Rettificazione anagrafica del sesso possibile anche senza il preventivo intervento chirurgico

La persona ha diritto di ottenere la rettificazione anagrafica del sesso senza doversi necessariamente sottoporre alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali anatomici primari, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale sia accertata, ove necessario, mediante rigorosi accertamenti tecnici in sede giudiziale.

Così la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 30125/17, depositata il 14 dicembre. Il caso. Un uomo, nel 1979, si sottoponeva ad un intervento chirurgico di rettificazione del proprio sesso. Successivamente, presentava domanda al Tribunale di Terni al fine di ottenere l’accertamento della rettifica di sesso e la conseguente rettifica del nome sul proprio atto di nascita. Il giudice di primo grado dichiarava inammissibile la domanda. L’attore, dunque, impugnava il provvedimento alla Corte d’Appello di Perugia la quale, nel 2015, rigettava l’appello. La Corte territoriale, a sostegno della propria decisione, affermava che secondo l’art. 6 l. n. 164/1982 rubricata Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso” -, nel caso in cui l'attore si fosse già sottoposto a trattamento medico-chirurgico di adeguamento del sesso alla data di entrata in vigore di tale legge, la domanda di rettificazione di attribuzione di sesso doveva essere proposta entro il termine di decadenza di un anno dalla data suddetta. Per gli interventi che fossero avvenuti in epoca antecedente alla legge stessa era contemplata la possibilità di sanare l’illecito presentando una domanda tardiva – ammissibile, purchè esercitata entro il predetto termine – da ritenersi come condizione di proponibilità dell’azione. Infatti, ritenendo diversamente, ad avviso della Corte perugina si sarebbe creata una disparità di trattamento tra chi avesse eseguito l’intervento, senza l’autorizzazione del Tribunale, dopo l’entrata in vigore della l. n. 164/1982 – il quale non avrebbe potuto chiedere, in seguito, la rettificazione e chi, invece, avesse praticato illecitamente l’intervento prima della legge, il quale, al contrario, avrebbe potuto proporre l’azione senza alcun limite. Avverso la sentenza l’uomo proponeva ricorso per Cassazione sulla base di quattro motivi. Diritti fondamentali della persona. Il ricorrente, con il primo motivo, lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 l. n. 164 in quanto, venendogli negato il riconoscimento della propria identità sessuale, pur sussistendo i presupposti materiali di intervenuta modificazione dei propri caratteri sessuali, la sentenza impugnata viola i diritti fondamentali della persona. Con il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 6 della l. n. 164 in quanto, considerando il termine indicato come condizione di proponibilità dell’azione, la sentenza impugnata nega al ricorrente la tutela di diritti personalissimi, in primis quello all’identità sessuale. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia il contrasto di interpretazione fatta propria dal giudice del merito con la normativa e la giurisprudenza europea. Infine, con il quarto motivo il ricorrente lamenta l’errata valutazione delle evidenze probatorie e, in particolare, il fatto che l’uomo ha modificato, in seguito ad intervento, i suoi caratteri sessuali, diventando donna, vivendo nella sua vita sociale come una donna ed essendo conosciuto da amici e colleghi come donna. La Corte di Cassazione, ritenendoli logicamente connessi, esamina i motivi congiuntamente e li ritiene fondati. Osservazioni della Corte di Cassazione. Già all’indomani dell’entrata in vigore della l. n. 164/1982 la dottrina si era interrogata sulla ratio e sulla corretta interpretazione dell’art. 6, sostenendo – pur con qualche orientamento difforme che non contenesse una condizione di proponibilità/procedibilità all’esercizio di un diritto fondamentale relativo alla sfera di identità personale. Nella fattispecie in esame, ad avviso dei Supremi Giudici, carattere decisivo assume la questione della natura della limitazione temporale prevista dall’art. 6, ossia se essa possa considerarsi come condizione di proponibilità dell’azione. Perché, se così fosse, decorso il termine di un anno, sarebbe preclusa al ricorrente la possibilità di ottenere