Nessuna integrazione peritale quando l’obiezione di metodo è confutata da tecniche accreditate indicate nell’elaborato

In materia di dichiarazione giudiziale di paternità, è motivata la decisione del Giudice che non disponga l’integrazione della perizia tecnica ematologica/genetica, a seguito di contestazioni specifiche della parte relative alla minore attualità ed esattezza del metodo utilizzato dal consulente di ufficio, ove questi abbia confutato l’obiezione di metodo sollevata dalla parte osservando che le operazioni compiute non si sono limitate ad un esame visivo ma hanno utilizzato sofisticate ed accreditate tecniche indicate nell’elaborato.

La sez. I della Corte di Cassazione con la sentenza n. 17269, depositata il 30 luglio 2014, si è occupata della rilevanza probatoria della testimonianza e degli esami specifici in materia di dichiarazione giudiziale di paternità. In tale ambito sempre maggiore rilevanza acquisiscono le prove ematologiche e genetiche, la cui ammissione e la cui valutazione, anche in ordine alla tecnica di indagine utilizzata dai consulenti, è rimessa insindacabilmente alla discrezione del Giudice di merito. Il fatto. Il Tribunale aveva respinto la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità proposta dalla presunta figlia di un soggetto deceduto parecchi anni prima, sostenendo l’irrilevanza della prova ematologica, stante la mancanza di elementi di prova posti a fondamento del rapporto di filiazione. La Corte d’appello disponeva invece la consulenza tecnica, all’esito della quale il perito escludeva la possibilità di prelevare il dna dalla salma del presunto padre, a causa dell’elevato deperimento del materiale organico, non eseguendo quindi la comparazione. Essendo la perizia negativa, l’appellante richiedeva l’integrazione attraverso l’ausilio di tecniche più evolute, quale il metodo STR, ritenuto più efficace anche su reperti vetusti. La domanda era respinta dall’organo di seconde cure. Avverso la pronuncia proponeva ricorso per cassazione l’erede dell’appellante invocando principalmente la violazione ed erronea applicazione dell’art. 201 c.p.c Nessuna preclusione per la parte che non nomina un proprio consulente. Sosteneva la ricorrente che la scelta della Corte d’appello di rigettare la domanda d’integrazione di perizia e, dunque, l’appello, si poneva in contrasto con la constatazione, fatta dalla medesima Corte, secondo cui l’indagine tecnica fosse l’unico strumento per accertare la discendenza biologica. Il Giudice di seconde cure, nel caso di specie, aveva ritenuto che non avendo la ricorrente provveduto alla nomina di un proprio consulente di parte durante le operazioni peritali, le sue deduzioni critiche, all’esito della consulenza tecnica, non meritassero di essere analizzate poiché tardivamente formulate. Gli Ermellini ritenevano corretta la doglianza della ricorrente relativa alla possibilità di fare delle osservazioni sul metodo e sul risultato d’indagine a prescindere dalla nomina di un proprio consulente di parte. In effetti l’incarico al consulente per la parte costituisce mera facoltà e non obbligo sicché, ove non esercitata, non comporta preclusioni temporali per la formulazione di critiche o richieste di chiarimenti rispetto all’indagine svolta. La Cassazione evidenziava inoltre come tale interpretazione resti confermata anche a seguito dell’entrata in vigore del nuovo art. 195 c.p.c. il cui scopo è evidentemente quello di evitare rinvii e dilazioni successivi al deposito della consulenza e non quello di introdurre decadenze per il soggetto processuale che non abbia nominato un proprio perito. Tale interpretazione veniva avvalorata dalla invariata formulazione dell’art. 194 c.p.c. che, per l’appunto, riconosce alle parti la possibilità di presentare osservazioni alternativamente scritte a voce ovvero a mezzo di consulenti. La completezza di risultato della ctu è valutata dal Giudice del merito. Ferme queste premesse, gli Ermellini chiarivano come nel caso di specie la Corte d’appello avesse fondato la