divorzile. La Corte territoriale si pronunciava nel 2016 con sentenza, confermando la decisione di primo grado e, dunque, l’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile nei confronti della signora, da parte dell’ex marito, nella misura già pattuita, almeno fino a quando la donna non fosse entrata in possesso di una cospicua somma di denaro, a lei riconosciuta con sentenza definitiva, a titolo di utile come associata in partecipazione nella farmacia dell’ex marito. Avverso la sentenza di secondo grado l’uomo proponeva ricorso per Cassazione sulla base di tre motivi. La donna resisteva in giudizio con controricorso. Motivi di impugnazione. Con il primo motivo di ricorso l’uomo si doleva del fatto che la Corte genovese non avesse considerato - nello stabilire l’entità dell’assegno divorzile a favore della signora – il godimento totale ed esclusivo della casa coniugale da parte della donna, il suo totale disinteresse al mondo del lavoro dopo la separazione, il grado di formazione professionale e il bagaglio di esperienze maturato dalla stessa negli anni di lavoro presso la farmacia dell’ex coniuge e l’esigua durata della sua attività lavorativa in rapporto alla vita lavorativa media di una donna. Con il secondo motivo il ricorrente evidenziava come la Corte d’Appello non avesse tenuto conto del credito della donna quale associata in partecipazione, né che la stessa aveva omesso di versare il conguaglio dovuto a seguito dell’assegnazione in sua proprietà esclusiva dell’ex casa coniugale, che era stato trattenuto in acconto di quanto dovutole, né avesse considerato il fatto che l’immobile abitativo di pregio, già appartenente all’uomo, era stato venduto all’asta su impulso della signora. Con il terzo motivo, infine, lamentava il fatto che la Corte territoriale avesse negato l’attendibilità della dichiarazione dei redditi dell’appellante, senza disporre indagini al riguardo, basando le proprie valutazioni soltanto sull’assetto economico relativo alla separazione. Osservazioni della Corte di Cassazione. I Supremi Giudici ribadiscono un principio già affermato in una precedente pronuncia di legittimità, ad avviso della quale in sede di determinazione dell'assegno di divorzio, l'occupazione di fatto di un immobile da parte del coniuge configura utilità che fuoriesce dall'ambito valutativo proprio dei valori legalmente posseduti da ciascuno dei coniugi, rimanendo la difficoltà di liberazione dell'immobile da parte del suo proprietario un dato di fatto estraneo alla ponderazione delle rispettive posizioni patrimoniali e reddittuali. Con riguardo al secondo motivo del ricorso, la Suprema Corte, evidenziando come di tali questioni non si fosse fatto minimamente cenno nella sentenza impugnata, afferma che, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni comportanti accertamenti in fatto di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo allegare l'avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione. Infine, i Giudici Supremi affermano che, in tema di divorzio, l'art. 5, comma 9, l. n. 898/1970, non impone al Tribunale in via diretta ed automatica di disporre indagini avvalendosi della polizia tributaria ogni volta in cui sia contestato un reddito indicato e documentato, ma rimette allo stesso giudice la valutazione di tale esigenza, in forza del principio generale dettato dall'art. 187 c.p.c., che affida al giudice la facoltà di ammettere i mezzi di prova proposti dalle parti e di ordinare gli altri che può disporre d'ufficio, previa valutazione della loro rilevanza e concludenza. La valutazione delle prove è rimessa, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., al prudente apprezzamento del giudicante e non può ritenersi in alcun modo condizionata dalla scelta, parimenti discrezionale, di disporre, d’ufficio o su istanza di parte, indagini patrimoniali tramite polizia tributaria al fine di procedere al doveroso accertamento dei fatti rilevanti per la decisione. Conclusione. I Giudici della Prima Sezione civile della Corte di Cassazione, con la sentenza in oggetto, rigettano il ricorso e condannano il ricorrente al rimborso delle spese relative al giudizio di legittimità. Danno atto altresì della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 12 febbraio – 4 aprile 2019, n. 9535 Presidente Giancola – Relatore Pazzi Fatti di causa 1. Il Tribunale della Spezia, dopo aver pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto fra F.F. e V.A. , disponeva che quest’ultimo corrispondesse all’ex coniuge un assegno divorzile pari a Euro 2.000 mensili. 