Due testamenti olografi, tre eredi universali e… il Pubblico Ministero?

La fattispecie relativa alla validità del testamento per incapacità naturale del de cuius non rientra nell’ambito delle azioni riguardanti lo stato e la capacitò delle persone, pertanto, l’intervento del Pubblico Ministero relativamente a detta ipotesi resta facoltativo.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con ordinanza n. 17024/17 depositata il 10 luglio. Il caso. Le attrici, diventate eredi universali della de cuius mediante il primo testamento olografo da quest’ultima lasciato, convenivano in giudizio un’altra erede universale, istituita con un altro testamento, successivo al loro, e ne assumevano l’annullabilità o la nullità. Il Tribunale, però, escludeva che la volontà testamentaria in favore della convenuta fosse affetta da vizi del volere ovvero che la de cuius fosse incapace di intendere e di volere al momento della redazione dell’atto e rigettava, così, la domanda attorea. Ad una diversa soluzione giungeva la Corte d’Appello che, al contrario del Giudice di prime cure, riteneva che il testamento fosse invalido in quanto redatto dalla de cuius allorché incapace di intendere e di volere. La convenute decide di proporre ricorso per cassazione lamentando, fra l’altro, la mancata partecipazione del PM al giudizio di secondo grado così come era avvenuto dinanzi al Tribunale. Intervento del Pubblico Ministero. Gli Ermellini, nel considerare tale motivo di ricorso infondato, affermano che la fattispecie in esame esula dalle ipotesi per le quali è previsto l’intervento obbligatorio del Pubblico Ministero ex art. 70 c.p.c A tale proposito, il Collegio intende ribadire l’orientamento condiviso dalla giurisprudenza secondo cui nei giudizi in cui l’intervento de Pubblico Ministero è facoltativo a norma dell’art. 70, ultimo comma, c.p.c., questi non acquista la qualità di parte necessaria, sicchè non sussiste, in grado d’appello, la necessità di integrare il contraddittorio nei suoi confronti . Non è questo il caso della fattispecie in questione la quale, trattando la validità del testamento per incapacità naturale dalla de cuius , resta un’ipotesi di intervento facoltativo del PM. Pertanto, la Suprema Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 2, ordinanza 20 aprile – 10 luglio 2017, n. 17024 Presidente Petitti – Relatore Criscuolo Motivi in fatto ed in diritto della decisione P.G. e D.M.R. , assumendo di essere state nominate eredi universali di R.V. , deceduta in data omissis , con testamento olografo del 28/2/2006, convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Savona, L.C. che a sua volta era stata istituita erede universale dalla R. con testamento olografo recante la data successiva del 29/9/2006, assumendo che il testamento a favore della convenuta era annullabile o nullo. Il Tribunale in primo grado rigettava la domanda attorea, escludendo che la volontà testamentaria fosse affetta da vizi del volere ed escludendo altresì che la de cuius fosse incapace di intendere e di volere alla data della redazione dell’atto di ultima volontà oggetto di impugnativa. A seguito di appello proposto dalle attrici, la Corte d’Appello di Genova con la sentenza n. 1252/2015 dell’11/11/2015, riformava integralmente la decisione di prime cure, e riteneva che il testamento fosse invalido ex art. 591 c.c., in quanto redatto dalla de cuius, allorché era del tutto incapace di intendere e di volere. Dopo avere osservato che in realtà le attrici avessero proposto anche la domanda di annullamento ai sensi della norma ora citata, dovendosi altresì ritenere che la decisione del Tribunale era comunque scesa nella disamina nel merito della domanda, senza che la questione della sua ammissibilità fosse stata contestata con uno specifico motivo di appello incidentale da parte della L. , nel merito riteneva non condivisibile la valutazione delle risultanze istruttorie sì come operata dal giudice di primo grado. A tal fine valorizzando gli esiti della CTU, e ritenendo invece inattendibili le deposizioni rese dai testi addotti da parte convenuta, reputava che alla data del testamento oggetto di causa, la de cuius già versava in condizioni di salute tali da renderla del tutto incapace di intendere e di volere, non potendosi attribuire rilievo in senso contrario agli episodi riferiti dalle testi in questione. Opinava che quindi fosse onere della beneficiaria del testamento dimostrare che lo stesso era stato redatto in un momento di lucido intervallo, non risultando nemmeno adeguatamente dimostrata l’esistenza di un rapporto affettivo o di familiarità tra la de cuius e la L. che potesse giustificare la designazione della seconda quale erede universale. L.C. ha proposto ricorso avverso tale sentenza sulla base di cinque motivi. P.G. e D.R. hanno resistito con controricorso. Il ricorso è manifestamente infondato. Il primo motivo di ricorso, con il quale si denunzia la nullità della sentenza d’appello per la violazione degli artt. 70, 71, 158 e 331 c.p.c. per la mancata partecipazione al giudizio di secondo grado del Pubblico Ministero che pure era intervenuto nel corso del giudizio dinanzi al Tribunale, è evidentemente privo di fondamento. È indubbio che, esulando la fattispecie dalle ipotesi per le quali è obbligatorio l’intervento del Pubblico Ministero a mente dei primi due commi dell’art. 70 c.p.c. non potendosi fare rientrare nell’ambito delle azioni riguardanti lo stato e la capacità delle persone, la controversia concernente la validità del testamento per incapacità naturale della de cuius , l’intervento pur spiegato in primo grado va ricondotto all’ipotesi di intervento facoltativo di cui all’ultimo comma del menzionato art. 70 c.p.c In tal caso, costituisce orientamento più volte ribadito da questa Corte