propria decisione di rigetto della richiesta di indagine tecnica supplementare, non sulla tardività del diritto di critica esercitato dalla parte in ordine alla contestazione formulata sui rilievi della ctu, pure richiamato, bensì sulla valutazione di completezza del risultato e sul metodo d’indagine utilizzato. In buona sostanza il Collegio giudicante rilevava come le operazioni peritali compiute dal consulente non si fossero limitate ad una indagine visiva ma avessero utilizzato un metodo scientifico sofisticato specificato all’interno dell’elaborato. Trattandosi di un giudizio espresso in sede di merito lo stesso risultava incensurabile in grado di legittimità poiché adeguatamente motivato. Nessun ordine di gradazione gerarchica delle prove. Parimenti veniva respinta l’ulteriore censura relativa alla decisione della Corte di non ammettere le prove testimoniali richieste. A tale proposito la Cassazione chiariva come in materia non sia possibile individuare un ordine di gradazione gerarchica delle prove, giacché come rilevato in altre occasione dal Supremo organo di legittimità in tal senso Cass., n. 14976/2007 , la perizia può essere disposta anche senza aver acquisito la prova storica dell’esistenza di rapporti tra il presunto padre e la madre all’epoca del concepimento, operando nel nostro ordinamento il principio della libertà di prova ex art. 269, comma 2, c.p.c La Cassazione quindi condivideva la decisione della Corte di Appello che con motivazione logica e coerente si era uniformata ai principi di diritto operanti in materia.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 22 maggio – 30 luglio 2014, n. 17269 Presidente Vitrone – Relatore Acierno Svolgimento del processo Con la sentenza impugnata, la Corte d'Appello di Roma rigettava la domanda di dichiarazione giudiziale di paternità proposta da F.M.G. nel 2006 nei confronti di R.O. , morto l' omissis . Il Tribunale aveva respinto la domanda per mancanza di elementi di prova in ordine al rapporto di filiazione, ritenendo irrilevante la prova ematologica. La Corte d'Appello, invece, disponeva la consulenza tecnica richiesta. Nel corso del giudizio d'appello moriva F.G. e si costituiva l'erede A.M. . Il consulente d'ufficio, disponeva prima l'esumazione della salma del R. per verificare l'effettiva possibilità di effettuare l'esame del dna. Esclusa tale possibilità a causa dell'alto degrado del materiale genetico disponibile, non effettuava alcuna comparazione. La Corte d'Appello, osservava, alla luce delle risultanze negative dell'indagine peritale e delle osservazioni critiche della parte appellante che la consulenza era stata effettuata sulla base di tecniche attuali ed adeguate. In particolare veniva rilevato che la mancata applicazione dell'invocato metodo STR, ritenuto efficace anche su reperti molto vecchi e degradati perché fondato su una genotipizzazione mediante computer non assumeva rilievo dal momento che il consulente d'ufficio aveva materialmente proceduto all'estrazione del DNA dal campione osseo, utilizzando metodiche sofisticate ed accreditate. Avverso tale pronuncia ha proposto per cassazione A.M. affidandosi a quattro motivi. Motivi della decisione Nel primo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell'art. 201 cod. proc. civ., nonché vizio di motivazione in ordine alla ritenuta mancanza di prova desunta dalle risultanze dell'indagine peritale. Ha osservato la parte ricorrente che non può sostenersi la mancanza di prova dal momento che la consulenza d'ufficio non ha dato alcun risultato ovvero non ha determinato alcuna conseguenza né negativa né positiva con riferimento all'accertamento tecnico eseguito. Non risulta pertanto legittima la reiezione dell'istanza di supplemento d'indagine mediante l'adozione del metodo STR, unico idoneo ad eseguire l'esame genotipico anche sul DNA molto risalente anche di mummie e fossili , una volta che, come ritenuto anche dalla Corte d'Appello, l'indagine tecnica sia l'unico strumento di accertamento della discendenza biologica