2. La Corte d’appello di Genova, adita su iniziativa del V. al fine di escludere l’obbligo di versamento di qualsiasi assegno di divorzio, rilevava che l’età della F. rendeva insussistente la sua capacità lavorativa, reputava scarsamente convincente la documentazione relativa ai redditi percepiti dal V. e, tralasciate le somme percepite in sede esecutiva dall’appellata a titolo di arretrati dell’assegno di mantenimento e spese legali, confermava l’obbligo dell’appellante di versare l’assegno divorzile nella misura già fissata ciò fino a quando la ex moglie non sarebbe stata in possesso della somma di Euro 800.000, a lei riconosciuta con sentenza oramai definitiva a titolo di utile come associata in partecipazione nella farmacia del V. . 3. Per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso V.A. prospettando tre motivi di doglianza, ai quali ha resistito con controricorso F.F. . La sesta sezione di questa Corte, inizialmente investita della decisione della controversia, ha rimesso la causa a questa sezione per la trattazione in pubblica udienza. Parte controricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c Ragioni della decisione 4.1 Il primo motivo denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 10 L. n. 74 del 1987, modificativo del disposto della L. n. 898 del 1970, art. 5 la corte distrettuale, pur essendo tenuta a valutare l’intera consistenza del patrimonio dei due coniugi ricomprendendovi qualsiasi utilità suscettibile di valutazione economica, non avrebbe considerato, al fine di determinare l’entità dell’assegno di divorzio facendo applicazione dei criteri previsti dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, il totale ed esclusivo godimento della casa coniugale, il completo disinteresse della F. al mondo del lavoro dopo la separazione, il grado di formazione professionale e il bagaglio di esperienza dalla stessa maturato negli anni di lavoro presso la farmacia di famiglia e l’esigua durata della sua attività lavorativa in rapporto alla vita lavorativa media di una donna. 4.2 Il motivo non è fondato, non essendo ravvisabile il vizio di violazione di legge ipotizzato dal ricorrente. La corte territoriale infatti ha diffusamente motivato in ordine allo sproporzionato differenziale economico - patrimoniale esistente fra i coniugi, considerando in particolare - rispetto al momento della pronuncia, quale epoca a cui il giudice deve far riferimento ai fini dell’individuazione delle condizioni per riconoscere il diritto alla percezione dell’assegno divorzile - il venir meno della capacità lavorativa dell’appellata a motivo dell’età oramai raggiunta. Nessuna censura può poi essere mossa rispetto alla mancata valorizzazione del godimento della casa familiare, non solo perché la conferma delle considerazioni compiute dal primo giudice - che già aveva tenuto conto del fatto che la donna abitasse nella casa familiare senza nulla corrispondere all’ex coniuge - implica l’implicita condivisione delle valutazioni dallo stesso compiute a questo specifico riguardo, ma soprattutto perché la stessa giurisprudenza evocata dall’odierno ricorrente Cass. 223/2016 chiarisce che l’uso di una casa di abitazione determinante un risparmio di spesa deve sì essere considerato ai fini di individuare la consistenza patrimoniale di ciascuno dei coniugi, salvo però che l’immobile sia occupato in via di mero fatto, trattandosi in questo caso di una situazione precaria ed essendo le difficoltà di liberazione un aspetto estraneo alla ponderazione delle rispettive posizioni patrimoniali e reddituali. 4.2 Il secondo mezzo lamenta la violazione o falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5 la corte territoriale, benché nell’accertamento del diritto all’emolumento dovesse mettere a confronto le rispettive potenzialità economiche, intese non solo come disponibilità attuali di beni e introiti ma anche come attitudini a procurarsene in grado ulteriore, non aveva tenuto in alcun conto il credito della F. quale associata in partecipazione - trascurando in particolare di considerare che la stessa aveva omesso di versare il conguaglio dovuto a seguito dell’assegnazione in sua proprietà esclusiva della ex casa coniugale, che era stato trattenuto in acconto di quanto dovutole, e aveva già incamerato in sede esecutiva la somma di Euro 113.191,39 -, così come non aveva considerato che l’immobile abitativo di pregio ubicato in XXXXXXXX già appartenente al V. era stato venduto all’asta su impulso della ex moglie. 