giudizialmente la rettificazione di sesso nei registri anagrafici. Per i Giudici della Prima Sezione della Cassazione l’interpretazione data dalla Corte d’Appello di Perugia non merita di essere condivisa. Innanzitutto, da una lettura attenta dell’art. 6, si evince che il decorso del termine di un anno non comporti la decadenza dall’esercizio dell’azione di rettificazione ma precluda, semplicemente la possibilità di ricorrere alla procedura abbreviata” contemplata dal secondo comma dell’art. 3 ora abrogato , secondo il quale il Tribunale, accertata l’effettuazione del trattamento medico di adeguamento sessuale autorizzato, dispone la rettificazione in camera di consiglio, senza che sia necessario che l’interessato chieda preventivamente al Tribunale di essere autorizzato con sentenza a sottoporsi al trattamento stesso art. 3, comma 1, abrogato . Per i Giudici della legittimità l’art. 6 va letto congiuntamente all’art. 7, per il quale l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso estingue i reati cui abbia eventualmente dato luogo il trattamento medico-chirurgico di cui all'articolo precedente. La Corte di Cassazione osserva che la disciplina contemplata dalla l. n. 164/1982 è stata profondamente modificata dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2011. A seguito delle suddette modifiche, pertanto, la rettificazione avviene in forza di sentenza del Tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell'atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali. Pertanto, l’intervento dell’autorità giudiziaria avviene sia con riferimento all’autorizzazione al trattamento medico per l’adeguamento dei caratteri sessuali, sia con riferimento alla rettificazione degli atti anagrafici. Tuttavia, mentre nel primo caso l’intervento è soltanto eventuale poiché l’autorizzazione è richiesta solo quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico chirurgico -, nel secondo, invece, è evidentemente necessario, dovendo il ricorrente esercitare un’azione per conseguire un effetto non automatico. I Giudici della Prima Sezione richiamano un precedente della Suprema Corte n. 15138/15 nella quale, in definitiva, viene riconosciuto il diritto della persona ad ottenere la rettificazione anagrafica del sesso senza doversi necessariamente sottoporre alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari, ravvisando la preminenza della tutela alla loro identità di genere. Ciò purché la serietà e l’univocità del percorso scelto e la compiutezza dell’approdo finale sia oggetto di un rigoroso accertamento in sede giudiziale. Anche la Corte Costituzionale ha confermato tale soluzione n. 221/15 . In definitiva, per i Supremi giudici, essendo stato accertato che l’uomo si era sottoposto ad intervento chirurgico nel 1979, quando l’ordinamento ancora non contemplava alcuna tutela delle persone transessuali, nessun tipo di autorizzazione poteva essere richiesta agli interessati. Pertanto, negare al ricorrente la possibilità di ottenere la rettificazione del sesso in ragione del mancato rispetto del termine annuale di cui all’art. 6 sarebbe fonte di un grave pregiudizio per lo stesso, nonché di una intollerabile disparità di trattamento e di una lesione insanabile di diritti. In conclusione. I Giudici della Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza in oggetto, accolgono il ricorso, cassano la sentenza impugnata e rinviano alla Corte di Appello di Perugia, in diversa composizione, affinché si attenga al principio di diritto secondo il quale il termine di un anno contemplato nel secondo comma dell’art. 6 della l. n. 164 non determina alcuna limitazione alla proposizione della domanda giudiziale di rettificazione di attribuzione di sesso da parte di colui che si sia sottoposto ad intervento chirurgico prima dell’entrata in vigore di tale legge.