efficace. Risulta, di conseguenza, contraddittorio ritenere, da un lato, la necessità della consulenza tecnica d'ufficio e dall'altro escluderne l'approfondimento sul rilievo della mancanza di un consulente di parte nelle indagini peritali, alla luce dei pareri scientifici pro veritate in atti con i quali sono state formulate osservazioni critiche in ordine al metodo utilizzato dal consulente d'ufficio. Nel secondo motivo viene dedotto il vizio di motivazione per avere la Corte d'Appello rigettato la domanda proposta sulla base di un'indagine lacunosa ed incompleta svolta mediante consulenza tecnica d'ufficio con totale omissione delle considerazioni critiche di parte. Nell'indagine peritale è mancata sia la fase della genotipizzazione del DNA di entrambe le salme sia la comparazione. Ne consegue l'illogicità e la contraddittorietà di una conclusione tratta da un'indagine non eseguita. Peraltro la parte appellante non era tenuta, a pena di decadenza, a formulare le proprie critiche di metodo nel corso delle indagini peritali, essendo la nomina di un consulente di parte un diritto e non un obbligo. Le osservazioni critiche successive dovevano essere tenute in considerazione dal momento che evidenziavano con rigore scientifico, perché fondate su due pareri pro veritate provenienti da scienziati del settore, la concreta possibilità di eseguire l'indagine con metodica più moderna. Nel terzo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell'art. 269 cod. civ., nonché il vizio di motivazione per avere la Corte d'Appello trascurato interamente le ulteriori richieste istruttorie formulate dalla parte ricorrente fin dal primo atto introduttivo del giudizio nonché le allegazioni documentali in atti. Nel quarto motivo viene dedotto il vizio di motivazione in ordine alla statuizione sulle spese legali, per avere la Corte d'Appello applicato il principio della soccombenza mentre sussistevano gravi motivi per compensare le spese legali, desumibili dall'ampio materiale probatorio e dall'esito della consulenza tecnica d'ufficio non imputabile alla parte ricorrente. I primi due motivi possono essere trattati congiuntamente in quanto logicamente connessi. Preliminarmente si osserva che è condivisibile l'assunto del ricorrente secondo il quale non è corretto ritenere che le osservazioni sul metodo ed il risultato dell'indagine tecnica possano essere svolte soltanto in corso di consulenza mediante i consulenti di parte. La nomina di un tecnico di fiducia costituisce esercizio del diritto costituzionale di difesa che non può tradursi né in un obbligo né in una preclusione temporale a prospettare critiche o a richiedere chiarimenti rispetto all'indagine svolta. La nuova formulazione dell'art. 195, secondo comma, cod. proc. civ., peraltro ratione temporis non applicabile al presente giudizio, in quanto instaurato anteriormente al 4/7/2009, non ha modificato la natura e la funzione della nomina dei consulenti di parte ma ha soltanto stabilito che, qualora di essi la parte si avvalga, nell'ordinanza con quale viene conferito l'incarico peritale, deve essere indicato un termine entro il quale il consulente d'ufficio deve mettere a disposizione delle parti costituite la relazione, un altro termine entro il quale devono essere trasmesse al consulente d'ufficio le osservazioni di parte ed infine un ultimo termine entro il quale il consulente d'ufficio deve depositare la relazione peritale, con le osservazioni critiche e le sue repliche ad esse. La procedimentalizzazione della dialettica difensiva nello svolgimento ed all'esito della consulenza tecnica d'ufficio si fonda sull'esigenza di evitare dilazioni e rinvii d'udienza successivi al deposito della consulenza, finalizzati all'esercizio del diritto di critica sull'elaborato peritale. Rimane tuttavia fermo il principio secondo il quale alla parte non può essere impedito di criticare la relazione peritale anche se non abbia tempestivamente nominato i propri consulenti di parte, non avendo la novella processuale introdotto alcuna limitazione o