quello per il quale nei giudizi in cui l’intervento del pubblico ministero è facoltativo a norma dell’art. 70, ultimo comma, cod. proc. civ., questi non acquista la qualità di parte necessaria, sicché non sussiste, in grado di appello, la necessità di integrare il contraddittorio nei suoi confronti Cass. n. 12228/2003 Cass. n. 3093/1974 . I motivi dal secondo al quinto possono invece essere congiuntamente esaminati, in quanto gli stessi, sotto vari profili censurano la sentenza impugnata, che non avrebbe fatto corretta applicazione delle previsioni in materia di invalidità del testamento per incapacità della testatrice, procedendo ad un’indebita inversione dell’onere della prova onerando cioè la L. della dimostrazione dell’effettiva capacità della de cuius al momento del testamento . Inoltre, la decisione gravata non avrebbe dato adeguata contezza delle critiche mosse all’operato del CTU, nonostante le corpose contestazioni sollevate dal proprio perito di parte, violando, anche quanto alla valutazione degli altri mezzi istruttori, le previsioni di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c Inoltre si assume che vi sarebbe stata l’omessa disamina di fatti decisivi per il giudizio quali il rilascio e la revoca della delega bancaria, ovvero le risposte dell’attrice P. in sede di interrogatorio formale, quanto all’utilizzo della delega stessa nonché, quanto alla verifica circa l’esistenza di un rapporto affettivo tra la ricorrente e la de cuius, l’omessa disamina del fatto decisivo rappresentato dalla indicazione della prima nel testamento, quale amica e collaboratrice. I motivi nel loro complesso in realtà mirano unicamente ad una non consentita rivalutazione dei fatti di causa ad opera di questa Corte, sollecitando quindi un diverso apprezzamento delle circostanze fattuali così come insindacabilmente operato da parte dei giudici di merito. Trattasi di conclusione che appare oltre modo impedita alla luce della novellata previsione di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., applicabile al presente procedimento ratione temporis, che nell’interpretazione che ne è stata offerta dalle Sezioni Unite che cfr. Cass. 8054/2014 , è stata intesa nel senso che L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie . In tal ottica la decisione gravata, con dovizia di argomentazioni, ha chiarito le ragioni in base alle quali riteneva inattendibili alcune deposizioni testimoniali, evidenziando altresì come questa valutazione si riflettesse sull’interpretazione delle deposizioni di altri testi quale ad esempio quella della dott.ssa Caja , portando ad una valutazione diversa da quella invece sostenuta dal Tribunale. La sentenza ha ampiamente argomentato circa le ragioni in base alle quali era da condividere l’assunto del CTU cfr. pag. 12 e ss. , al quale erano peraltro state sottoposte le osservazioni critiche del perito di parte ricorrente, non potendosi ritenere che la divergenza di opinioni infici la decisione che invece mostri di preferire le valutazioni espresse dal consulente d’ufficio. La sentenza si fonda sul convincimento, chiaramente di natura fattuale, e come detto riservato al giudice di merito, circa la totale incapacità della de cuius già all’epoca della redazione del testamento oggetto di causa, avendo altresì fornito giustificazione dell’irrilevanza a tal fine delle condotte riferite dai testi addotti dalla convenuta, e tra queste, in particolare, del rilascio e della revoca della delega bancaria, che non costituiscono quindi affatto circostanze non esaminate. Ne consegue che non appare in alcun modo configurabile il dedotto vizio di violazione o falsa applicazione di norma di legge ex art. 360, n. 3, c.p.c. che consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione della fattispecie astratta di una norma di legge e, perciò, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, con la conseguenza che il ricorrente che presenti la doglianza è tenuto a prospettare quale sia stata l’erronea interpretazione della norma in questione da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata, a prescindere dalla motivazione posta a fondamento di questa Cass. n. 26307/2014 . Al contrario, se l’erronea ricognizione riguarda la fattispecie concreta, il gravame inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. Cass. n. 8315/2013 . È evidente che le doglianze di parte ricorrente presuppongono che sia erronea la valutazione in fatto compiuta dalla Corte distrettuale circa la assoluta incapacità della de cuius, sicché una volta reputata insindacabile tale valutazione, devono reputarsi anche prive di fondamento le censure con le quali si assume essere stata violata la previsione di cui all’art. 591 c.c., ovvero che lamentano un’indebita inversione dell’onere della prova. In particolare quanto a quest’ultimo profilo, deve evidenziarsi che la Corte di merito, anche qui con valutazione in fatto non sindacabile in questa sede, ha ritenuto a monte che la patologia di cui era affetta la de cuius alla data cui risale il testamento fosse tale da determinarne l’assoluta incapacità di intendere e di volere, e con carattere permanente, sicché, proprio alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte, era appunto onere della parte che invoca la validità del testamento, e quindi della ricorrente, dimostrare che lo stesso era stato predisposto in un lucido intervallo, dovendosi quindi escludere che la sentenza gravata abbia indebitamente invertito l’onere della prova. Il ricorso deve pertanto essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013 , che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese in favore delle controricorrenti che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, L. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13.