Negata la richiesta dall’ex moglie di ottenere la metà dei proventi dell’ex marito

In tema di scioglimento della comunione legale rientrano nella comunione de residuo una serie di beni, tra i quali i proventi dell’attività separata di impresa di uno dei coniugi. Nella fattispecie, però, l’ex moglie non prova che gli introiti del marito sono tali da rientrare nella comunione differita.

Sul punto la Cassazione con ordinanza n. 773/18, depositata il 15 gennaio. Il caso. La Corte d’Appello di Roma respingeva il gravame proposto dall’appellante avverso la decisione di prime cure che aveva accolto la domanda di declaratoria di scioglimento della comunione legale dei coniugi a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale. Avverso la decisione di merito l’ex moglie ricorre per cassazione lamentando violazione degli artt. 177 Oggetto della comunione e 2697 c.c. Onere della prova . Sostiene la ricorrente, con il primo motivo di ricorso, che la Corte territoriale abbia omesso di rilevare l’assenza di prova da parte dell’ex marito circa l’effettiva consumazione, in favore dei bisogni della famiglia, dei redditi derivanti da un attività negli anni successivi alla separazione. Comunione de residuo. Secondo la ricorrente detti proventi sarebbero dovuti rientrare nella comunione de residuo e spettare al 50 % alla medesima. La Suprema Corte ha ritenuto inammissibile la censura in quanto la comunione de residuo o differita si costituisce su una serie di beni frutti dei beni propri, proventi dell’attività separata e beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi, costituita dopo il matrimonio, e degli incrementi di impresa, pur costituita precedentemente solo se ancora esistenti al momento dello scioglimento della comunione. Il coniuge vanta nei confronti dell’atro il diritto di ottenere la metà del residuo . Ciò posto nella fattispecie non vi è prova del fatto che allo scioglimento della comunione permanevano dei proventi dell’attività imprenditoriale svolta dal marito, destinati a cadere nella comunione de residuo. Infatti, secondo la Cassazione, nei giudizi di merito non è dimostrato quanto detto e per questo la censura non coglie la ratio decidendi della decisione impugnata. La Corte ha rigettato, anche il relazione agli altri motivi, il ricorso condannando la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 30 novembre 2017 – 15 gennaio 2018, n. 773 Presidente Cristiano – Relatore Iofrida Fatti di causa La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 526/2014, ha respinto il gravame di R.E.T. avverso la decisione di primo grado, che aveva parzialmente accolto domanda della R. , nei confronti di P.M. , di declaratoria di scioglimento della comunione legale tra i coniugi, stante il passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale, riconoscendo come facenti parte della stessa solo alcuni dei beni indicati in citazione. La R. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, nei confronti del P. che resiste con controricorso . Ragioni della decisione 1.La ricorrente lamenta, con il primo motivo, sia l’omesso esame, ex articolo 360 n. 5 c.p.c., circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, sia la violazione e/o falsa applicazione, ex articolo 360 n. 3 c.p.c., degli artt. 177 lett. b e c e 2697 c.c., avendo i giudici di appello - respinto il motivo di impugnazione concernente il rigetto, in primo grado, dell’istanza istruttoria da essa formulata di ordine di esibizione di documentazione bancaria perché generica ed esplorativa - omesso di rilevare l’assenza di prova, da parte del P. , circa l’effettiva consumazione, per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia, dei redditi derivanti dall’attività di camping, negli anni successivi alla separazione, proventi che sarebbero invece dovuti rientrare nella comunione de residuo e spettare, quanto al 50%, ad essa R. . Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta, poi, la violazione e/o falsa applicazione, ex articolo 360 n. 3 c.p.c., degli artt. 194 1 comma, 820, comma 3, 821, comma 3, e 177 c.c., avendo la Corte d’appello omesso di valutare i frutti civili prodotti da un terreno di proprietà di entrambi i coniugi, rimasto nel possesso esclusivo dell’altro coniuge ed utilizzato da quest’ultimo come parcheggio per i clienti del camping a prescindere dalla contitolarità, negata dai giudici, della suddetta impresa . Infine, con l’ultimo motivo, la ricorrente contesta la violazione e/o falsa applicazione, ex articolo 360 n. 3 c.p.c., del D.M. 55/2004, in punto di liquidazione delle spese