decadenza all'esercizio del diritto di difesa. L'art. 194, secondo comma, cod. proc. civ., rimasto immutato, stabilisce, infatti che le parti possono intervenire di persona o per mezzo di consulenti di parte e possono presentare osservazioni od istanze al consulente per iscritto od a voce, rientrando tale attività nel fisiologico esercizio della funzione difensiva. Deve, tuttavia, osservarsi, che la sentenza impugnata pur avendo erroneamente indicato la scansione temporale per esercitare il diritto di critica alla consulenza d'ufficio, non ha fondato la decisione di non procedere ad un supplemento d'indagine su tale considerazione. La reiezione dell'istanza si è fondata su una valutazione di completezza del risultato e di adeguatezza del metodo, incensurabile in sede di giudizio di legittimità, in quanto esaurientemente motivata. In particolare, la Corte d'Appello ha confutato l'obiezione di metodo osservando che le operazioni compiute dal consulente d'ufficio non si sono fondate su un esame visivo ma hanno preso le mosse dall'estrazione del DNA dal campione osseo prelevato, utilizzando sofisticate ed accreditate tecniche puntualmente indicate nell'elaborato . Si deve, pertanto, rilevare che vi è stata una risposta specifica e puntuale alle obiezioni sollevate dalla parte ricorrente in ordine alla minore esattezza ed attualità della tecnica utilizzata dal consulente d'ufficio. Tale valutazione ha avuto un rilievo autonomo e decisivo nella scelta di non disporre un'integrazione d'indagine tecnica rispetto alla mancata tempestività della critica sulla metodica in corso di consulenza. Si tratta di un giudizio di merito, del tutto incensurabile in questa sede, ove, come nella specie, adeguatamente e specificamente motivato. Il terzo motivo deve ritenersi inammissibile per la parte relativa alla mancata ammissione delle prove testimoniali non essendo stati riprodotti i capitoli esclusi Cass. 6440 del 2007 17915 del 2010 . Per quanto riguarda l'omessa considerazione delle prove documentali, deve rilevarsi che la Corte d'Appello nel dare ingresso alla consulenza tecnica d'ufficio, così come richiesto dalla parte appellante, ha ritenuto non sufficienti i riscontri probatori di natura presuntiva, acquisiti nel giudizio, valutando, invece, come decisiva, l'indagine tecnica. Tale rilievo dominante, peraltro, è del tutto coerente con gli orientamenti di questa Corte, secondo i quali, non sussiste una gerarchia assiologia o cronologica tra i mezzi di prova volti ad accertare la paternità e, conseguentemente, può darsi luogo alla consulenza tecnica d'ufficio anche senza aver acquisito la prova storica dell'esistenza di rapporti sessuali tra il presunto padre e la presunta madre all'epoca del concepimento, Cass. 14976 del 2007 19583 del 2013 proprio in virtù del rilievo decisivo dell'indagine sull'analogo rilievo probatorio del rifiuto ingiustificato a sottoporsi all'esame ematogenetico Cass. 12971 del 2012 . In conclusione, la Corte d'Appello ha fatto buon governo dei principi sopraesposti, disponendo la consulenza ematogenetica alla luce di un quadro probatorio valutato, ancorché implicitamente, insufficiente, anche in considerazione dell'epoca molto risalente dei fatti. Sotto quest'ultimo profilo il motivo deve, pertanto, ritenersi infondato. L'ultimo motivo di ricorso è infondato. La Corte d'Appello ha applicato il principio della soccombenza, ovvero la regola cardine del regime delle spese processuali. La diversa opzione della compensazione in ragione di gravi motivi costituisce esercizio di potere discrezionale del giudice del merito. La mancata applicazione della deroga la compensazione rispetto al principio generale della soccombenza non è sindacabile in sede di giudizio di legittimità neanche sotto il profilo del vizio di motivazione non essendovi un obbligo di motivazione specifico quando venga applicato il canone normativo generale. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. P.Q.M. La Corte, rigetta il ricorso. In caso di diffusione omettere le generalità.