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, ordinanza 27 ottobre – 14 dicembre 2017, n. 30125 Presidente Bisogni – Relatore Acierno Fatti di causa Con sentenza del 18/06/2015 la Corte d’appello di Perugia ha rigettato l’appello proposto da P.S. avverso la sentenza del Tribunale di Terni che aveva dichiarato inammissibile la domanda del medesimo volta ad ottenere l’accertamento della propria rettifica di sesso, in seguito all’operazione chirurgica cui lo stesso si era sottoposto nel omissis , e la conseguente rettifica del nome sull’atto di nascita ai sensi dell’art. 31, comma sesto, del d.lgs. 150/2011. A sostegno del rigetto la Corte territoriale ha rilevato che la legge 164 del 1982 stabilisce all’art. 6 il termine decadenziale di 1 anno, decorrente dalla sua entrata in vigore, entro cui esercitare l’azione di rettificazione di sesso qualora l’interessato si sia già sottoposto al relativo trattamento medico-chirurgico. La norma in oggetto prevede, quanto agli interventi avvenuti in epoca anteriore alla legge medesima, la possibilità di sanare l’illecito attraverso una domanda tardiva, ammissibile purché esercitata entro il predetto termine, da ritenersi pertanto una condizione di proponibilità dell’azione. Opinare diversamente produrrebbe, a giudizio della Corte d’appello, un’ingiustificata disparità di trattamento tra coloro che eseguono l’intervento in assenza di autorizzazione del tribunale dopo l’entrata in vigore della legge 164/1982, i quali non potrebbero chiedere in seguito la rettificazione di sesso, e coloro che hanno illecitamente praticato l’intervento prima della legge, i quali, al contrario, avrebbero la possibilità di proporre l’azione senza alcun limite. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione P.S. sulla base di quattro motivi, accompagnati da memoria. Ragioni della decisione Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della legge 164/1982, in quanto negando al ricorrente il riconoscimento della propria identità sessuale pur sussistendo i presupposti materiali di intervenuta modificazione dei suoi caratteri sessuali, la sentenza impugnata viola i diritti fondamentali di cui all’art. 3 Cost., artt. 1, 7, 9, 20, 21, 45 della Carta dei diritti dell’Unione Europea e artt. 8, 12, 14 della Cedu. L’art. 1 della legge 164/1982 pone come unica condizione per la domanda dell’interessato l’intervenuta modificazione dei suoi caratteri sessuali e non richiede un intervento chirurgico di modificazione dei caratteri sessuali primari. L’art. 6 è stato previsto per regolamentare i casi in cui un’autorizzazione preventiva non sarebbe stata possibile essendo già intervenute le richieste modificazioni psico-fisiche, ma non può essere interpretato come volto a porre una condizione di proponibilità della domanda di rettificazione di sesso, potendo discendere dal mancato rispetto del termine solo l’impossibilità di avvalersi della forma procedimentale agevolata di cui al secondo comma dell’art. 3 oggi abrogato . Con il secondo motivo viene denunciata la violazione dell’art. 6, L. 64/1982, in quanto, considerando tale termine come condizione di proponibilità dell’azione, la pronuncia impugnata nega al ricorrente la tutela di diritti personalissimi, violando così gli artt. 2, 3, 16 e 32 Cost. Una tale soluzione è irragionevole e discriminatoria, producendo una disparità di trattamento rispetto a coloro che si sono sottoposti all’intervento di adeguamento del sesso dopo l’entrata in vigore della legge, i quali possono proporre sine die domanda di rettifica. Ciò costituisce, inoltre, violazione del diritto di circolazione sancito dall’art. 16 Cost., giacché il ricorrente non è in grado di fornire un documento di identità corrispondente al suo aspetto esteriore. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta il contrasto dell’interpretazione fatta propria dal giudice di merito con la normativa e la giurisprudenza Europea, in particolare con gli artt. 1, 7, 9, 20, 21, 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, e con gli artt. 8, 12, 14 della CEDU. Con il quarto motivo il ricorrente lamenta l’errata valutazione delle evidenze probatorie, in particolare il fatto che il ricorrente è diventato donna attraverso la modificazione dei suoi caratteri sessuali, vive nella sua vita sociale come donna ed è conosciuto da amici e colleghi come donna. In subordine il ricorrente chiede che venga sollevata da questa Corte questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, l. 164/1982, per contrasto con gli artt. 2, 3, 16, e 32 Cost., qualora l’interpretazione data dal giudice di merito dovesse ritenersi l’unica ammissibile. Tutti i motivi, che possono trattarsi congiuntamente in quanto logicamente connessi, sono fondati. Già all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 164 del 1984, la