processuali, quantificate in 6.000,00, in eccesso rispetto al dovuto, considerando i parametri medi. 2. La prima censura è inammissibile. La comunione de residuo o differita si costituisce su beni i frutti dei beni propri, i proventi dell’attività separata di ciascun coniuge ed i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi, costituita dopo il matrimonio, e degli incrementi di impresa, pur costituita precedentemente solo se ancora esistenti al momento dello scioglimento della comunione. Il coniuge vanta nei confronti dell’altro il diritto di ottenere la metà del residuo. Tuttavia, nella fattispecie, la stessa esistenza, ai momento dello scioglimento della comunione, di introiti dell’attività imprenditoriale svolta dal coniuge, destinati a cadere nella comunione de residuo è rimasta mera affermazione, indimostrata, come accertato nei due gradi di merito, cosicché la censura non coglie la ratio decidendi della decisione impugnata. Neppure ricorre il vizio motivazionale lamentato, in quanto non si denuncia il mancato esame di un fatto storico specifico, ma una questione di diritto, vale a dire il mancato assolvimento all’onere probatorio da parte dell’altro coniuge, in ordine all’avvenuta consumazione dei suddetti proventi. 3. La seconda censura è, del pari, inammissibile. La Corte d’appello, in ordine al motivo di appello concernente l’omessa valutazione dell’introito annuo incamerato dal P. per effetto dell’utilizzo di terreno in comproprietà dei coniugi, quale parcheggio dei clienti del camping, ha affermato che, non avendo la R. impugnato la statuizione, passata dunque in giudicato, dei giudici di primo grado in ordine al fatto che l’azienda individuale Camping Mario di P.M. non costituisse un’impresa gestita in comune, la stessa R. non aveva diritto all’assegnazione del 50% degli introiti dell’attività di parcheggio sul terreno, in quanto connessi all’attività di gestione dell’impresa individuale del coniuge. La Corte d’appello ha ritenuto che gli introiti in contestazione non derivassero dall’uso, in sé, del terreno, in comproprietà dei coniugi, ma fossero connessi esclusivamente all’attività di impresa ivi svolta dal solo P. , essendo il terreno destinato a parcheggio del camping senza l’attività aziendale, il terreno non avrebbe reso i suddetti frutti civili . Ora, non può ritenersi che la R. abbia inteso richiedere, in base ai principi generali articolo 820 comma 3 c.c. , al coniuge rimasto nei possesso esclusivo dei beni fruttiferi nel caso, bene immobile , già appartenenti alla comunione legale, il pagamento, in proprio favore, del corrispettivo pro quota di tale godimento, quali frutti spettanti ex lege , con riferimento al valore figurativo del canone locativo di mercato Cass. 10896/2005 Cass.5504/2012 , avendo, sin dal primo grado, essa chiesto espressamente l’assegnazione del 50% delle somme ricavate dalla gestione del camping, assumendo di essere contitolare dell’attività. Tale cesura introduce pertanto una domanda nuova. 4. La terza censura è infondata. Con riferimento all’asserito vincolo del giudice alla determinazione media del compenso professionale ai sensi del D.M. 55/2014, si deve rilevare che tale vincolo non trova fondamento nella normativa, secondo la quale artt. 1 e 4 il giudice deve soltanto liquidare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe. Con riferimento al DM 140/2012 era stato anche precisato che il giudice era tenuto ad indicare le concrete circostanze che giustificavano la deroga ai minimi e massimi stabiliti dal DM 140/2012 cfr. Cass. n. 18167 del 16/09/2015 Cass. 11 gennaio 2016 n. 253 Cass. 3 agosto 2016, n. 16225 Cass. 2386/2017 . Orbene, applicando tali principi al caso in esame, tenuto conto dei parametri minimi stabiliti per le cause di valore indeterminabile - in rapporto a tutte le fasi previste dal citato DM n. 55/2014, ovvero studio della controversia, fase introduttiva e fase decisionale, l’importo di Euro 6000,00 liquidato risulta entro i limiti tariffari. 5.Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna la ricorrente, al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 4.000,00, a titolo di compensi, oltre 200,00 per esborsi, rimborso forfetario spese generali nella misura dei 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell’articolo 13, comma 1 quater del DPR 115/2002, dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13. Dispone che, ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, articolo 52 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi, in caso di diffusione del presente provvedimento.