4.3 Il motivo è inammissibile. Il ricorrente sostiene che il credito della F. quale associata in partecipazione della farmacia del marito sarebbe stato già parzialmente incassato tramite compensazione con il conguaglio dovuto o in via esecutiva, aggiungendo poi che l’immobile attribuito al V. dai giudici di merito in realtà non era più di sua proprietà. La sentenza impugnata tuttavia non fa il minimo cenno a simili questioni, che dalla lettura decisione non risulta fossero state poste dal reclamante al vaglio del giudice di appello né dalla narrativa del ricorso per cassazione, come pure dallo svolgimento dei motivi, risulta che l’appellante, nel corso del giudizio di merito, avesse allegato simili circostanze. Al riguardo non può quindi che trovare applicazione il principio secondo cui, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni comportanti accertamenti in fatto di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione Cass. 6089/2018, Cass. 23675/2013 . 5.1 Con il terzo motivo la sentenza impugnata è censurata per violazione e falsa applicazione della L. n. 74 del 1987, art. 10, modificativo del disposto della L. n. 898 del 1970, art. 5, ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio la Corte d’appello - erroneamente qualificando il V. , titolare di una farmacia, come professionista piuttosto che come commerciante - si sarebbe limitata a negare l’attendibilità della dichiarazione dei redditi dell’appellante, senza disporre alcuna indagine al riguardo e basando le proprie valutazioni unicamente sull’assetto economico relativo alla separazione. 5.2 Il motivo è in parte infondato, in parte inammissibile. La L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9, non impone al Tribunale in via diretta e automatica di disporre indagini avvalendosi della polizia tributaria ogni volta in cui sia contestato un reddito indicato e documentato, ma rimette allo stesso la valutazione di detta esigenza, in forza del principio generale dettato dall’art. 187 c.p.c., che affida al giudice la facoltà di ammettere i mezzi di prova proposti dalle parti e ordinare gli altri che può disporre d’ufficio, previa valutazione della loro rilevanza e concludenza Cass. 7435/2002 . Va poi escluso che esista un rapporto di correlazione necessaria, come pretende il ricorrente, fra l’esito dell’apprezzamento della congerie istruttoria disponibile e l’esercizio del potere discrezionale di svolgere, d’ufficio o su istanza di parte, indagini patrimoniali tramite la polizia tributaria, nel senso che in tanto il giudicante possa qualificare come inattendibili le dichiarazioni reddituali a lui prodotte in quanto egli abbia disposto indagini patrimoniali al riguardo. Una simile interpretazione pretende di far discendere la valutazione delle dichiarazioni dei redditi e delle prove documentali relative ai redditi delle parti non dallo scrutinio che ne faccia il giudice, ma dal risultato delle indagini esperite. Al contrario anche in queste controversie la valutazione delle prove è rimessa, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., al prudente apprezzamento del giudicante e non può ritenersi in alcun modo condizionata dalla scelta, parimenti discrezionale, di disporre, d’ufficio o su istanza di parte, indagini patrimoniali tramite polizia tributaria al fine di procedere al doveroso accertamento dei fatti rilevanti per la decisione. Infine la doglianza tesa a criticare l’erroneo riferimento alle statuizioni patrimoniali operanti in vigenza della separazione dei coniugi è priva di qualsiasi correlazione con la sentenza impugnata, la quale, al contrario, ha fatto riferimento ai ricavi delle vendite - tenendo così ben presente il fatto storico denunciato come trascurato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 - rappresentate nella dichiarazione dei redditi per l’anno 2008 e ai redditi dichiarati per l’anno 2010 piuttosto che agli obblighi di mantenimento operanti nel regime di separazione. 6. In forza dei motivi sopra illustrati il ricorso deve essere pertanto respinto. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 6.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri titoli identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.