dottrina si è interrogata sulla ratio e la corretta interpretazione dell’art. 6, pervenendo, non senza qualche voce difforme, alla conclusione che la norma non pone alcuna condizione di procedibilità o proponibilità all’esercizio di un diritto fondamentale attinente alla sfera dell’identità personale l’art. 6, L. 164/1982, dispone, al primo comma, che Nel caso che alla data di entrata in vigore della presente legge l’attore si sia già sottoposto a trattamento medico-chirurgico di adeguamento del sesso, il ricorso di cui al primo comma dell’art. 2 deve essere proposto entro il termine di un anno dalla data suddetta . Al secondo comma, abrogato dalla L. 150/2011, il medesimo art. 6 rinvia all’applicazione della procedura di cui al secondo comma dell’articolo 3 , il quale, a sua volta, disciplinava un rito a struttura bifasica, costituito, nella sua prima fase, da un procedimento volto all’ottenimento dell’autorizzazione all’adeguamento chirurgico dei caratteri sessuali qualora tale intervento, ai sensi del primo comma dell’art. 3 cit., risult i necessario , e, nella sua seconda fase, da un procedimento in camera di consiglio per la rettificazione degli atti dello stato civile. Carattere decisivo assume, nel presente giudizio, la questione circa la natura della limitazione temporale di cui alla disciplina transitoria prevista dal citato art. 6, ovvero se essa possa considerarsi una condizione di proponibilità dell’azione tale per cui, in caso di mancato rispetto del termine di decadenza di un anno ivi previsto, all’interessato sarebbe definitivamente preclusa la possibilità di ottenere giudizialmente la rettificazione di sesso nei registri anagrafici. L’interpretazione data dalla Corte d’appello non merita di essere condivisa per due ordini di ragioni. In primo luogo, un’attenta lettura della disposizione in esame induce a ritenere che il mancato rispetto del termine importi come conseguenza non già la decadenza dall’esercizio dell’azione di rettificazione, bensì semplicemente una preclusione rispetto all’esperibilità della procedura abbreviata di cui al secondo comma dell’art. 3, secondo la quale il Tribunale, preso atto dell’effettuazione del trattamento medico di adeguamento sessuale, disponga in camera di consiglio la rettificazione, senza che sia evidentemente necessario che l’interessato, ai sensi del primo comma del medesimo art. 3, domandi previamente al Tribunale di essere autorizzato con sentenza a sottoporsi al trattamento medesimo. L’art. 6, inoltre, deve essere letto congiuntamente al successivo art. 7, il quale dispone che l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso estingue i reati cui abbia eventualmente dato luogo il trattamento medico-chirurgico di cui all’articolo precedente . Come ben osserva il ricorrente, il rispetto del termine di un anno è legato in primis all’estinzione automatica degli eventuali reati cui eventualmente avesse dato luogo il trattamento medico eseguito antecedentemente all’entrata in vigore della legge 164 cit., intendendo il legislatore circoscrivere nel tempo tale effetto estintivo. Un secondo ordine di ragioni, di natura sistematica, rafforza l’interpretazione sopra illustrata. Si deve, in primo luogo, precisare che la disciplina processuale dei procedimenti de quibus è stata profondamente mutata per effetto dell’entrata in vigore del d.lgs. 150/2011, che ha abrogato gli artt. 2 e 3 e 6, comma 2., della legge n. 164/1982, e ha inserito nell’art. 1, comma 2, un rinvio all’art. 31 dello stesso decreto legislativo, che, da un lato, assoggetta le controversie aventi ad oggetto la rettificazione di sesso al rito ordinario di cognizione, dall’altro, regola gli effetti della sentenza che abbia accolto la domanda di rettificazione medesima. Il citato art. 1 della L. 164/1982 prevede che 1. La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali. 2. Le controversie di cui al primo comma sono disciplinate dall’articolo 31 del decreto legislativo 1 settembre 2011, n. 150 . L’art. 31 prevede, per quanto interessa, che 4. Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato. Il procedimento è regolato dai commi 1, 2 e 3 . Pertanto, il coinvolgimento dell’autorità giudiziaria avviene sia con riguardo all’autorizzazione al trattamento medico-chirurgico per l’adeguamento dei caratteri sessuali, sia con riguardo alla rettificazione degli atti anagrafici. Tale coinvolgimento è evidentemente necessario nel secondo caso, in quanto l’interessato è tenuto a proporre un’azione per conseguire un effetto non conseguibile in via di autonomia privata, ponendosi il processo destinato a sfociare in una sentenza di natura costitutiva come elemento indispensabile e non surrogabile della fattispecie cui la legge subordina il prodursi di quel determinato effetto giuridico del tutto eventuale nel primo caso, essendo evidente, già sulla base dell’interpretazione testuale del quarto comma dell’art. 31, d.lgs. 150 cit., che l’autorizzazione è richiesta solo quando risulta necessario il trattamento in oggetto. Con la pronuncia n. 15138 del 20/07/2015 questa Corte ha avuto occasione di affrontare la questione concernente la necessità dell’intervento medico-chirurgico per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile, giungendo alla soluzione negativa sulla base tanto dell’esame testuale delle norme in esame, quanto, in particolare, di un’interpretazione conforme alla Costituzione e alla Convenzione Europea dei diritti umani. In questa prospettiva, da un lato, è stata valorizzata la formula quando risulta necessario di cui all’art. 31 cit., nel senso di ritenere che tale intervento non sia ineludibilmente imposto dalla legge dall’altro, è stato dato rilievo alla circostanza che l’art. 1, primo comma, della l. 164/1982, non specifichi se le intervenute modificazioni debbano riguardare i caratteri sessuali primari o secondari, essendo il desiderio di realizzare la coincidenza tra soma e psiche, anche in mancanza dell’intervento di demolizione chirurgica, il risultato di un’elaborazione sofferta e personale della propria identità di genere realizzata con il sostegno di trattamenti medici e psicologici corrispondenti ai diversi profili di personalità e di condizione individuale Cass. 15138/2015 . Tale soluzione è stata confermata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 221 del 05/11/2015 che - nel dichiarare non fondata la questione di legittimità di cui all’art. 1, primo comma, della L. 164/1982 - ha fornito un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata della norma in esame nel senso di escludere il carattere necessario dell’intervento chirurgico, come corollario di un’impostazione che - in coerenza con supremi valori costituzionali - rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l’assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere . Attraverso il riferimento all’eventualità quando risulta necessario lo stesso legislatore ribadisce di volere lasciare all’apprezzamento del giudice, nell’ambito del procedimento di autorizzazione all’intervento chirurgico, l’effettiva necessità dello stesso, in relazione alle specificità del caso concreto . In altri termini, l’acquisizione di una nuova identità di genere può essere frutto di un processo individuale che non postula l’obbligo di sottoporsi a un’operazione chirurgica, sempre che la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell’approdo finale sia oggetto di un rigoroso accertamento da parte del giudice. Pertanto, se è acquisito che la formula normativa quando risulti necessario di cui al quarto comma dell’art. 31 cit. deve interpretarsi, in base ai principi innanzi richiamati, nel senso di non imporre l’intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari ai fini della rettifica di sesso, a fortiori deve ritenersi che il sub-procedimento delineato dal quarto comma dell’art. 31 cit. che richiede che sia ottenuta l’autorizzazione giudiziale con sentenza passata in giudicato possa essere del tutto pretermesso in quanto evidentemente non necessario qualora l’interessato si sia già sottoposto al trattamento de quo . Come emerso da taluni condivisibili orientamenti della giurisprudenza di merito, richiamati nel ricorso, se è vero che sotto il profilo procedimentale debba, in via ordinaria, pervenirsi all’intervento chirurgico di adeguamento previa autorizzazione giudiziale, è del pari vero che la rettificazione di sesso è ammessa in forza di sentenza passata in giudicato a seguito di intervenute modificazioni dei caratteri sessuali nel significato sopra illustrato , mentre l’autorizzazione giudiziale non è né un presupposto processuale né una condizione di proponibilità dell’azione di rettificazione di sesso, per l’assorbente rilievo che si tratta di un procedimento del tutto eventuale, la cui necessità è, in ultima analisi, valutata dal giudice secondo un apprezzamento che tenga conto di tutte le circostanze e le specificità del caso concreto. Invero, il ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali risulta autorizzabile in funzione di garanzia del diritto alla salute, ossia laddove lo stesso sia volto a consentire alla persona di raggiungere uno stabile equilibrio psicofisico, in particolare in quei casi nei quali la divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualità sia tale da determinare un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della propria morfologia anatomica Corte Cost., sent. 221/2015 . In linea di principio, pertanto, ai sensi della normativa in esame non può escludersi, a meno di interpretazioni manifestamente irragionevoli, che tra i casi in cui l’intervento chirurgico non è necessario rientri anche quello in cui l’adeguamento sia avvenuto prima dell’inizio della procedura giudiziale. Diversamente da quanto ritenuto dal giudice a quo, pertanto, nessuna disparità di trattamento viene a determinarsi tra coloro che eseguono sotto il vigore della legge 164 cit. l’intervento senza autorizzazione, e coloro che l’hanno eseguito antecedentemente, giacché sostenere che coloro che eseguono l’intervento in assenza di autorizzazione del Tribunale sotto il vigore della legge 164 non possono chiedere la rettificazione dell’attribuzione di sesso contrasta insanabilmente con l’impostazione fatta propria dapprima da questa Corte con la pronuncia n. 15128/2015 e successivamente dalla Corte costituzionale con la pronuncia n. 221/2015. In tal modo un soggetto, già sottopostosi a un intervento di adeguamento del sesso seppur senza preventiva autorizzazione giudiziale, perché non richiesta o addirittura non richiedibile anteriormente alla L. 164/1982 , si vedrebbe negare diritti personalissimi, primo fra tutti il diritto all’identità sessuale, la cui tutela costituzionale è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale fin dalla sent. 161/1985 sulla base degli artt. 2 e 32 Cost., e risulta rafforzata dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo sotto il profilo del diritto al rispetto della vita privata e familiare. Si perverrebbe inoltre alla situazione, censurabile sotto il profilo del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., in cui, mentre un soggetto che non intende sottoporsi ad alcun intervento chirurgico otterrebbe comunque - all’esito di un procedimento giudiziale che abbia accertato l’univocità e la definitività del cambiamento sessuale - la richiesta rettificazione anagrafica, tale possibilità sarebbe preclusa per tutti coloro che, pur senza la prescritta autorizzazione, si sono sottoposti a un trattamento medico che manifesta, più di ogni altro elemento, la serietà del loro percorso individuale. Nella specie, come accertato dal giudice di merito, il sig. P. si è sottoposto all’operazione chirurgica di adeguamento sessuale nel 1979, quando, peraltro, l’ordinamento non prevedeva alcun sistema di tutela delle persone transessuali, con la conseguenza che nessun tipo di autorizzazione poteva essere domandata dagli interessati. In definitiva, negare al ricorrente la possibilità di ottenere la rettificazione di sesso in ragione del mancato rispetto del termine di cui all’art. 6 cit. sarebbe fonte, oltre che di un grave pregiudizio per il medesimo, di un’intollerabile disparità di trattamento e di un’insanabile lesione di diritti che, come poc’anzi accennato, risultano tutelati a livello costituzionale e internazionale. Ne consegue, in conclusione, la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio alla Corte d’Appello di Perugia perché si attenga al seguente principio di diritto La previsione temporale contenuta nel comma 1, dell’art. 6, della I. n. 164 del 1982, non determina alcuna limitazione alla proposizione della domanda giudiziale di rettificazione dell’attribuzione di sesso da parte del soggetto che si sia sottoposto ad intervento medico chirurgico di adeguamento del sesso prima dell’entrata in vigore di tale legge . P.Q.M. Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Perugia in diversa composizione.